Qualche mese fa, mentre i musei di tutto il mondo socchiudevano le loro porte aspettando che il pubblico tornasse di nuovo a visitarli, questa frase di Maira Kalman risuonava ancor più forte: “una visita al museo è ricerca di bellezza, verità e significato nelle nostre vite. Andate al museo più spesso che potete”. Il bisogno di compiere una visita in risposta alla costante ricerca di bellezza, verità e significato nelle nostre vite, come sostiene Kalman, sarebbe dunque uno dei tanti motivi di questo lento ritorno, in alcuni casi un po’ più rapido ma di poco, del pubblico ai musei.
La necessità dei musei di riaprire continua ad essere una meta ambita, già promossa durante il lockdown da molti, tra i quali, per esempio, Andras Szanto su artnet.com. Di rilancioimmediato si discute, almeno in parte, in risposta al bisogno di avere spazî di conforto. E riaprire i flussi di entrate che la pandemia almeno in parte ha prosciugato potrebbe essere una delle tante ragioni.
Ci sarebbe forse una necessità maggiore di ripensare e reinventare gran parte di ciò che si pensava, dandolo per scontato, fosse la spina dorsale della tradizionale istituzione museale. Gran parte di queste metodologie sono state già testate, e anche pubblicate su libri o presentate nelleconferenze. Potrebbero essere bollate come radicali o utopistiche, ma dal momento che l’impensabile è diventato la nuova realtà, il cambiamento potrebbe diventare tanto più rapido quanto più diventerà questione di “necessità che aguzza l’ingegno”. E proprio di questo si trattava il mio intervento all’edizione di quest’anno di Ravello Lab.
La domanda da farsi è quella suggerita da Mami Kataoka, direttrice del Mori Art Museum di Tokyo e presidente del CIMAM (Comitato Internazionale dei Musei e delle Collezioni d’Arte Moderna), all’indomani del terremoto e dello tsunami del Giappone del 2011: “quali sono le ragioni essenziali per cui dovrebbero esistere un museo, una comunità artistica o l’arte stessa?”.
Austin Camilleri, Prayer (dettaglio) |
Il cambiamento potrebbe prendere piede proprio in queste circostanze tragiche. Così come Forbes parla di come la pandemia di coronavirus stia accelerando il futuro del lavoro, lo stesso dovrebbe accadere per i musei. Viviamo nella speranza che il Covid-19 abbia accelerato lo spostamento verso un museo centrato sull’essere umano. Scrivendo a proposito del museo post-coronavirus, Dan Spock ha condiviso alcuni spunti validi in tal senso, affermando che le idee o le ambizioni stereotipate del museo fossero arrivate a un punto critico già prima della pandemia di Covid-19. La sua visione è sicuramente influenzata da ciò che accade nel paesaggio museale americano, ma in parte è vera anche per l’Europa e altre realtà.
E allora, su quali cambiamenti potrebbe farci riflettere la pandemia di Covid-19, mentre noi riapriamo porte che sono ancora relativamente chiuse, nonostante tutto il buon uso che si è fatto della tecnologia? Che cosa l’ecologia dei musei, adesso più interconnessi e in contatto che mai, dovrebbe considerare in questa situazione?
Le tre riflessioni che seguono sono state ispirate da quanto stiamo vivendo giorno dopo giorno. Sono sicuro che ce ne siano di più da considerare, e altri potrebbero aggiungere le loro a queste. Io vivo nella speranza che i musei di tutto il mondo non si tirino indietro di fronte ai costanti interrogativi che potrebbero tirarli fuori dai guai e che cerchino, invece di una nuova normalità, una rinascita.
Austin Camilleri, Prayer (dettaglio) |
Visite sostenibili
In uno degli scorsi contributi, ho tenuto in considerazione le reazioni incostanti e sconcatenate che i musei hanno avuto mentre cercavano di rimanere rilevanti a porte chiuse. E penso che la transmedialità sia più valida che mai nel caso dello scenario post-Covid-19. La transmedialità può infatti ispirare un nuovo tipo di visite sostenibili in risposta alle restrizioni e alle preoccupazioni (e qui ne sottolineo alcune) che i musei dovranno affrontare.
Possiamo prendere a esempio l’esperienza cinese per capire meglio come sarà il futuro imminente dei musei. La visita ai musei cinesi nel post-Covid-19 è caratterizzata da estese misure precauzionali che includono la mascherina, i sistemi di QR code con i quali i visitatori possono pre-registrarsi online, la presentazione di un certificato medico. Inoltre il numero dei visitatori è tenuto sotto controllo limitandolo al 50% della capacità complessiva. Alcune di queste misure di sicuro potranno essere applicate in Europa e altrove, in particolare il distanziamento fisico e le restrizioni sugli accessi. Altre saranno più difficili da introdurre, per non parlare della loro sostenibilità. È corretto considerare che ogni paese avrà le proprie regole e linee-guida da seguire. Al di là dell’esperienza cinese, le cose sembreranno di sicuro diverse quando i musei avranno a che fare con servizî e spazî che non sono stati disegnati e concepiti pensando ai rischi di una pandemia.
Inoltre, la stessa esperienza del museo, al suo interno, sarà sottoposta a esami ancor più minuziosi per via dell’incremento delle misure igieniche. Mi riferisco ai problemi relativi ai touchscreen e ad altre esperienze tattili che sono ormai inutilizzabili.
Austin Camilleri, Prayer (dettaglio) |
Condivisione della conoscenza e gestione delle risorse
I musei di tutto il mondo hanno più accesso alla conoscenza che mai prima d’ora, grazie ai webinar e alle chat. Questo è in effetti un aspetto positivo che avvicina notevolmente la comunità globale dei musei. Posso citare i musei europei come un buon esempio di questa sensazione generalizzata, menzionando le osservazioni del segretario generale di NEMO, Julia Pagel, riportati in un’intervista. La necessità di sentirsi e di agire come una comunità sta acquisendo sempre maggiore importanza, ha notato Pagel, e sarebbe un grande successo se il settore riuscisse ad adottare un approccio europeo, incrementando le collaborazioni e la comunicazione tra gli istituti: “il lavoro nei musei, così come qualsiasi altra forma di lavoro odierna, si colloca in un contesto globale... i musei non sono isole”.
Si tratta sicuramente di uno sviluppo positivo, che potrà portare benefici ai musei di piccole e medie dimensioni, gran parte dei quali sta lottando per rimanere a galla: alcuni di loro potrebbero anche non avere le risorse per gestire una presenza forte sui social media, o per prendere in considerazione misure che le istituzioni più grandi possono mettere in atto con poche difficoltà. La condivisione delle risorse potrebbe essere la chiave per sbloccare il necessario supporto di cui i piccoli musei necessitano in questo periodo così importante, e questo potrebbe avvenire anche a prescindere dai fusi orari o dai territori, adesso più che mai.
C’è un rischio da considerare riguardo alla gestione delle risorse. Il sondaggio NEMO ha segnalato una misura buona, quella del reimpiego dei dipendenti affinché lavorino sulla presenza social dei musei, magari introducendo servizi aggiuntivi da offrire attraverso i siti web. È lodevole, ma un approccio più strutturato al reimpiego dovrebbe ritenere uno standard necessario le competenze e la professionalità di uno staff che lavori sulle tecnologie e sui social. La formazione potrebbe essere la strada, ma come rimarcato anche dal sondaggio NEMO, potrebbe anche trattarsi di impiegare le giuste competenze per fornire contenuti di qualità. È accaduto con alcuni musei all’inizio del lockdown. Speriamo che tutto questo possa essere sviluppato in modo più strutturato e strategico rispetto alle modalità che le attuali circostanze rendono possibili.
Austin Camilleri, Prayer |
Modelli di finanziamento per esperienze spirituali
Non vorrei concludere questo articolo senza considerare la dialettica (e forse il paradosso) che oppone l’idea di museo come luogo di conforto alla necessità di finanziarlo in maniera adeguata per consentirgli di continuare a funzionare. Molto si è scritto a proposito di questo punto nelle ultime settimane e negli ultimi mesi, e vorrei qui elencare alcuni contributi nei quali mi sono imbattuto nei giorni scorsi. I musei d’arte sono molto più presenti in questo dibattito. L’ad del Bozar Centre of Fine Arts di Bruxelles, Paul Dujardin, propugna una exit strategy ispirata dalla rilevanza e dalla soverchiante importanza dell’arte: “oggi abbiamo bisogno di un mondo che salvi l’arte per assicurare che un domani i ruoli si invertano. Presto i nostri artisti saranno intensamente richiesti per modellare la forma, il senso e i contenuti dell’era post-coronavirus”.
Intervistato dal quotidiano inglese The Evening Standard, il direttore del Victoria and Albert Museum, Tristram Hunt, spinge per rinnovati obiettivi attraverso i quali i musei potrebbero rivestire un ruolo vitale durante la ripresa: “musei ben visitati e ben gestiti potrebbero servire, come avrebbe detto Henry Cole, in quanto istituti energici e significativi in quest’epoca di tensione e isolamento”.
I commenti di Hunt potrebbero suggerire che la nuova definizione di “museo” oggetto di discussione all’ICOM lo scorso anno, e che aveva più senso come dichiarazione d’intenti prima della pandemia di Covid-19, potrebbe ottenere più consenso nei mesi a venire rispetto a quanto ne avesse ottenuto prima.
Quello che mi pare manchi è la necessità di riconciliare le nuove forme di museo, che sono più presenti e rilevanti per le loro comunità, con un modello di finanziamento che ha spesso misurato il successo in termini di numeri di visitatori e con un modello di business fondato su servizi esclusivi, come l’affitto di sale, fondati sul prestigio e sullo status. Alcuni osservatori, come l’ex direttore del Fondo Monetario Internazionale, Carlo Cottarelli, hanno sottolineato la necessità che i musei ottengano sovvenzioni e sussidi in questo periodo cruciale. Cottarelli ritiene che le aziende possono generare fatturato fin dal primo giorno in cui torneranno a lavorare, al contrario dei musei che invece saranno gestiti in perdita per mesi se non per anni, sempre ammesso che riescano a sopravvivere.
Le comunità potrebbero essere presenti per garantire un sostegno economico. Mi sono imbattuto in un caso particolare che riguarda un piccolo museo. Il Charleston House Museum nell’East Sussex (Regno Unito) ha lanciato una campagna di crowdfunding per bilanciare una perdita di circa mezzo milione di sterline. E di sicuro c’è molto altro che aspetta di essere scoperto.
La ricerca del giusto modello di finanziamento, che garantisca giustizia sociale e rafforzi la democratizzazione dello spazio museale potrebbe, essere ancora in fase embrionale. Ma è comunque ora di far sentire più urgente la necessità e l’ambizione di essere più connessi alle comunità locali.
Austin Camilleri, Kuruna |
Le opere in questo articolo sono dell’artista maltese Austin Camilleri. Il repertorio di Camilleri include installazioni, dipinti, disegni, video e sculture. Ha anche lavorato come curatore e ha esposto i suoi lavori in diversi istituti europei e internazionali.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Sandro Debono
Pensatore del museo e stratega culturale. Insegna museologia all'Università di Malta, è membro del comitato scientifico dell’Anchorage Museum (Alaska) oltre che membro della European Museum Academy. Curatore di svariate mostre internazionali, autore di svariati libri. Scrive spesso sui futuri del museo ed ha il suo blog: The Humanist Museum. Recentemente è stato riconosciuto dalla Presidenza della Repubblica Italiana cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia e dal Ministero della Cultura Francese Chevalier des Arts et des Lettres per il suo contributo nel campo della cultura.