Ci risiamo: una notizia “spericolata” (così l’ho definita su La Repubblica), rimbalzata su stampa e televisione, con tanto di servizio sulla RAI, anche il “Caravaggio” sotto lente a Madrid se l’è già guadagnata. Un giallo d’appendice su di una vicenda di per sé enigmatica, di cui vale la pena parlare proprio in virtù del risalto mediatico ottenuto. Ma anche per mettere in evidenza il confronto con quando a sbilanciarsi sono, invece, studiosi del calibro di Rossella Vodret (nella seconda parte di questo articolo). Ipotesi, congetture, pareri, contro-pareri, con largo uso del condizionale, fanno parte del DNA della storia della critica dell’arte. Ma riavvolgiamo il nastro.
Mentre i critici d’arte più accreditati, da Vittorio Sgarbi a Maria Cristina Terzaghi a Stefano Causa o a Keith Christiansen, si contendono sulla stampa il primato dell’attribuzione al Merisi del dipinto ritirato dall’asta l’8 aprile presso la casa Ansorena, dove già aveva depositato la sua perizia in favore del Caravaggio Massimo Pulini, in parte pubblicata su “Avvenire”, e il governo spagnolo che decide di bloccarne l’esportazione, un’Ansa lancia la notizia di una “pista siciliana”. Fino a quel momento il quesito era stato: può davvero l’Ecce Homo essere un’opera del grande artista finita in Spagna e di cui si era perduta memoria per secoli? L’agenzia del 10 aprile lancia poi questo nuovo interrogativo: può trattarsi dell’Ecce Homo della collezione del castello di Roccavaldina in Sicilia? Ma su quali elementi si baserebbe questa nuova “pista siciliana”? Nuova rispetto a quella con cui Roberto Longhi (1954) aveva forzato la testimonianza del Bellori di un originale dipinto per i “Signori Massimi”, suggerendo di leggere “fu portato in Spagna” in modo estensivo per domini spagnoli e quindi Sicilia. Il riferimento, però, era all’Ecce Homo nel Museo di Palazzo Bianco a Genova, di cui nell’isola esistono diverse copie.
Caravaggio (attr.), Ecce Homo (olio su tela, 111 x 86 cm) |
La pista siciliana che porterebbe a Roccavaldina si basa, invece, sul nulla. Si legge nell’Ansa: “Fonti storiche parlano di un Ecce Homo (d’autore ignoto) posseduto dal principe Andrea Valdina, originario di Rocca Valdina, nel Messinese. Alla morte dell’aristocratico, i suoi beni furono ereditati dal figlio Giovanni, che redasse un inventario sulle opere presenti nel palazzo palermitano del padre, nel quartiere Kalsa. Tra queste ci sono un ‘Christo con la croce in collo’ del Caravaggio e un Ecce Homo attribuibile allo stesso ciclo. Entrambi i dipinti furono trasferiti, nel 1672, al castello della Rocca. Qualche anno dopo Giovanni Valdina lasciò l’Italia per la Francia. Con l’ultimo principe si estinse il ramo principale della famiglia e le opere andarono perdute. Le ultime notizie si fermano al 1676. Che l’Ecce Homo possa appartenere allo stesso autore del Christo, è suggerito da un altro elemento contenuto nell’inventario: le due opere misurano entrambe ‘5 palmi per 4’, come annotò Giovanni Valdina”.
L’ipotesi che l’Ecce Homo di Madrid possa essere quello appartenuto al Valdina è di una giovane storica dell’arte siciliana, Valentina Certo, che ha consegnato le notizie sulla collezione in provincia di Messina al libro in cui ha pubblicato la tesi di laurea.
La nuova “geolocalizzazione” critica è tanto precisa e puntuale... da contenere in sé elementi che avrebbero dovuto consigliare maggiore cautela. Nel richiamare l’inventario redatto alla morte del principe Valdina si ricorda, infatti, che vi viene menzionato come del Caravaggio un Cristo portacroce, mentre l’Ecce Homo è di anonimo. Dunque, nemmeno tramandato come di mano del Merisi.
Ora, si sa che con questo tipo di inventari, sa che anche la sola attribuzione al Caravaggio non è sufficiente prova che di un Caravaggio davvero si fosse trattato, essendo pratica assai diffusa quella di accrescere il valore della collezione con attribuzioni altisonanti. Anche la migliore delle copie siciliane dell’Ecce Homo a Genova, quella al Museo Regionale di Messina, prima di essere ricondotta ad Alonzo Rodriguez, ebbe una lunga attribuzione allo stesso Caravaggio.
Inoltre, secondo questa “pista Roccavaldina”, la sola progressione numerica sarebbe motivo sufficiente a correlare l’ “Ecce Homo” (n. 7) di un anonimo al “Cristo portacroce” (n. 8) di un presunto Caravaggio; e ad attribuire a uno stesso ciclo entrambe le opere. E a chiudere l’anello di un forse Caravaggio su un presunto Caravaggio si sottolinea la corrispondenza di misure col Caravaggio (?) spagnolo (111 x 86 cm). Misure consuete da quadro da cavalletto. Non ci troviamo, cioè, di fronte a un grande formato come quello del Seppellimento di santa Lucia, per intenderci.
Si sta, peraltro, parlando di opere perdute, e di cui non è pervenuta, nemmeno in modo indiretto, una qualche testimonianza. Il nulla, appunto.
In assenza di qualsiasi altro elemento, allora, si è pensato con la “pista Roccavaldina” di annodare anche un labilissimo nesso con la presenza di copie o derivazioni iconografiche presenti in Sicilia. Derivazioni puntuali, come per l’esemplare ricordato di mano del Rodriguez, dall’Ecce Homo di Genova. Non di quello comparso a Madrid. Si è fatto anche il nome di Mario Minniti. Nulla di più lontano dalla concentrata potenza del quadro ritirato dall’asta di Madrid dalle versioni dell’amico siracusano: basta accostare la tavola con l’Ecce Homo al Museo della Cattedrale di Mdina (Malta) per rendersi conto di come ci sia una siderale distanza qualitativa. Ma anche compositiva: l’affondo nella terza dimensione lungo la diagonale sulla quale si dispongono le tre figure di Madrid; il più ordinario appiattimento del Cristo sui due uomini alle spalle nel Minniti.
Non bastano tre figure per agitare apparentamenti. Rientra, infatti, nell’iconografia dell’Ecce Homo (anche se viene usata per opere che rappresentano l’ “Uomo dei dolori”, con la figura solitaria del Cristo) la presenza di Pilato che pronuncia la frase di scherno davanti a Gesù, offerto alla derisione come caricatura di un re con la corona di spine, la canna in mano a simulare uno scettro e un drappo rosso parodia dei manti purpurei degli imperatori, e quella dello sgherro intento a coprirgli le spalle col beffardo mantello. Non a caso l’occhio critico di Sgarbi su Il Giornale si è posato, subito dopo le figure, sul parapetto in primo piano, “grande e inedita soluzione spaziale, per distanziamento morale dall’orrore e dalla malattia del turpe episodio”. È un elemento funzionale alla scena plateale, che evoca la folla di persone che assiste al Cristo fatto uscire dal Sinedrio e offerto alla derisione. Una folla che viene a coincidere con chi osserva il dipinto, di cui sembra potersi sentire il chiacchiericcio contrapposto al concentrato silenzio dei protagonisti.
Per l’impostazione delle figure entro la scena, semmai, una qualche suggestione si può ritrovare in ambito genovese. Penso all’Ecce Homo in collezione privata di Gioacchino Assereto, che supera i suoi consueti esercizi sui testi del Caravaggio, per raggiungere qui un serrato dialogo gestuale in cui convergono da presso le mani dei tre protagonisti. Proprio come nell’esemplare spagnolo. È una cifra caravaggesca su cui mi sono soffermata nel saggio per il catalogo della mostra Caravaggio. Il contemporaneo al Mart di Rovereto: il linguaggio muto della gestualità, con cui il Merisi riconduce nelle sue opere la realtà “semplicemente”, per dirla con Brandi, alle sue linee essenziali. Gestualità che è possibile raccordare entro uno schema geometrico triangolare in molte opere autografe, come per queste mani in primo piano del Cristo, Pilato e sgherro di Madrid. È qui che si condensa la forza della composizione. Altro che Minniti. Non a caso per il dipinto spagnolo sono stati fatti anche i nomi di maestri del calibro di José de Ribera o Battistello Caracciolo. Ma anche a volersi fermare su un particolare come il parapetto è assente in Minniti. Lo si ritrova nella versione del Cigoli (a Palazzo Pitti, Firenze) nella gara col Caravaggio per Massimi ricordata dalle fonti, ma pure nello stesso ambito genovese: oltre che nell’Ecce Homo di Palazzo Bianco, o in Assereto, anche nel suo maestro Luciano Borzone, dove, però, manca quella intenzione caravaggesca dei gesti, che sembra aver fatto propria l’allievo.
È certo, comunque, che la partita non possa giocarsi solo sul terreno della connoisseurship. Più che per qualsiasi altro pittore, il catalogo riconosciuto come autografo è stato ormai abbondantemente sottoposto a indagini diagnostiche. Come il ricordato Ecce homo di Genova. Già non concordemente riconosciuto a Caravaggio dalla critica, lascia perplessi, però, che possa essere “minacciato” da quello di Madrid sulla base di una tesi non documentata a sufficienza proprio sugli aspetti tecnici. Un restauro del 2003 ha evidenziato diversi indizi che sarebbero della mano del Merisi, tra cui delle tipiche incisioni. Indizi non sufficienti, dicevamo, per alcuni studiosi. Evidentemente ignorando questo restauro, però, per Massimo Pulini questi solchi-spia non sarebbero presenti nel dipinto genovese, a differenza di quello spagnolo. Tanto gli basterebbe a scalzare l’autografia di questo precedente genovese. Insomma, altri, e non proprio questo, sarebbero gli elementi da giocarsi.
Ecco, allora, perché mai come in questo caso vale la pena aspettare prudentemente che a parlare siano le indagini diagnostiche, prima che le “piste” si trasformino in depistaggi. Mentre intanto la stessa Certo ha finalmente… modo di chiarire in un ultimo articolo su “Le vie dei tesori” ciò che a suo dire i giornalisti avrebbero frainteso: “non è mia intenzione suggerire piste o parlare di gialli”; il dipinto di Madrid “non l’ho visto di persona, dunque non posso fare alcuna ipotesi”.
Evidentemente, non è chiaro che ciò che avrebbe richiesto maggiore cautela non è l’attribuzione che vede impegnati fior di critici, ma quella di aver messo in piedi un’ipotesi che poggia sul nulla, meglio ribadirlo. Questa: “credo sia importante sapere che anche da noi c’era un Ecce Homo attribuibile a Caravaggio e che non sappiamo dove sia andato a finire. È una piccola storia che merita di essere raccontata”. Ma non aveva appena finito di dire che non era sua intenzione suggerire piste?
Caravaggio (?), Ecce Homo (1605-1610 circa; olio su tela, 128 x 103 cm; Genova, Musei di Strada Nuova - Palazzo Bianco) |
Alonso Rodríguez, Ecce Homo (olio su tela, 210 x 108 cm; Messina, Museo Regionale) |
Mario Minniti, Ecce Homo (1625; olio su tela; Mdina, Cattedrale) |
Gioacchino Assereto, Ecce Homo (1640 circa; olio su tela, 124,5 x 97 cm; Collezione privata) |
Valeva la pena raccontare questa storia, per capire che abisso ci sia tra un’ipotesi “spericolata” e quella che si è sbilanciata a fare una studiosa tra i massimi esperti di Caravaggio, Rossella Vodret, alla quale si deve anche un volume con l’opera completa del maestro. Così come, del resto, non hanno saputo resistere dall’osservare questo o quell’altro dettaglio altri studiosi del Caravaggio, riservando comunque il proprio giudizio compiuto alla ri-apparizione del quadro pulito e sottoposto ad indagini.
Ma cos’è che ha detto Vodret? “Ho avuto subito la sensazione”, ha spiegato in un’intervista a Federico Giannini, “che la figura di Pilato fosse un autoritratto tardo: vediamo un Caravaggio invecchiato, dimagrito rispetto agli autoritratti giovanili, però secondo me è lui, non ho molti dubbi”.
Dettaglio del volto di Pilato |
C’è, però, un particolare che potrebbe incrinare questa certezza. Ci sono arrivata mentre sottoponevo ad autocritica me stessa per prima. Su La Repubblica, accennando al Minniti, in un primo momento mi era sembrata dell’amico e allievo pittore del Caravaggio la fisionomia dello sgherro alle spalle di Cristo. Avevo, però, finito poi per scrivere che avrebbe potuto trattarsi, invece, del Caravaggio in persona: “A quello che vediamo in opere come il Seppellimento di santa Lucia, la Cattura di Cristo di Dublino, o il Martirio di Sant’Orsola di Napoli si potrebbe accostare il volto del giovane sgherro che tende sulle spalle di Cristo il beffardo mantello di porpora. ‘Non può che essere di Caravaggio’, osserva Maria Cristina Terzaghi (…). E se fosse Caravaggio stesso?”.
Riflettendo, però, ad articolo ancora caldo di stampa, su quali sono i personaggi nei quali Caravaggio si autoritrae, sia come protagonista che come soggetto secondario, devo rivedere la prima impressione: difficile riconoscerne uno nello sgherro. Ma, sulla scia dello stesso ragionamento, anche nel Pilato. Quando, infatti, compare da solo come protagonista, Caravaggio veste i panni di una figura mitologica, come il Bacchino malato; nei soggetti religiosi, invece, è una comparsa alla Hitchcock, che assiste alla scena, confondendosi nella mischia, come si vede, oltre che nei dipinti sopra ricordati, anche nel Martirio di San Matteo. Quando, invece, in una scena sacra è uno dei protagonisti, allora è la vittima: il generale assiro Oloferne decapitato da Giuditta, Golia decapitato da David o San Giovanni Battista decollato da Salomè. Caravaggio si sarebbe, dunque, mai raffigurato nei panni, siano essi di un Pilato o di un anonimo sgherro, di chi deride Cristo? Francamente mi sembra inverosimile come suggestione.
Contro l’ipotesi dell’autoritratto nei panni di Pilato, c’è, in più, quel particolare a cui accennavo: un vistoso neo sulla sua guancia destra, che non compare in nessuno degli autoritratti riconosciuti.
Insomma, se non è Caravaggio, ci troviamo, comunque, di fronte a un’opera d’arte tanto misteriosa. E come si vede, insidiosa.
L'autrice di questo articolo: Silvia Mazza
Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e dal compianto Folco Quilici nel suo ultimo libro Tutt'attorno la Sicilia: Un'avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).