Quali sono le star dei musei di Vercelli, quei capolavori imperdibili che raccontano la storia della città perché strettamente legati al territorio? Anche se la città piemontese esce solitamente dal circuito dei grandi centri urbani d’arte italiana, Vercelli custodisce opere di richiamo internazionale che costituiscono testimonianze della vita culturale e sociale e delle vicende storiche che si sono succedute sul territorio.
Lasciando da parte per un momento l’arte, anche se non così tanto come sembra, il paesaggio vercellese è dominato dalla coltura del riso, tanto da considerare Vercelli la “provincia europea del riso”: le risaie si estendono infatti per chilometri e chilometri e, anche se oggi il lavoro nella risaia è diventato completamente meccanico, non si dimenticano i tempi in cui erano le donne, le cosiddette mondine, a trascorrere intere giornate a piedi nudi, con l’acqua fino alle ginocchia e con la schiena ricurva nei campi per eliminare le erbacce infestanti che altrimenti avrebbero impedito la crescita delle piantine di riso. Un lavoro duro in condizioni pesanti, spesso mal retribuito, che è stato ben raffigurato in un celebre dipinto di Angelo Morbelli (Alessandria, 1853 - Milano, 1919) del 1895 - 1897: Per ottanta centesimi!, titolo che rimanda, con un chiaro intento di critica sociale, alla retribuzione ridotta delle mondine nonostante ore lavorative che superavano almeno del doppio le otto ore. Risalgono proprio a quegli anni i primi scioperi nelle risaie per ottenere le otto ore contrattuali e retribuzioni più eque: ci fu da aspettare fino al 1906 per il raggiungimento di questi diritti. L’opera può essere considerata la star del Museo Borgogna perché viene spesso data in prestito per mostre di respiro internazionale, ma soprattutto perché è un vero spaccato di storia sociale ed economica del territorio vercellese e della coltura tipica del riso, divenuta patrimonio unico in Europa. Le lavoratrici nella risaia qui raffigurate procedono all’indietro, su due file, e con le gambe nell’acqua e rivolte di schiena trapiantano le piantine di riso. Si tratta di un’opera fortemente divisionista a cui l’artista sceglie di dare un taglio fotografico, facendo entrare nell’inquadratura solo i campi e le donne al lavoro. Il dipinto fa parte della collezione del Museo Borgogna quasi dall’apertura al pubblico dalla sede museale: fu infatti acquistato nel 1912 alla Mostra d’Arte della campagna irrigua che si tenne a Vercelli.
Il museo venne aperto quattro anni prima, nel 1908, su testamento di Antonio Borgogna (Vercelli, 1822 - 1906), avvocato appassionato d’arte e di viaggi che compì sia in Italia che all’estero. Fu un grande collezionista della ricca borghesia di fine Ottocento, nonché noto filantropo: aiutò economicamente le scuole cittadine, finanziò molti monumenti pubblici, tra cui la prima fontana di acqua potabile della città, e sostenne con borse di studio donne e giovani artisti. La sede museale, che prima di essere aperta al pubblico costituiva la sua casa-museo, è tuttavia intitolata a Francesco Borgogna, padre del collezionista, al quale doveva tutto, “vita, sentimenti e ricchezze”: doveva riunire la sua collezione (che lui definiva Galleria) che comprendeva un repertorio completo di tutte le arti e di tutte le tecniche artistiche.
Oggi il museo custodisce oltre ottocento opere disposte su tre piani espositivi: oltre a dipinti sculture, ceramiche, micromosaici, commessi in pietre dure, oggetti d’arredamento e mobili raccolti da Borgogna stesso, sono esposti capolavori pittorici, scultorei, grafici e decorativi compresi tra il Quattrocento e il Novecento, tra cui affreschi staccati e pale d’altare del Rinascimento. Particolarmente significative sono le opere che testimoniano l’arte rinascimentale piemontese: pale d’altare, polittici, frammenti di affresco e tavole realizzati da Defendente Ferrari, Gaudenzio Ferrari, Bernardino Lanino, Gerolamo e Giovan Battista Giovenone. La pittura secentesca e settecentesca è invece rappresentata da artisti quali Ludovico Carracci, il Sassoferrato, Elisabetta Sirani, il Genovesino, Carlo Maratta; presente anche una notevole raccolta di dipinti fiamminghi e olandesi (oltre cinquanta). Dell’Ottocento fanno parte, tra le altre, opere di Massimo D’Azeglio, Gaetano Chierici, Gerolamo Induno, Francesco Lojacono, Giacomo Favretto, nonché il dipinto divisionista di Morbelli già citato. Infine, il percorso espositivo si conclude con opere novecentesche di artisti vercellesi e piemontesi che si aggiunsero alla collezione dopo la morte di Borgogna, come i ritratti di Ambrogio Alciati, Giacomo Grosso e Francesco Menzio, i paesaggi di Clemente Pugliese Levi, Lorenzo Delleani e Umberto Ravello, le monumentali tele di Giuseppe Cominetti e le sculture di Francesco Porzio.
Il Museo Borgogna offre quindi uno spaccato di storia della pittura italiana soprattutto piemontese, ma anche opere che escono dai confini nazionali, ad esempio olandesi e fiamminghe, e ancora dipinti di derivazione caravaggesca e pitture che tendono verso il classicismo. Per lungo tempo il museo è stato considerato la "seconda pinacoteca del Piemonte, dopo quella della Galleria Sabauda di Torino" sia per la qualità che per la quantità delle opere. Ora l’intento è restituire alla sede museale, nel bellissimo palazzo neoclassico, la sua identità: da casa-museo a pinacoteca, a museo del territorio che custodisce capolavori provenienti da chiese abbandonate o da privati.
Il Museo Borgogna di Vercelli |
Angelo Morbelli, Per ottanta centesimi! (1895-1897; olio su tela firmato e datato, 67,5 x 121,5 cm; Vercelli, Museo Borgogna) |
Più propriamente religioso è il Museo del Tesoro del Duomo con la Biblioteca e l’Archivio Capitolare, legato alla diocesi di Vercelli e alla Cattedrale di Sant’Eusebio, primo vescovo della città e del Piemonte. Situato in un’ala del Palazzo Arcivescovile, il museo espone opere di oreficerie, suppellettili e arredi liturgici, tessuti e dipinti che appartengono al patrimonio della Cattedrale. Attraverso le opere conservate si compie un viaggio non solo nella plurimillenaria storia della diocesi vercellese, ma anche lungo le vicende politiche e sociali della città. Vercelli è stata tappa privilegiata della Via Francigena, a cui si giungeva per poter ammirare la magnifica Cattedrale, sede della più antica diocesi del Piemonte, e il prezioso Crocifisso ottoniano risalente al X secolo realizzato in lamina d’argento sbalzata e in parte dorata con corona decorata da pietre preziose, di cui il museo conserva il riempimento originale. Un simbolo della prosperità della diocesi di Vercelli, che all’epoca era una delle città più ricche d’Italia, commissionato dal vescovo Leone di Vercelli. Nel Medioevo e nel Rinascimento i vescovi della diocesi godevano di importante potere ed erano spesso coinvolti nei fatti politici della città, e un grande mecenatismo coinvolgeva metalli, tessuti e dipinti ai quei tempi. Inoltre significativi erano l’interesse e la devozione per i reliquiari sia anticamente che in età moderna. Tutti temi che è possibile scoprire e conoscere visitando il museo. Non dimentichiamo che i tesori del Duomo includono splendidi manoscritti medievali miniati: si potrebbe dire infatti che le star del complesso del Museo del Tesoro del Duomo siano proprio loro. Oltre al Vercelli Book, misterioso manoscritto che risale al X secolo la cui storia ha origine in Inghilterra, si contano 260 codici: tra questi, il codice A o Codex Vercellensis Evangeliorum attribuito a Sant’Eusebio. Si tratta di una Vetus Latina, ovvero di una traduzione dal greco al latino dei quattro Vangeli canonici, databile alla seconda metà del IV secolo. Il codice rimase in uso fino all’Alto Medioevo e poi diventò un vero oggetto di devozione, tanto che alcuni fogli vennero donati come reliquie; il manoscritto è custodito nella Biblioteca Capitolare, mentre la legatura in argento è visibile nel Museo. Quest’ultima risale alla donazione di Berengarius Rex nella seconda metà del X secolo e si riconoscono un Cristo in mandorla, i simboli degli Evangelisti e lo stesso sant’Eusebio raffigurato in piedi in abiti vescovili. Si legge inoltre un’iscrizione dedicatoria riferita al committente re Berengario: non è chiaro però se si tratti del I o del II, suo nipote. È tuttavia da considerare come una preziosa testimonianza ottoniana dell’arte vercellese.
Ancora una curiosità: al piano superiore del museo sono le Stanze del Papa che ricordano la visita a Vercelli di papa Giovanni Paolo II nel 1998 e di importanti committenze rinascimentali, quali papa Giulio II che fu vescovo di Vercelli tra il 1502 e il 1503. Quest’ultimo donò alla Cattedrale la pianeta (esposta nel Museo del Tesoro del Duomo) e il piviale, entrambi intessuti a Venezia e ricamati in area fiammingo-borgognona.
Museo del Tesoro del Duomo, prima sala |
Museo del Tesoro del Duomo, seconda sala |
Museo del Tesoro del Duomo, sala del Papa |
Vercelli Book (Seconda metà del X secolo; pergamena e legature in pelle su assi di legno del XVIII secolo, 325 x 220 mm, Inghilterra sud-orientale; Vercelli, Capitolo Metropolitano della Cattedrale di Sant’Eusebio Vercelli, Biblioteca Capitolare, ms CXVII) |
Si deve a Camillo Leone, notaio e collezionista vercellese vissuto nell’Ottocento, il Museo Leone: venne aperto nel 1910, a tre anni dalla sua scomparsa, in quella che fu dal 1871 la sua dimora, Palazzo Langosco. Prima di diventare sua proprietà il palazzo in stile tardo-barocco affrescato e decorato con stucchi settecenteschi apparteneva alla nobile famiglia dei Langosco di Casale Monferrato. Camillo Leone, quando ancora vi abitava, aveva destinato alcuni ambienti ad ospitare le proprie collezioni d’arte, difficilmente etichettabili, comunque “oggetti antichi di qualunque specie e natura”, come affermò lui stesso nel suo testamento. Oggi Palazzo Langosco conserva collezioni di opere d’arte applicata, filigrane e armi dal Cinquecento all’Ottocento.
Fa parte del Museo Leone anche Casa Alciati, dimora in stile rinascimentale: al suo interno è visibile uno dei più importanti cicli di affreschi del primo Cinquecento piemontese. Vi sono raffigurati soggetti mitologici, storici e religiosi, ma rimane ancora oggi sconosciuta la paternità (si pensa tuttavia che sia stato realizzato da un numeroso gruppo di artisti poiché molto ampio). Il ciclo è probabilmente databile tra la fine del Quattrocento e l’inizio del terzo decennio del Cinquecento e presenta derivazioni da stampe di traduzione e invenzioni decorative di gusto archeologico, nonché un’attenta consapevolezza della nuova moda romana, rifacendosi alla pittura di Michelangelo Buonarroti, Baldassarre Peruzzi e Raffaello Sanzio. Gli affreschi vennero riscoperti solo negli anni Trenta del Novecento nel corso di lavori di ristrutturazione. I due edifici sono collegati da una “manica di raccordo”, costruita nel 1939 in occasione della mostra Vercelli e la sua provincia dalla Romanità al Fascismo per la visita di Benito Mussolini a Vercelli.
Il Museo Leone è dunque costituito da tre edifici di tre differenti epoche: il barocco Palazzo Langosco, la rinascimentale Casa Alciati e la novecentesca ala di collegamento.
Star del museo è il cofanetto del cardinale Guala Bicchieri con medaglioni smaltati di manifattura limosina che risale al 1220 - 1225. I quindici medaglioni in rame dorato reservé mostrano incisioni a soggetto profano, ad eccezione di quello raffigurante san Gerolamo e il leone: temi legati alla caccia, alla cavalleria e all’amor cortese. Due medaglioni sono poi allegorie dei mesi di febbraio e di aprile, mentre un altro rappresenta due lottatori seminudi. Al cardinale si deve l’avvio dei cantieri della Basilica di Sant’Andrea di Vercelli, e proprio all’abate della Basilica, Tommaso Gallo, donò nel 1224 il raffinato cofanetto: è l’unico oggetto appartenuto a Guala Bicchieri ancora presente a Vercelli. Camillo Leone lo acquistò sul mercato antiquario nel 1883 alla cifra di 8000 lire. E ancora oggi è esposto al Museo Leone.
Il Museo Leone |
Il Museo Leone |
Il Museo Leone |
Il MAC - Museo Archeologico Civico |
Si va infine molto più indietro nel tempo, all’epoca pre-romana e romana di Vercelli, attraverso i reperti esposti nel MAC - Museo Archeologico Civico “Luigi Bruzza”, intitolato al padre barnabita che studiò e si dedicò alla storia e all’archeologia vercellese. La sede museale si trova nella “manica medievale” dell’ex monastero di Santa Chiara e ospita oltre seicento reperti rinvenuti nel corso delle campagne di scavo. Qui si ha dunque occasione di conoscere la storia antica della città piemontese, dall’insediamento dei Libui, popolazione di origine celtica che occupò l’attuale centro cittadino, all’occupazione romana, per giungere in ultimo alla crisi della città in epoca tardo antica. Significativa è la presenza di un rilevante numero di monete romane di epoca costantiniana, anche se il corpus numismatico vercellese è conservato nella quasi sua totalità nei depositi dei Musei Reali di Torino.
Arte, storia, religione, tradizioni e vita sociale si intrecciano nelle collezioni, seppur differenti, dei musei di Vercelli, ciascuno con le proprie caratteristiche ma accomunati dalla volontà di far conoscere il ricco e importante patrimonio della città.
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