Dominique Lora è curatrice della mostra Tina Modotti: La Genesi di uno Sguardo Moderno (Aosta, Centro Saint Bénin, dal 12 novembre 2022 al 12 marzo 2023).
Avventurosa, nomade e magnificamente misteriosa, la personalità artistica di Tina Modotti è permeata da un talento ricco e plurale, ma è soprattutto caratterizzata da uno sguardo acuto e lenticolare capace di raggiungere e penetrare l’essenza dei singoli e delle cose. Donna e artista moderna ante tempore, la Modotti ha esercitato un’influenza tangibile, decisiva e duratura sullo sviluppo dell’arte fotografica in Messico nello specifico (si guardi ai lavori di Graciela Iturbide e Yolanda Andrade per esempio) e a livello internazionale in generale. Durante gli ultimi due decenni la sua opera ha attirato l’attenzione di scrittori, registi, artisti e curatori. Eppure il tema e l’oggetto della maggior parte degli approfondimenti e delle varie pubblicazioni a lei dedicate sono generalmente concentrati sulle sue avventure romantiche e politiche o sui rapporti con altre famose personalità della scena artistica della prima metà del ventesimo secolo, inclusi Edward Weston, Diego Rivera, José Clemente Orozco, Dr. Atl, Nahui Olin o Guadalupe Marin.
L’opera originale della fotografa italiana, rivalutata solo a partire degli anni Settanta dalla critica internazionale, è stata sepolta negli archivi di vari istituti, in parte come risultato della censura applicata dal movimento maccartista in America, a partire della fine degli anni Quaranta. Oggi, la sua audace biografia continua a influenzare, se non ad oscurare, la percezione del suo lavoro unico e straordinario, frapponendo un filtro alla comprensione autentica e creativa della sua opera. E se la sua complessa avventura umana continua ad ispirare romanzi, fumetti e documentari, spesso basati sulla mistificazione o per lo meno sul romanzo che fu la sua esistenza, in pochi fino ad ora si sono concentrati sulla sua importante eredità artistico-culturale e sull’influenza fondamentale che le sue istantanee hanno esercitato sulla formazione di diverse generazioni di fotografi/e. La sua libertà nel rappresentare il reale e il sensuale, ruvida e vivida, prende da subito le distanze dall’universo astratto di maestri suoi contemporanei come Edward Weston, Alfred Stieglitz, Anselm Adams, Edward Steichen, Henri Lartigue o Eugène Atget. Modotti sviluppa infatti una forma istintiva e originale di umanità e di comprensione nei confronti del mondo che la circonda e che, di fronte al suo obiettivo, si rivela nella sua essenza, scevra da ogni virtuosismo metaforico, anche quando rappresenta un semplice fiore. Le sue opere sono schiette e naturali e possono essere interpretate come una versione moderna dei così detti componimenti inculti cinquecenteschi: un’espressione ossimorica che nasce con e da Leonardo da Vinci e che si riferisce agli schizzi rapidi e spontanei che colgono l’immediatezza di attitudini e movimenti di una linea visiva aperta che cerca l’essenza della forma senza interamente definirla.
Nella serie di ritratti femminili realizzati nelle campagne messicane, il corpo della donna è un veicolo e uno strumento universale permeato di dignità e determinazione e che trascende ogni punto di vista monoculturale eliminando ogni distinzione tra noi e gli “altri”, tra indigeno e straniero.
Qui, sono svelate ferite, paure, forze e speranze che combinate mostrano un’umanità inconsueta, costituita da minoranze la cui unicità - ma anche universalità - si erige con forza contro l’illusione di una maggioranza neutra ed univoca. Ogni scatto rappresenta con fervore l’autenticità che si rispecchia nell’atto stesso del fotografare, conferendo un’aura di sacralità alle immagini che non servono lo scopo di intrattenere, bensì quello di documentare e raccontare, conferendo alla narrazione artistica un’inedita autonomia. Se le prime opere da lei realizzate (nel periodo di apprendimento passato al fianco di Edward Weston, tra la costa ovest nordamericana e i primi viaggi in Messico nei primi anni Venti) costituiscono sguardi e impressioni di scoperta e di sorpresa attraverso i quali l’artista udinese ritrae se stessa e le persone a lei vicine, progressivamente va sviluppando uno linguaggio personale che esplora la verità delle cose e gli effetti della luce sulle forme. Si tratta di un periodo di osservazione sulla realtà dei singoli, delle città e della natura; un tempo segnato da una tecnica incerta ma che cerca una definizione nell’ordito delle esperienze e delle emozioni umane. Per citare Roberta Scorranese: “Nelle sue prime fotografie la Modotti perseguiva il desiderio di realizzare una sorta di reinterpretazione formale dell’insegnamento di Weston, un tale sforzo aveva lo scopo di trasportare l’osservatore in un luogo specifico, un luogo per così dire, meno verbalizzato e più vicino al soggetto dell’immagine. Ma le sue forme eterogenee o alternative e di estrema semplicità governano lo sguardo di chi guarda. E dopo aver osservato con una certa attenzione, l’osservatore riordina i limiti fisici di tali universi nel proprio spazio, in uno spazio personale, dove gli oggetti cominciano, ancora una volta, ad apparire come universi”1.
Il lavoro di Tina si concentra dunque sulla narrazione visiva di una realtà umana e geografica, caratteristica del “suo” Messico. Intraprende un vero diario di viaggio in città come nelle campagne, cogliendo le condizioni di quei gruppi marginali che stavano emergendo dalle vicissitudini del periodo armato della rivoluzione e registrando il contrasto tra abitazioni rurali e architetture cittadine, tra antiche tradizioni campestri e progresso moderno. In tale contesto, Rosa Casanova ci fa notare come la produzione fotografica della Modotti si inserisca nella tradizione del così detto Costumbrismo Messicano2. Una forma di rappresentazione nata a metà del diciannovesimo secolo e volta a rappresentare l’altro e l’altrove e che riscopre il mondo al di fuori dei nuclei centrali di civiltà occidentali. Agli inizi, la diffusione di queste immagini serviva lo scopo di educare le classi medie su paesaggi, popoli e costumi considerati importanti da governi e istituti commerciali nel contesto politico ed economico del colonialismo. Le fotografie di Tina Modotti trasformano i parametri del Costumbrismo e forgiano un tipo di rappresentazione moderna; un cambiamento cruciale che svela una maniera unica di rappresentare oggettivamente gli elementi animati ed inanimati della realtà. La tradizione visiva del Costumbrismo potrebbe essere considerata l’ispirazione e l’origine dell’odierna conservazione dei beni immateriali promossa dall’UNESCO. Ad esempio, la fotografa udinese realizza una serie di scatti dedicati al burattinaio Lou Bunin, immortalando mani e burattini da lui maneggiati e che incarnano “quelle assimetriche relazioni di potere tra governanti e governati, una critica sottile ma potente alla realtà sociale e politica, messicana”3.
Le rappresentazioni di scorci urbani, periferici e campestri, volti ad esprimere le condizioni umane, le tradizioni dei popoli ma anche la storia del progresso, accomunano la ricerca della Modotti a quella di altre grandi fotografe quali Lola Alvarez Bravo, Berenice Abbott, Consuelo Kunaga o, in Europa, Lucia Moholy-Nagy.
Esplorando la sua profonda sensibilità, Tina sperimenta con forme e corrispondenze. L’opera d’arte è per lei un movimento, un insieme di archivi e di ricordi vivi che, tra passato e futuro, rendono il quotidiano invisibile e dimenticato un manifesto emotivo che esprime con coraggio e speranza il disagio, l’inconsistenza e il significato di un presente spesso indigente. Insieme a Dorothea Lange, Margaret Bourke-White, Lee Miller Penrose, Berenice Abbott, Imogen Cunnigham o a fotografe messicane come Lola Alvarez Bravo4, la Modotti si distingue quale artista appassionata e indipendente, d’avanguardia, coraggiosa e soprattutto di essenziale ispirazione per le generazioni a venire. Al pari delle sue coetanee l’artista attraversa, durante la sua carriera artistica, posizioni per così dire opposte, risultato dell’essere stata allo stesso tempo protagonista e personaggio dietro le quinte, modella e fotografa. Ognuna di loro si specializza a suo modo nella sperimentazione della natura delle emozioni attraverso la rappresentazione del dettaglio e di frammenti del reale. I loro soggetti esplorano la complessità del sé e indagano il significato di un’umanità “altra” nel tentativo di ristabilire un legame spirituale quanto materiale tra passato, presente e futuro. La Modotti è una figura nomade alla ricerca di una realtà a misura d’uomo che, guardando attraverso l’alterità e l’altrove, rappresenta la speranza di verità e di libertà in una terra che deve ancora essere scoperta, una moderna terra incognita. “Le immagini documentano le sue spedizioni attraverso i quartieri della città, sono scoperte quanto intuizioni: l’urbano in campagna e il rurale nella città”.5 La sua opera costituisce un archivio della memoria che funziona singolarmente da individuo a individuo e genera un dialogo con lo spettatore in cui l’eco del gesto artistico produce un’inedita capacità di percepire e comprendere il reale. Svelando e reificando i propri Lieux de Mémoire, l’artista traspone le sue emozioni nel vivere il momento immediato. Così, visione e percezione costituiscono un passaggio verso una comprensione più ampia della condizione umana.
Sebbene la Modotti abbia reiterato più volte durante la sua carriera il desiderio di compiere un’opera scevra da ogni costruzione estetica – quasi non esistesse spazio tra lo scatto, inteso come gesto, e l’oggetto rappresentato – la sua personalità e la sua anima si frappongono suo malgrado tra obiettivo e soggetto. L’artista non sfugge allo Zeitgeist, ovvero allo spirito artistico del suo tempo, che vede artisti e maestri internazionali comporre opere formalmente diverse ma che abbracciano in qualche modo lo stesso intento. Pensiamo ad esempio ai reportage fotografici di Eugène Atget, realizzati tra Parigi e le sue periferie negli anni 1910-19156. Come la Modotti nelle campagne messicane, Atget si volge verso il popolo dei diseredati e, sebbene sia complessivamente considerato un’artista dallo stile sofisticato e agli antipodi della Modotti, entrambi ritraggono ad un certo punto della loro carriera le condizioni abitative e lavorative dei “rifiutati” o dei “dimenticati” dell’epoca.
In altre parole, per quanto le intenzioni artistiche di Tina siano diverse da quelle di altri grandi artisti dell’epoca, è impossibile non cogliere parallelismi e corrispondenze in termini di forme e contenuti. Ad esempio, pensiamo ai numerosi primi piani di mani di contadine e lavandaie, che ricordano, almeno formalmente, gli esperimenti di Alfred Stieglitz con le mani della O’Keeffe, eseguiti tra il 1918 e il 1920. Per quanto distanti nelle intenzioni, i due fotografi rappresentano le mani come uno strumento di costruzione identitaria. Per entrambi sono il simbolo di eroine senza tempo; mani che tessono, che lavano, che lavorano, che proteggono e che costruiscono. “Sono le mani dei lavoratori, che esprimono un messaggio politico e umano, immediatamente comprensibile. In senso letterale queste mani svolgono i lavori necessari per la vita in Messico, ma in senso simbolico esse rappresentano il potenziale potere politico attribuito ai campesinos e ai trabajadores”7. In altre parole, la Modotti, al pari dei suoi contemporanei, ritrae il corpo femminile per esprimere la complessità del mondo reale.
Altrettanto potente è la serie degli Still-Life (nature morte) che ritraggono fiori e piante, come i gigli o cactus, che ricordano da vicino gli esperimenti coevi di artiste come Imogen Cunningham; in particolare i close-up realizzati da quest’ultima tra gli anni venti e gli anni trenta.
La rappresentazione di alcuni fiori, come i gigli, le calle o i cactus ricorre spesso anche nella produzione artistica di Georgia O’Keefe e di Consuelo Kanaga. E per quanto abbiano sempre negato con fervore ogni riferimento o associazione di stampo erotico o metaforico, risulta difficile non associare tali rappresentazioni agli sviluppi culturali e sociali del periodo (per lo meno a livello inconscio) legati alla liberalizzazione della donna nel mondo in generale e nell’arte in particolare. Tali immagini botaniche sono rappresentazioni profondamente intime: “Le immagini di calle e gerani, sembrano, a prima vista candidate improbabili per un’impresa simbolica ma proprio perché rappresentano semplici fiori dall’aria domestica, senza alcuna pretesa di eccezionalità, suggeriscono la loro costante presenza nella vita dell’autrice e in quella del popolo messicano, acquistando una carica emotiva che provoca un sentimento di empatia in chi le osserva. Il vaso, profondamente scheggiato, in cui è piantato il geranio, come l’irregolarità della calla che comincia ad appassire, comunicano una sensazione di sofferenza o per lo meno proiettano un’idea di sofferenza e di caducità umana”8. Va notato infine che gli esperimenti con fiori e piante fanno eco ad una serie di scatti che il fotografo e pittore lussemburghese Edward Steichen realizzò tra il 1925 e il 1928 e che (seppure stilizzati e tecnicamente molto lavorati) provano come il genere dello Still-Life fosse universalmente percepito come un luogo di sperimentazione artistica al di là di nazionalità e generi9.
Con il raggiungimento della maturità artistica, la Modotti condivide con Gerda Taro, Margaret Bourke White, Lola Alvarez Bravo e Dorothea Lange, per citarne alcune, un’attitudine “documentaristica” che si interessa appassionatamente ai rivolgimenti umani, politici e rivoluzionari che caratterizzano nazioni come il gli Stati Uniti, il Messico, l’Unione Sovietica e la Spagna, durante la prima metà del novecento. I loro diari fotografici di guerra e di cambiamento sociale o razziale costituiscono ancora oggi una testimonianza essenziale per la comprensione di tali contesti storici. Nel 1929 Tina pubblica, sulla rivista Mexican Folkways, una riflessione personale sulla relazione tra mezzo fotografico e impegno politico. Scrive: “Negli ultimi anni si è discusso molto se la fotografia può o no essere opera d’arte comparabile con le altre creazioni plastiche. Naturalmente le opinioni variano fra coloro che accettano la fotografia come un mezzo espressivo pari a qualsiasi altro, e coloro - i miopi - che continuano a vedere questo secolo ventesimo con gli occhi del secolo diciottesimo e che pertanto sono incapaci di accettare le manifestazioni della nostra civiltà meccanica. Ma, a noi che usiamo la camera come uno strumento, come il pittore usa il suo pennello, non interessano le opinioni contrarie; abbiamo l’approvazione di quelle persone che riconoscono il ruolo della fotografia nelle sue molteplici funzioni e la accettano come il mezzo più eloquente e diretto per fissare o registrare l’epoca attuale”10.
Per Riccardo Toffoletti questa espressione della Modotti rappresenta il primo documento sulla fotografia impegnata della storia, sostenendo che, se nell’ultimo dopoguerra, fotografi, registi e scrittori del neorealismo avessero avuto la possibilità di leggerlo, lo avrebbero sicuramente sottoscritto in quanto anticipatore dei loro intenti artistici11. La Modotti, al pari delle sue colleghe artiste americane ed europee, usa l’obiettivo per esplorare e reificare la sua percezione del visibile e sfrutta la lente fotografica per ricercare contrasti e irregolarità. Il suo linguaggio è alla costante ricerca di realtà senza filtri, immagini istantanee permeate di energia vitale in cui il presente e la memoria si realizzano, si confondono e si sovrappongono. Per usare le parole della celebre critica della fotografia Rosalind Krauss: “Arrivare alla fotografia dopo aver frequentato in modo intenso e spesso movimentato il Modernismo, significa provare uno strano sollievo – è come tornare da oltre cortina o uscire da una palude e raggiungere la terra ferma –, perché la fotografia sembra proporre un rapporto diretto e trasparente con la percezione, o più precisamente con gli oggetti della percezione; non provoca quel senso di privazione e di aggressione che si sente di fronte a gran parte della pittura e della scultura moderniste […] Insomma ci rivolgiamo alla fotografia perché il Modernismo e la fotografia coprono quasi esattamente lo stesso periodo – il che offre una simmetria abbastanza illuminante”.12 Tina Modotti rientra in quella categoria di artiste che sono riuscite, attraverso l’uso della camera oscura, ad abbattere i pregiudizi di una pratica considerata “maschile” e che, “lavorando spesso in situazioni di pericolo”, hanno messo a rischio la loro stessa vita. “Si tratta di donne che hanno contribuito a cambiare i costumi e a far uscire le donne dalla loro situazione di "angeli del focolare, per conquistare, finalmente, anche se faticosamente, il loro posto nel mondo” (Daniela Ambrosio). Quella di Tina Modotti si può dunque definire come un’esperienza di vita e di arte galvanizzata da uno sguardo caleidoscopico e penetrante e che abbraccia l’origine della vita e la costruzione culturale e sociale del mondo attraverso una gestualità primordiale e ritualizzata e che rigenera il concetto stesso di fare artistico dell’epoca. “Tina Modotti portò la sua fotografia a livelli internazionali segnando così l’inizio dell’estetica modernista in Messico. Adattò la propria visione del modernismo alle circostanze del paese in cui operava, un paese latino-americano ancora scosso dai fremiti, dai sommovimenti, dalle contraddizioni di una rivoluzione mancata”13.
In conclusione, Tina Modotti occupa un posto fondamentale nel panorama della fotografia internazionale. Nel suo lavoro la realtà statica ed immobile della camera lucida si trasforma in sinfonia visiva, in una rappresentazione che vibra come una visione ascoltata all’interno di uno spazio introspettivo senza un centro né una periferia. Ne risulta una formula alchemica, dove lo spazio mentale dell’opera diventa una mappa immaginaria per riorganizzare e tracciare geografie e forme contemporanee di umanità. Una mutazione continua di forme tattili ed epidermiche che scorrono dentro e fuori il piano fotografico e che generano un linguaggio accattivante e coinvolgente. Da questi diari fotografici emerge il carattere straordinario dell’artista udinese, che consiste nell’osservare e immortalare la natura, l’umanità e le condizioni delle classi lavoratrici della rivoluzione socialista e che si sviluppa attraverso il racconto di uomini, donne e bambini indigeni, lavoratori, senzatetto, artisti e intellettuali, tutti rappresentati come i rivoluzionari di un’epoca. Ma soprattutto pone le basi per una nuova sensibilità artistica basata sulla moderna tecnica fotografica fino a quel momento riservata ad una pratica prettamente maschile. L’artista ci lascia così un’immagine sulla Dignità della Povertà descritta con una veridicità e una spontaneità che conferisce alle sue immagini un’evidenza ed una traccia poetica straordinaria. I suoi soggetti, e in special modo le donne, sono gli eroi delle sue rappresentazioni e del suo universo visivo, resi splendidamente ed emotivamente attraverso l’uso della luce e chiaro oscuro. Le esperienze raccontate e tramandate nel tempo costituiscono in tal modo la prova tangibile che l’identità di un luogo e di un popolo è declinato dal linguaggio con il quale è rappresentato. Strade, persone e cose, ma anche percorsi, sguardi, suoni e gesti sono le fibre di un tessuto umano che muta costantemente. E se il valore dell’arte fa affidamento sul modo in cui rispecchia e prolunga le nozioni di cultura, educazione e storia esso deve poter essere direttamente associato ad una qualità linguistica, e quindi alla sua durata nel tempo. Artisti come Tina Modotti hanno il merito di sopravvivere oltre il tempo e la storia.
1 R. Scorranese, Dalla densità della natura di Edward Weston, in Corriere della Sera, La Lettura, maggio 2016
2 R. Casanova, Costumbrismo Revolucionario, in Alquimia, (3), p.13
3 Lou Benin era un artista giunto in Messico su invito di Diego Rivera. L’amore per il teatro, la comune convinzione che l’arte sia un efficace mezzo di critica sociale accomuna Tina e Bunin, fa nascere tra loro un’intesa profonda, testimoniata dalla potenza della commossa e gioiosa partecipazione di quelle fotografie. A.T. Tina Modotti: lampi sul Messico, Ed. Abscondita, 2014, pp.16
4 “Creatrici di foto uniche, Cunnigham, Kanaga e Lange, hanno contribuito nei loro lavori a definire terreni di immaginazione per la fotografia moderna. Il lavoro di Cunningham ha anche anticipato Weston e ha dato a Modotti il gusto per le immagini pure e i dettagli nitidi.” In Antonio Saborit, Los Objectos Esconden Universos, in Alquimia, (3), p.9
5 Ibidem, p.8
6 Simili alle capanne rurali della Modotti sono le immagini delle periferie parigine eseguite da Atget. Ad esempio la serie di fotografie realizzate sulle abitazioni di ambulanti e straccivendoli alla Porte d’Ivry tra il 1910 e 1915. Ref. Paris, Eugène Atget, Ed. Taschen, 2008, pp. 196-197.
7 A.T., Tina Modotti: lampi sul Messico, Ed Abscondita, 2014, p.14
8 Ibidem, p.16
9 Facciamo riferimento ad opere come “senza titolo” del 1925 o “Primarosa serale” del 1928, ambedue pubblicate nel catalogo della mostra Steichen, une épopée photographique, Musée de l’Elisée, Lausanne, Ed. FEP, 2007, pp.174 e 190.
10 Mexican Folkways, 5, 4, ott.-dic., Città del Messico, 1929
11 Riccardo Toffoletti, Tina Modotti: dalla ricerca sulle forme alla fotografia sociale, in Tina Modotti, la nuova rosa, arte, storia, nuova umanità, cat. Mostra, Ed Forum, Udine 2015
12 Rosalind Kraus, Teoria e Storia della Fotografia, Ed. Bruno Mondadori, 1990, pp. 127
13 A.T., Tina Modotti: lampi sul Messico, Ed Abscondita, 2014, p.17
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