I due dipinti di Forlì di cui si parla in questo articolo possono essere visti alla mostra Guercino, un nuovo sguardo, a Cento, chiesa di San Lorenzo, dal 21 settembre 2024 al 31 dicembre 2025.
Nel corso dell’Ottocento, in due momenti diversi, entrarono nella Pinacoteca Civica di Forlì due delle tre grandi pale che il Guercino (Giovanni Francesco Barbieri; Cento, 1591 – Bologna, 1666) dipinse per le chiese della città romagnola: l’Annunciazione e il San Giovanni Battista. La prima, citata per la prima volta in letteratura già nel 1657, nel Microcosmo della pittura di Francesco Scannelli, era conservata nella chiesa di San Filippo Neri per la quale fu dipinta, e qui rimase fino al 1863, quando la famiglia Corbizzi la vendette al Comune di Forlì, che decise di destinarla alla Pinacoteca e di far collocare nella chiesa una copia, eseguita dal pittore Luigi Pompignoli. Il San Giovanni Battista, anch’esso menzionato nel Microcosmo di Scannelli, si trovava invece nella chiesa dei Cappuccini di Forlì e fu oggetto delle spoliazioni napoleoniche (i francesi, è noto, ebbero per il Guercino e per il Seicento bolognese una passione particolare): asportato dalla sua sede nel 1811, il dipinto venne inviato alla Pinacoteca di Brera, e fece ritorno a Forlì solo nel 1816, dopodiché, come altre opere forlivesi che erano state rimosse dai francesi, andò a costituire il nucleo originario della Pinacoteca Civica, fondata nel 1838 e aperta al pubblico nel 1846, dapprima nel Palazzo dei Signori della Missione, dopodiché spostata nel 1922 nel Palazzo del Merenda, e infine trasferita, in più fasi a partire dal 1996, nel complesso di San Domenico: i due dipinti del Guercino sono tra le ultime opere a lasciare il Palazzo del Merenda per raggiungere la nuova sede.
Entrambe le opere sono documentate nel Libro dei conti col quale la bottega dell’artista teneva i registri contabili dell’attività: l’Annunciazione venne pagata, nel 1648, 400 ducatoni dalla signora Polissena Corbizzi (che la comprò assieme a un San Girolamo oggi in una collezione privata di New York), mentre per il San Giovanni Battista da destinare alla chiesa dei Cappuccini il pittore ricevette 135 ducatoni, in parte pagati dai cappuccini di Forlì e in parte dal marchese Bernardino. La grossa differenza di prezzo rispetto all’Annunciazione, nonostante le dimensioni pressoché simili delle due tele, sta nella percezione della loro complessità: come soleva accadere all’epoca, il prezzo di un’opera d’arte variava sulla base delle figure presenti nella composizione. Maggiore il numero delle figure, maggiore il prezzo da corrispondere: in questo senso, l’Annunciazione vede la presenza di ben tre figure principali accanto a diversi putti (anche questi ultimi contribuirono a far lievitare il prezzo, effettivamente alto anche per un’opera del Guercino), mentre nel San Giovanni Battista è il santo l’unico protagonista.
Al di là delle questioni meramente economiche, i due quadri di Forlì, benché forse meno noti rispetto ad altri dipinti del Guercino, rappresentano uno snodo importante nell’arte del pittore centese, e sono anche interessanti perché fotografano un momento di grande fermento nella sua carriera, un momento in cui l’artista, nonostante l’età avanzata, dimostrava di voler continuare a sperimentare e a guardarsi attorno, e perché consentono di compiere un affondo nel lavoro della bottega, dacché si tratta di due opere da porre in stretta relazione con altrettanti dipinti che si trovano nel territorio di Cento e della vicina Pieve di Cento: l’Annunciazione, in particolare, è legata all’opera d’omologo soggetto che il Guercino dipinse due anni prima per la chiesa della Santissima Annunziata degli Scolopi a Pieve di Cento (oggi invece è nella parrocchiale di Santa Maria Maggiore), mentre il San Giovanni Battista è da leggere in relazione al dipinto, avente anche in questo caso lo stesso soggetto, eseguito nel 1650 per la cappella Redolfini nella chiesa del Rosario di Cento (ora si trova sempre a Cento, ma nella Pinacoteca Civica).
Il periodo in cui il Guercino attende alla realizzazione dei due dipinti è un momento singolare, un momento unico. Tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, il Guercino è uno dei pittori più richiesti sul mercato, è all’apice della sua carriera, ma è pittore che non s’adagia, e continua a tentare nuove strade: si fanno dunque largo, in questo periodo, opere che presentano alcune caratteristiche ricorrenti, riassunte da Daniele Benati, nel catalogo della mostra Guercino, un nuovo sugardo. Opere provenienti da Forlì e da altri luoghi nascosti (Cento, Pinacoteca San Lorenzo, dal 21 settembre 2024), in tre elementi fondamentali: “gravità compunta delle pose”, “eleganza del disegno” e “brillantezza del colore”. Caratteristiche da ritrovare anche nelle pale di Forlì, che pur riprendendo opere che l’artista aveva realizzato poco prima, dimostrano, scrive Benati, che “l’ispirazione del Guercino non venga meno, ma si arricchisca di sempre nuove e pregnanti soluzioni espressive”. L’Annunciazione, in particolare, è uno dei dipinti più originali della carriera del pittore emiliano: per il dipinto destinato alla chiesa degli Scolopi di Pieve di Cento, l’artista aveva elaborato una particolare iconografia che lega due episodî distinti in un’unica scena. L’apparizione del Padreterno, che vediamo comparire tra le nubi, non era un’invenzione del Guercino: molte sono le Annunciazioni, nella storia dell’arte, in cui si vede comparire Dio in mezzo a un turbinio di nuvole. Ma per Pieve di Cento, il Guercino si sente invece libero d’innovare. Di cercare nuove soluzioni. Di inventare nuove iconografie. Ed ecco dunque che giunge la straordinaria invenzione: “Nel 1646, il Guercino”, scriveva Denis Mahon nella sua fondamentale monografia sull’artista del 1968, “aveva dipinto per Pieve di Cento una pala che raffigurava l’Angelo mentre riceve istruzioni per la sua missione dal Padre Eterno, e la Vergine inginocchiata sotto, mentre legge un libro [...]. Questo modo di rendere il soggetto aveva evidentemente incontrato favore, e il Guercino ricevette la commissione di ripeterlo per la chiesa degli Oratoriani di Forlì”.
Nel primo momento della scena, il Padreterno incarica l’arcangelo Gabriele di annunciare alla Vergine la sua gravidanza: Gabriele, con le ali spiegate, è in volo dinnanzi a Dio, con le mani incrociate sul petto in segno di reverenza (curiosamente è il gesto che, al contrario, è la Vergine ch’è solita fare al cospetto dell’angelo), e il Padreterno indica esplicitamente con la sua mano la Madonna, guardando negli occhi Gabriele, rivolgendogli anche qualche parola, in un gesto di grande spontaneità e naturalezza. Nel secondo momento, vediamo Maria nella sua casa, inginocchiata a leggere, ancora ignara di quello che le accadrà a breve. “Resta così silenzioso”, ha scritto lo studioso Massimo Pulini, “tutto il fulcro del quadro, il suo centro spirituale che ruota sul tema della meditazione e, in qualche misura, anche dell’incosciente condizione umana. Ne deriva una scena che non è nemmeno domestica, tanto si presenta spoglia, sobria, eppure nel grande quadro resta intima la descrizione dello spazio, nel suo essere a metà tra interno ed esterno. Dietro le spalle della Vergine si apre una soglia che permette allo sguardo di allontanarsi nella tersa visione di un paesaggio, nella valle fluviale che incontra da subito un ampio ponte per poi innalzarsi verso il profilo di un possente castro. Un varco sul mondo che sembra alludere a una dimensione più simbolica che scenografica”. Ecco l’invenzione del Guercino. Non più una sola scena, ma una sorta di film dipinto in un un’unica sequenza, con due momenti separati che s’intrecciano. Il Padreterno che non osserva più dall’alto, ma si fa protagonista al pari dell’arcangelo e della Vergine. L’investitura divina, la missione a cui è chiamata la Vergine resa esplicita.
È così che il Guercino decide di sovvertire l’iconografia tradizionale. Ed era la seconda Annunciazione della sua carriera: la prima, dipinta verso il 1638-1639 per l’Ospedale Maggiore di Milano, seguiva ancora la rappresentazione classica, con il momento dell’arrivo dell’angelo, il momento del confronto, quello dell’annuncio. A Pieve di Cento, al contrario, l’artista immagina una scena divisa in due parti, una sequenza quasi cinematografica, sentita, coinvolgente, tant’è che a Forlì gli venne richiesta, sostanzialmente, una replica. Il Guercino però non si limita a recuperare un modello di due anni prima: vuole continuare a innovare, e per dare più movimento alla scena, per conferire un tono più drammatico e al contempo solenne alla sua Annunciazione, matura l’idea d’inserire nella composizione i putti che sono assenti nella pala di Pieve di Cento e compaiono invece in quella di Forlì. E che l’artista non avesse voglia di limitarsi a una replica è attestato dai disegni che dimostrano quanto impegno il Guercino avesse profuso nell’ideazione delle varianti rispetto al dipinto di Pieve di Cento. Studî con i quali l’artista si concentra soprattutto sulla parte alta della composizione, ovvero su quella più variata rispetto all’Annunciazione di Pieve di Cento, fogli ricondotti alle fasi ideative del dipinto da Denis Mahon. La resa pittorica dimostra invece che il Guercino non aveva neppure intenzione di affidare l’esecuzione del dipinto ai suoi collaboratori: le figure sono infatti dipinte con cura, i passaggi di luce e ombra nei panneggi resi con finezza, gl’incarnati dipinti con delicatezza, le vesti hanno una consistenza tattile, coi cangiantismi che mirano a suggerire in maniera concreta la lucentezza della seta secondo un’esigenza di realismo che l’artista si trascinava dietro fin dalla gioventù e che non sarebbe mai cessata neanche nelle fasi più avanzate del suo percorso.
Lo stesso si può dire per il San Giovanni Battista: qui, il Guercino non si pone il problema di rinnovare gli schemi della tradizione, ma sceglie comunque d’offrire ai suoi committenti, e ai fedeli che avrebbero visto l’opera nella chiesa, una composizione di sicuro impatto, di scala monumentale, col Battista che s’appoggia a una roccia, all’interno d’una grotta nel mezzo della natura, stagliandosi contro un cielo velato di nubi, il braccio e l’indice puntato verso Dio che risaltano sull’azzurro, gli occhi del giovane santo rivolti verso quelli del riguardante, la stessa figura di Giovanni Battista che, per accrescere l’impatto emotivo, emerge da un sapientissimo controluce che nella versione di Forlì appare anche più dinamico rispetto alla pala di Cento, dal momento che nel quadro forlivese il Battista è colto in movimento. Anche nel San Giovanni Battista di Forlì il Guercino si preoccupa di rinnovare quanto aveva fatto in precedenza. Intanto, ringiovanisce di molto il santo, che non è più l’eremita barbuto della pala centese, ma diventa un adolescente apollineo col volto arrossato. E poi, la pala di Forlì acquista un respiro decisamente più scenografico, più “barocco”, per così dire, proprio in virtù del movimento che il Guercino conferisce al Battista forlivese, ravvisabile financo nel modo in cui i veli cremisi che coprono le sue nudità cingono la sua figura enfatizzando il suo incedere, cosa che invece non accadeva nella pala di Cento, dove il santo è invece più tranquillo, seduto sulla roccia.
Anche a queste altezze cronologiche, alla soglia dei sessant’anni d’età, il Guercino s’appalesa pertanto come un artista tutt’altro che stanco, o incline alla ripetitività, condizione che accomuna diversi pittori verso il finire delle loro carriere. Per lui non è così, malgrado l’ultima fase della sua carriera sia stata spesso giudicata come più debole rispetto ad altri periodi: “L’indubbia qualità di questa grande pala forlivese dimostra, una volta di più, quanto le riserve spesso avanzate nei confronti dell’ultima maniera del Guercino”, scrive lo studioso Giacomo Alberto Calogero, “siano non solo ingiuste, ma frutto di un inveterato pregiudizio che non sembra tener conto dei reali valori pittorici espressi dal maestro fino a tarda età: certo, le scelte cromatiche appaiono sempre più ricercate, con l’uso di campiture smaglianti, che brillano come gemme rare; l’atmosfera, non più bruscata e tonante, si schiarisce e rasserena, mentre il disegno tende a farsi più nitido”, un’evoluzione che può essere intesa come “frutto di un meditato assorbimento del più eletto gusto classicista imposto da Reni e dalla sua scuola”, o come “comprensibile attenuazione di certe intemperanze giovanili, non più sentite e ribollenti come un tempo”: ciò nondimeno, il Guercino era “ancora in grado di partorire idee meravigliose e di eseguirle con raffinata maestria, come appunto accade nel dipinto di Forlì, tutto giocato sul sottile contrasto tra l’ombra gettata dall’antro cavernoso, il nembo gravido di pioggia e il fulgore abbagliante del Battista”.
C’è infine da domandarsi quanto il Guercino si guardasse attorno in questa fase della sua carriera. Questi dipinti di cieli e d’azzurro non solo paiono guardare verso certi sviluppi del classicismo reniano, ma anche verso la nuova pittura di alcuni giovani, esuberanti seguaci di Guido Reni che seppero innovare la pittura del maestro in senso più barocco, facendo leva sulla brillantezza dei colori e su composizioni vertiginose: Guido Cagnacci, Cristoforo Serra, Simone Cantarini. Ovvero artisti che lavoravano con lena nella Romagna degli anni Quaranta del Seicento, artisti che sperimentavano, artisti che tentavano di rinnovare quel che avevano appreso osservando o studiando la pittura cristallina di Guido Reni (talora anche direttamente con lui: Cantarini fu suo allievo), imprimendole la direzione d’un barocco scenografico animato da esigenze di naturalismo e che però non perdeva quel sostrato d’impronta classica, raffaellesca che il maestro bolognese aveva imposto all’attenzione di colleghi e committenti. Lo stesso Benati riconosce delle sovrapposizioni tra il “nuovo corso della pittura guerciniana” e certi lavori di Cagnacci, come i “quadroni” del Duomo di Forlì, o certi dipinti di Cristoforo Serra: non c’è dubbio che i due romagnoli avessero tratto numerosi spunti dall’arte del Guercino (peraltro, i tre si conoscevano nell’intimo: il Guercino, nel periodo di studio e lavoro trascorso a Roma, aveva abitato prima con Cagnacci e poi con Serra), e non c’è dubbio che per tutti la base fossero certe pale di Guido Reni (la Madonna della peste di Bologna, per esempio), ma forse non è da escludere che l’anziano maestro nutrisse una qualche forma d’ammirazione per quei due esuberanti quarantenni.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERGli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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