La flotta riemersa. Storia dello straordinario ritrovamento delle navi antiche di Pisa


Nel 1998, per un caso accidentale, venne scoperto nei pressi della stazione di Pisa San Rossore un incredibile patrimonio archeologico, destinato a riscrivere la storia della navigazione della città toscana: le navi antiche di Pisa.

È ancora molto nota la massima di Pompeo Magno “navigare necesse est, vivere non est necesse”, con la quale esortava i suoi marinai a prendere il largo, benché il mare fosse infuriato. Nel tempo è stata riusata innumerevoli volte come motto della Lega Anseatica o come dichiarazione sprezzante di eroismo da Gabriele D’Annunzio. Più in generale viene spesso chiamata in causa per dimostrare l’importanza che la navigazione, nella sua duplice declinazione militare-commerciale, aveva nell’antica Roma. Che la marineria costituisse forza portante del sistema statale, economico, sociale e organizzativo del tempo, si trova riconferma nel grande quantitativo di relitti identificati nelle profondità marine, testimonianza di come spesso gli equipaggi fossero costretti a prendere il mare anche con condizioni metereologiche sfavorevoli. Questi episodi drammatici e sfortunati però costituiscono la nostra fortuna, offrendoci l’opportunità attraverso l’archeologia navale e subacquea di venire a conoscenza di un ricco quantitativo di informazioni sulle civiltà del passato.

Ecco che tra le scoperte archeologiche più straordinarie per quantità e qualità, che sono avvenute in tempi recenti nel nostro Paese, figurano con un ruolo di primo piano le navi antiche di Pisa, l’incredibile scavo che ha riportato alla luce vestigia di più di trenta imbarcazioni, oltre che a un cospicuo numero di reperti e artefatti di vario genere, e un’incalcolabile quantità di informazioni, tanto che qualcuno ha iperbolicamente (e a sproposito) parlato di una “Pompei del mare”.

Tale ritrovamento è avvenuto per un caso totalmente fortuito nel 1998, durante alcuni lavori condotti a poche centinaia di metri da Piazza dei Miracoli, finalizzati alla realizzazione di un edificio di servizio per Trenitalia, nei pressi della stazione di Pisa San Rossore. Se la scoperta ha certo dell’inaspettato, potrebbe apparirci surreale se si tiene presente che il cantiere situato nel centro cittadino dista circa 10 chilometri dalla costa, ma del resto Pisa ha avuto gran parte della sua storia intrecciata con il mare, in antichità quando la linea di costa era decisamente più arretrata di come appare oggi, ma anche in seguito nonostante l’interramento dovuto a depositi di detriti di vario genere grazie allo sfruttamento di fiumi e corsi d’acqua.

Lo scavo. Foto: Cooperativa Archeologia
Lo scavo. Foto: Cooperativa Archeologia
Lo scavo. Foto: Cooperativa Archeologia
Lo scavo. Foto: Cooperativa Archeologia
Lo scavo. Foto: Cooperativa Archeologia
Lo scavo. Foto: Cooperativa Archeologia

Fin dall’inizio degli scavi, a meno di sei metri di profondità, emersero manufatti lignei, che a causa di specifiche condizioni ambientali del sito hanno mantenuto un discreto stato di conservazione. Ma nessuno poteva immaginare cosa sarebbe ben presto tornato alla luce, e infatti nella prima fase lo scavo si svolse con le modalità dell’archeologia di emergenza, cioè con l’obbiettivo di incentrarsi sull’identificazione e il recupero dei reperti presenti nell’area, e i lavori in quel momento vennero finanziati dalla Ferrovie stesse. Ma già pochi mesi dopo ci si accorse che ciò che si conservava sottoterra andava oltre ogni possibile previsione. L’ingente ed eccezionale quantità e qualità dei reperti evidenzia l’importanza del ritrovamento, per il quale già nell’estate del 1999 si decise di procedere con un cantiere di carattere intensivo, creando un’area destinata alla ricerca sistematica e con una progettazione della durata ben più lunga di quanto inizialmente preventivato. Questi primi ritrovamenti vennero svolti sotto la direzione dell’archeologo e professore Stefano Bruni prima e di Andrea Camilli poi.

Questo laborioso intervento di scavo stratigrafico che si estendeva su un’area di oltre 3500 metri quadrati, fa presto propendere le Ferrovie ad abbandonare il progetto infrastrutturale in programma, che viene ripensato per la Stazione Centrale di Pisa.

Non pochi problemi si pararono davanti agli archeologici coinvolti nell’indagine, primo tra tutti le specifiche difficoltà ambientali dell’area, formata da strati sedimentari di notevole spessore e la preesistenza di una copiosa falda acquifera.

Per ovviare il problema delle acque, si ricorse all’utilizzo continuo di pompe meccaniche, mentre l’altra grande difficoltà , quella di far fronte ai rapidi tempi di degrado e disidratazione dei materiali lignei rinvenuti, coniugandoli con le esigenze laboriose di uno scavo stratigrafico, furono ovviati optando per uno scavo a “sezioni”, cioè scoprendo solo piccole porzioni dei relitti, che una volta documentati, venivano nuovamente ricoperti con un sottile stato di vetroresina, mentre si assicurava un continuo e corretto grado di umidità attraverso un sistema di irrigazione temporizzato.

Al contempo, si decise di allestire un centro di restauro per rispondere alla necessità di approntare diverse tecniche di intervento sui reperti riportati alla luce, soprattutto per i manufatti in legno, a cui una volta lavati e desalinizzati, deve essere sostituito il volume dell’acqua impregnandoli con altre sostanze inerti, possibilmente asportabili. Prese così origine la sistemazione del laboratorio di restauro del legno bagnato.

Ricostruzione di una parte del deposito dei reperti dello scavo, all’interno del Museo delle Navi Antiche
Ricostruzione di una parte del deposito dei reperti dello scavo, all’interno del Museo delle Navi Antiche
Resti del marinaio e del suo cane travolti dall’alluvione
Resti del marinaio e del suo cane travolti dall’alluvione
Ancora lignea della nave A, II secolo d.C.
Ancora lignea della nave A, II secolo d.C.
Resti della nave oneraria nota come nave A
Resti della nave oneraria nota come nave A
La nave Alkedo, I secolo d.C.
La nave Alkedo, I secolo d.C.
La nave D, grande imbarcazione fluviale del VI secolo d.C.
La nave D, grande imbarcazione fluviale del VI secolo d.C.

Questo impressionante dispiegamento di forze e di economie dipendeva dall’eccezionalità del ritrovamento, un cospicuo numero di relitti sovrapposti e adagiati su banchi limosi e sabbiosi. Si tratta di resti di imbarcazioni risalenti ad epoche diverse, che sono state trascinate in questo deposito dal ripetersi negli anni di una serie di potenti alluvioni, probabilmente connesse al disboscamento del suolo operato per l’organizzazione degli specchi e corsi d’acqua navigabili e per destinare i terreni all’agricoltura.

Lo stesso Andrea Camilli ha parlato di un numero tra le nove e dodici alluvioni che coinvolsero tutto il territorio e che “travolgono le navi e le fanno affondare, tutte in questo incrocio tra un fiume e un canale, accalcandole come in un immenso gioco di shanghai. Ecco, lo scavo è stato questo. È stato un gioco di shangai in cui trovando una nave ne trovavi poi un’altra sotto”.

Il materiale rinvenuto, databile dall’età ellenistica fino alla età tardo-antica, era composto non solo dai resti degli scafi e del fasciame, ma anche da una grande quantità di materiale fittile come anfore greco-italiche, per le quali solo in parte è stata accettata la possibilità di essere componenti del carico marittimo relativo alle imbarcazioni presenti, poiché per alcuni caratteri di disomogeneità tipologica e cronologica è stata avanzata l’ipotesi di trattarsi di materiale di rifiuto smaltito nel tempo.

Sulle origini di questo florido deposito sono state fatte numerose proposte di ricostruzione, le quali indicano come in età romana l’abitato di Pisa fosse originariamente edificato nell’area della piana alluvionale dell’Arno, dove si incontravano anche altri corsi d’acqua, tra cui l’Auser (oggi Serchio). A confermare l’ipotesi delle alluvioni vi sarebbero i riscontri fatti su almeno cinque insiemi di depositi riferibili a eventi naturali traumatici che fecero affondare le navi.

Benché siano stati trovati accumuli di pietre, da intendersi secondo lo stesso Camilli come “facenti parte di una sistemazione delle riva fluviale, consistente, più che in una serie di moli, in una rozza massicciata con contrafforte interno”, mentre la struttura muraria rettilinea apparteneva forse all’approdo di una villa padronale, la zona dello scavo sarebbe quindi da riconoscere anziché in un porto, come un corso d’acqua, una estesa rada interessata in epoca romana da un intenso traffico. L’indagine condotta sui relitti ha portato a una serie incredibile di numerose informazioni che hanno permesso almeno in parte di ricostruirne l’utilizzo e la storia.

Foto dell’allestimento del Museo delle Navi Antiche
Foto dell’allestimento del Museo delle Navi Antiche
Foto dell’allestimento del Museo delle Navi Antiche
Foto dell’allestimento del Museo delle Navi Antiche
Foto dell’allestimento del Museo delle Navi Antiche
Foto dell’allestimento del Museo delle Navi Antiche

Tra i resti di imbarcazioni più antiche rinvenute ne è stata riconosciuta una nota come nave ellenistica per la quale è stata ipotizzata una datazione sulla base delle suppellettili rinvenute a bordo, afferente al II secolo a.C. La nave doveva abitualmente muoversi su una rotta commerciale sviluppata tra la Campania e le Spagna, e portava vario genere di mercanzia, tra cui spalle di maiale conservate in salamoia.

La nave A invece era una nave oneraria, ovvero un’imbarcazione di grandi dimensioni votata al commercio: doveva infatti superare i quaranta metri di lunghezza, nonostante se ne sia conservata appena la metà, ed è stata datata alla fine del II secolo d.C. Essa trasportava anfore di varie provenienze contenenti conserve di frutta.

Tra i pezzi più prestigiosi, si annovera una nave da dodici rematori, di cui si è rinvenuta anche la tavoletta con il nome Alkedo (il Gabbiano), che risulta tra le imbarcazioni meglio conservate. La nave I è invece un traghetto fluviale a fondo piatto da datarsi al V secolo d.C., esso veniva spinto lungo le rive da un sistema di funi e un argano. Per l’utilizzo fluviale era anche la nave D, un grande barcone che trasportava rena lungo i corsi d’acqua, e che si muoveva spinta dal vento grazie a una vela, di cui si conserva l’albero, o trainata da riva attraverso la forza animale.

Altri reperti della barca F e della barca Q sono da riconoscersi nella tipologia delle lintres, imbarcazioni non dissimili a piroghe, le quali erano mosse a remi, e potevano essere usate per piccoli trasporti di merci o persone.

Durante lo scavo si è arrivati a contare i resti di altre trenta barche, ma lo stesso numero è stato in seguito messo in dubbio da altri studiosi. Ma l’eccezionalità del recupero non si è soffermata solo alle navi e ai loro preziosi carichi, nei depositi sono state infatti rinvenute anche le ossa di un cane e di un marinaio, il quale si pensa si sia sacrificato nel tentativo di salvare il suo amico animale. Numerosi sono ancora i reperti dal passato, come quelli vitrei impiegati come bicchieri e balsamari destinati a un mercato di lusso, resti in legno e pietra, monete, bagagli dei marinai, e come già ampiamente evidenziato i frammenti di oltre 13.000 esemplari di anfore.

Questo epocale rinvenimento ha permesso e permetterà ancora in futuro di aumentare le nostre conoscenze su svariati temi, che vanno dai sistemi fluviali e marittimi di navigazione antica, a informazioni sul commercio, sui contatti tra popolazioni, il ruolo giocato da Pisa nel corso dei secoli, inoltre lo scavo si è affermato come palestra quasi ventennale per gli esperti del settore e gli studenti coinvolti.

Gran parte dei reperti sono oggi inseriti in un suggestivo percorso museale nel Museo delle Navi Antiche di Pisa, che dal 2019 trova spazio in quelli che furono gli Arsenali Medicei, andando così a ricomporre una parabola temporale che dall’antichità fino all’epoca moderna ha visto la città toscana vantare uno stretto legame con il mare e la navigazione, riportando allo scoperto una narrazione più complessa e ricca del territorio che non può e non deve limitarsi solamente a quella di centro medievale dominato dall’iconica Torre pendente.


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Jacopo Suggi

L'autore di questo articolo: Jacopo Suggi

Nato a Livorno nel 1989, dopo gli studi in storia dell'arte prima a Pisa e poi a Bologna ho avuto svariate esperienze in musei e mostre, dall'arte contemporanea, alle grandi tele di Fattori, passando per le stampe giapponesi e toccando fossili e minerali, cercando sempre la maniera migliore di comunicare il nostro straordinario patrimonio.



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