Il primo reportage di guerra che si conosca porta la firma di un fotografo italiano di cui abbiamo poche notizie, Stefano Lecchi (Milano?, 1803 – post 1866). Si tratta di un insieme di fotografie che Lecchi realizzò nel 1849 mentre si trovava a Roma: in tutto, il nucleo, oggi conservato alla Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma, è costituito da 41 carte salate al bromuro di iodio. Quarantuno stampe fotografiche che illustrano altrettanti luoghi di Roma che, tra il 1848 e il 1849, furono teatro dei combattimenti che determinarono la caduta della Repubblica Romana, il giovane Stato nato il 9 febbraio del 1849 dopo i moti del 1848 e finito il 4 luglio di quell’anno, a seguito dell’assedio, durato un mese, da parte dei francesi guidati da Nicolas Charles Victor Oudinot, intervenuti in aiuto di papa Pio IX dopo un suo esplicito appello alle potenze straniere, affinché al pontefice venisse restituito il potere temporale.
Le fotografie di Lecchi sono suddivise in 3 album, raccolte in passepartout separati e conservate in un ambiente protetto a temperatura controllata. Firmate e datate, queste immagini costituiscono un corpus unico, spiega la studiosa Maria Pia Critelli, “non solo per la tecnica usata, per il tipo e il formato della carta adottata (della ditta Canson), ma anche e soprattutto perché la maggior parte fissa luoghi o edifici legati alla difesa della Repubblica. Due di esse, sono state realizzate nei primi mesi del 1849 e rappresentano edifici, il Casino Cenci e il Casino di Raffaello entrambi situati nella villa Borghese, che verranno distrutti a scopo difensivo. Le altre 39 invece sono immediatamente successive alla fine della Repubblica e documentano le ‘nuove rovine’ di Roma, causate dai combattimenti”.
Come detto in apertura, sappiamo molto poco di Stefano Lecchi. Ricerche recenti hanno appurato che nacque probabilmente nel 1803 a Milano, come si apprende dall’atto del matrimonio con Anna Maria (o Marianna) Rizzo celebrato a Malta il 24 aprile 1831, oltre che dagli atti di nascita dei quattro figli, tre nati in Francia (Achille a Parigi nel 1838 circa, Mario a Tolone nel 1840, Antonia a Marsiglia nel 1845), mentre la quarta, Adelaide, a Roma nel 1849. Lecchi studiò probabilmente a Milano anche se negli anni Trenta era a Parigi dove studiò con Louis Daguerre. Alla metà degli anni Quaranta aveva sottoposto all’Accademia delle Scienze, scrive lo studioso Roberto Caccialanza, “un apparecchio fotografico innovativo, differente dagli ordinari per il fatto che la camera oscura veniva privata dell’obiettivo, ma allo stesso tempo dotata di uno specchio periscopico in vetro ricoperto di ‘stagnola amalgamata’ che rifletteva l’immagine sulla lastra, ribaltandola; inoltre diveniva possibile operare regolando la lastra medesima e lo specchio al fine di ottenere il massimo della nitidezza e quindi della messa a fuoco agendo su un indicatore posto sul quadrante (che riportava le misure delle distanze normalmente usate per fare i ritratti”. Le sue peregrinazioni lo portano poi in varie città della Francia e dell’Italia per promuovere il Diorama, uno spettacolo ideato da Daguerre, alla messa a punto del quale aveva collaborato lo stesso Lecchi, che faceva uso di alcuni teloni con parti trasparenti su cui venivano dipinti alcuni soggetti trasparenti che venivano poi illuminati per dare al pubblico effetti di tridimensionalità. Nel 1864 è invece a Malta, dove è stato individuato sulla base di un indirizzo posto sul retro di una fotografia di Giuseppe Garibaldi durante una sua visita all’isola.
Il reportage romano di Lecchi è una scoperta recente, risalente al 1997. Prima di questa data, si riteneva che il primo reportage fotografico di guerra fosse quello realizzato dall’inglese Roger Fenton durante la guerra di Crimea nel 1855. Poi, nel 1997, la studiosa Marcella Miraglia reperì le immagini della difesa di Roma del 1849, di cui si conoscevano giusto una manciata di originali: i cinque della Collezione Siegert, oggi al Münchener Stadtmuseum di Monaco e alla Neue Pinakothek di Monaco, mentre il sesto, raffigurante la villa del Vascello (capolavoro architettonico del Seicento, progettata dalla prima architetta della storia, Plautilla Bricci, e distrutta proprio durante l’assedio del 1849), faceva parte della Collezione di Piero Becchetti. Altre immagini erano invece note soltanto attraverso alcune riproduzioni, come quelle possedute dal Museo centrale del Risorgimento di Roma, ma non si sospettava fosse un lavoro organico.
Poi, nel 1997, Miraglia ritrovò, proprio nelle collezioni della Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea, le quarantuno carte salate originali di Stefano Lecchi: di queste, trentanove raffigurano luoghi che furono teatro dei combattimenti, mentre le altre due sono, rispettivamente, vedute del Casale Cenci e del Casino di Raffaello dentro Villa Borghese. Lecchi realizzò il suo racconto fotografico probabilmente già nel luglio del 1849, poco dopo la fine delle ostilità: l’intento è quello di realizzare, scrive ancora Critelli, un insieme in cui “l’immagine trascende la centralità del soggetto rappresentato per diventare memoria storica di un evento fissato non nel suo accadere (il che era tecnicamente impossibile all’epoca) ma documentato dalle sue tracce, effimere e destinate presto a scomparire, che esso ha lasciato dietro di sé”. E proprio a partire da quella data, per rappresentare le guerre si sarebbe fatto uso della fotografia come medium principale, anche se si trattava di fotografie di luoghi che erano stati teatro di battaglie: a causa della scarsa sensibilità dei mezzi del tempo erano necessari, com’è noto, tempi di posa piuttosto lunghi e questo rendeva impossibile catturare le battaglie durante il loro svolgimento.
Non sappiamo tuttavia quanto fossero in origine le fotografie scattate da Lecchi, né quali motivi lo spinsero a intraprendere questo lavoro, e neppure se qualcuno gli diede qualche suggerimento sui luoghi da fotografare, o se ci fu un committente. Non è da escludere che il tutto nacque da un’idea dello stesso Lecchi, magari animato dalla volontà di creare un racconto visivo di ciò a cui aveva assistito. “Il reportage”, spiega Critelli, “non è, né poteva essere per le caratteristiche dei mezzi tecnici del tempo, un resoconto esaustivo dei vari momenti della lotta sostenuta; ma era finalizzato a richiamarli registrandone ed evidenziandone gli effetti. Per chi sapeva e voleva ricordare, i luoghi erano inestricabilmente legati ai singoli episodi di battaglia, di valore, ai fatti e alla memoria degli uomini che vi avevano lottato e che spesso vi erano morti. Il rapporto di Lecchi con il modo tradizionale di costruire le immagini è chiaro in alcune fotografie legate alla tradizione da un identico codice di scrittura visiva. Ciò è soprattutto vero quando ritrae vedute di Roma: emblematica la fotografia del casale Cenci a villa Borghese che è quasi sovrapponibile, nell’impostazione della scena, all’analoga immagine nella litografia di Landesio e Rosa del 1842. Ciò sottolinea l’incidenza, nella formazione del suo gusto fotografico, di quello che era il modo usuale di riprodurre uno stesso luogo. Ben osservabile nelle sue fotografie è la puntigliosa esattezza nelle riprese che lo porta a fotografare alcuni edifici da prospettive diverse quasi che l’osservatore possa attraverso le immagini girargli intorno, osservarlo dalle diverse angolazioni, seguendo le orme del fotografo, fino ad immedesimarsi nella sua osservazione e a sostituirglisi”. Questa esattezza rende palese il desiderio di Lecchi di creare delle immagini che siano al tempo stesso un documento che racconti in maniera organica quel ch’era successo a Roma all’inizio dell’estate del 1849, e anche memoria e ricordo di quei luoghi.
Le modalità di costruzione delle immagini fotografiche da parte di Lecchi risentono della tradizione del tempo: presentano infatti l’impostazione prospettica e il gusto propri della veduta, genere pittorico allora molto in voga, e le rare persone inquadrate sono in posa proprio come conseguenza dei lunghi tempi di esposizione. Il fotografo milanese non mancò di scrupolo filologico e attenzione puntigliosa: Lecchi infatti nelle sue immagini riprende molti edifici da prospettive e angolazioni diverse per offrire una fedele rappresentazione dei luoghi, quasi mimando i movimenti di un osservatore. Lecchi si soffermò anche a fotografare edifici “minori” perché legati a episodi bellici significativi per restituire evidentemente un’approfondita conoscenza dei diversi momenti della difesa della Repubblica romana.
Pur non avendo molte informazioni sulla nascita del reportage di Lecchi, possiamo farci un’idea del modo in cui le sue immagini si diffusero. Le fotografie, in particolare, non ebbero al tempo grande circolazione, ma al contrario le loro traduzioni litografiche ebbero grande diffusione, con alcune serie che furono ricavate dalle sue fotografie: per esempio le tavole intitolate Ruine di Roma dopo l’assedio del 1849, pubblicate da Michele Danesi e Carlo Soleil, e l’Atlante generale dell’assedio di Roma di Pompilio De Cuppis, entrambe edite nel 1849. Si sviluppò un fiorente mercato delle fotografie ricavate dalle foto di Lecchi, ma il suo nome andò dimenticato: compare infatti molto raramente nelle stampe tratte dalle fotografie. Addirittura, spesso il mercato delle stampe utilizzò le fotografie di Lecchi come base per illustrazioni di ampia tiratura e diffusione già a partire dal 1849.
Quanto invece alle fotografie oggi alla Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma, queste ultime facevano parte della collezione di Alessandro Calandrelli, deputato alla Costituente romana del 1849 e poi colonnello dell’esercito della Repubblica e triumviro, insieme con Livio Mariani e Aurelio Saliceti, dopo le dimissioni del primo triumvirato composto da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Gli oggetti (libri, documenti, manoscritti) che erano appartenuti a Calandrelli furono donati nel 1907 dalle figlie Elisa e Ludovica alla Biblioteca Vittorio Emanuele II: di tale raccolta le carte riguardanti la storia italiana del XIX secolo entrarono a far parte della Sezione Risorgimento, che negli anni Trenta del Novecento andò a costituire il nucleo originario della Biblioteca di storia moderna e contemporanea.
Infine, nell’anniversario numero 170 della Repubblica Romana del 1849, la Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea, all’indirizzo ha dedicato alle fotografie di Lecchi una mostra online intitolata Roma 1849: Stefano Lecchi. Il primo reportage di guerra, curata da Maria Pia Critelli e Isabella Poggi, e con la quale è stata resa possibile la consultazione delle immagini del fondo oggi possedute dalla Biblioteca di storia moderna contemporanea e dal Getty Research Institute (Los Angeles). In occasione della mostra è stata condotta anche la digitalizzazione delle fotografie di Stefano Lecchi, curata da Mario Bottoni, operazione che ha consentito di “modificare, in maniera non invasiva e non distruttiva, ma dinamica e versatile, le caratteristiche ‘nascoste’ o poco leggibili delle singole immagini”, spiega lo studioso. Ne è risultata la rilevazione di particolari non leggibili a occhio nudo, quali dettagli architettonici, persone o oggetti diversi confusi nel paesaggio, con un arricchimento notevole del patrimonio informativo veicolato dalle immagini. Un particolare, per esempio, ha consentito di scoprire cosa pensasse Lecchi dell’intervento dei francesi. È stato ingrandito digitalmente un un casale situato con ogni probabilità nei pressi di Porta Cavalleggeri: questo ingrandimento ha reso visibile, sul muro dell’edificio, due scritte, una che recita “ANTICA OSTERIA CUCINA” e l’altra, ben più interessante, che riporta l’articolo quinto del Preambolo alla Costituzione francese del 4 novembre 1848, in lingua originale, nel quale si proclamano il rispetto della Repubblica francese per le nazionalità straniere e la libertà dei popoli e il rifiuto della guerra di conquista. Tale immagine sarà reimpiegata successivamente in una litografia di Carlo Soleil del 1870, con l’inserimento nella scena di militari francesi. L’elaborazione digitale ha dunque permesso di stabilire che la scritta non è stata aggiunta in un secondo tempo dal litografo ma è presente già nel calotipo originale e rappresenta perciò, con tutta probabilità, la prova della condanna da parte di Lecchi dell’attacco francese.
La storia della Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma ha origine nel giugno 1880, quando la Camera dei deputati approva la proposta di Pasquale Villari di costituire una raccolta di libri, opuscoli e documenti sul Risorgimento italiano: nasce così la Sezione Risorgimento della Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele II di Roma. Nel 1906 viene istituito il Comitato nazionale per la storia del Risorgimento con il compito di costituire una biblioteca e un museo del Risorgimento, e al Comitato viene affidata la Sezione Risorgimento. Nel 1917, la Sezione Risorgimento prende il nome di “Biblioteca centrale del Risorgimento”, assumendo la fisionomia di biblioteca autonoma sotto un proprio conservatore. Risale invece al 1921 il distacco definitivo dalla Biblioteca Nazionale con il trasferimento a Palazzetto Venezia, e a due anni dopo la nuova denominazione “Biblioteca museo archivio del Risorgimento”.
Negli anni Trenta alcuni provvedimenti trasformano profondamente la fisionomia, e la raccolta risorgimentale viene di fatto smembrata: è soppresso il Comitato nazionale per la storia del Risorgimento e si affida la raccolta museale alla Società nazionale per la storia del Risorgimento, mentre la Biblioteca viene posta sotto la sorveglianza di un ente di nuova costituzione, l’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, nella cui sede, al Vittoriano, finiscono i materiali museali e documentari, eccezion fatta per gli autografi del fondo mazziniano, che rimangono alla biblioteca assieme ai libri. L’istituto assume l’attuale denominazione di “ Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea” nel 1937 e nel 1939 si trasferisce a Palazzo Mattei di Giove, dove ha sede tuttora. Il Palazzo fu costruito per volere di Asdrubale Mattei, marchese di Giove, che ne affidò la realizzazione a Carlo Maderno: i lavori, iniziati nel 1598, furono portati a termine in circa venti anni. Si presenta con facciate di forme tardo-cinquecentesche, a tre piani, rifinite da un cornicione ornato con i motivi araldici della famiglia ed è coronato da un’altana con loggiato. I due cortili e la scala del palazzo sono ornati da sculture, bassorilievi e vasi, in gran parte provenienti dagli scavi archeologici compiuti nei possedimenti della famiglia Mattei. Sul pavimento dell’ufficio di direzione della Biblioteca è installato un orologio solare realizzato nella seconda metà del XVIII secolo dal duca Giuseppe IV Mattei, mentre le sale del palazzo, soprattutto quelle del piano nobile, che ospitano il Centro di studi americani, hanno volte dipinte dai più eminenti artisti attivi a Roma nel primo Seicento, quali Francesco Albani (Storie bibliche), Gaspare Celio, Cristoforo Greppi, Giovanni Lanfranco, Pietro da Cortona (Storie di Salomone). I quadri che ornavano le numerose sale e la galleria sono oggi conservati presso la Galleria Nazionale d’arte antica a Palazzo Barberini.
Infine, nel 1945, la Biblioteca viene posta alle dirette dipendenze del Ministero della Pubblica Istruzione, poi, dal 1975, diventa un istituto dell’allora Ministero per i beni culturali e ambientali. Fino agli anni Cinquanta, la Biblioteca è rimasta legata prevalentemente agli studi risorgimentali, mentre, a partire dagli anni Sessanta, ha ampliato il proprio campo di interesse alla storia italiana ed europea del XIX e XX secolo.
La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER