Per avere un’idea di quanto fosse difficile nel Seicento, per una donna, assurgere ai più alti vertici dell’arte, basterebbe scorrere il Catalogo degli accademici di San Luca redatto da Giuseppe Ghezzi sul finire del Seicento. Gli uomini sono distribuiti su dieci pagine, con gli elenchi divisi in ordine alfabetico. Il Catalogo delle Donne Pittrici ed Accademiche sì di Honore come di Merito è invece una lista che non arriva neppure a lambire il margine inferiore del foglio. Ci sono nomi ormai noti, come quelli di Elisabetta Sirani, Lavinia Fontana, Giovanna Garzoni. Ci sono pittrici meno celebri ma delle quali è conosciuta l’attività, come Virginia Vezzi, Caterina Ginnasi, Isabella Parasole. Ce ne sono altre delle quali ci rimane il nome o poco più, come Anna Maria Vaiani e Laura Marescotti. Non manca la figura di Plautilla Bricci, accademica di San Luca (risulta attestata come “pittrice” nel 1655, anche se non è nota la data d’ammissione, che si presume comunque vicina), artista il cui percorso ha tratti che lo rendono molto diverso rispetto a quello delle pur rare colleghe e quindi unico, e attorno alla quale s’è molto concentrata, in anni recenti, l’attenzione della critica, oltre che della letteratura. Così, dopo la prima monografia sull’artista, scritta da Consuelo Lollobrigida nel 2017, lavoro pionieristico fondato su di un consistente spoglio di materiali d’archivio, dopo il romanzo L’architettrice di Melania Mazzucco del 2019 che ha vinto il Premio Silvia Dell’Orso come miglior prodotto divulgativo dell’anno, nel 2021 è arrivata la prima mostra a lei interamente dedicata, Plautilla Bricci pittrice e architettrice. Una rivoluzione silenziosa, curata da Yuri Primarosa e allestita fino al 19 aprile 2022 nelle rinnovate sale della Galleria Corsini, in parte tra gli spazi della raccolta permanente e in parte negli ambienti destinate all’esposizioni temporanee, forte anche d’un nuovo impianto d’illuminazione, che rasenta la perfezione.
Sussistono tre ottime ragioni per reputare singolare il percorso di Plautilla Bricci. La prima: oltre che pittrice fu anche “architettrice”. E val la pena soffermarsi su questo termine, che qualcheduno, dopo aver scorto i manifesti della mostra attaccati agli autobus (non sia mai che ci s’azzardi a entrare in un museo), ha ottusamente ritenuto frutto di moderno politically correct. Al contrario, “architettrice” è termine secentesco, attestato al tempo di Plautilla come aggettivo, peraltro piuttosto comune: “la natura architettrice”, “una mente architettrice di tanto lavoro”, “la mano architettrice d’un dio”. È il femminile di “architettore”, termine che veniva adoperato all’epoca anche come sostantivo per indicare il mestiere che oggi chiamiamo “architetto”. Vasari, per esempio, ha scritto Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori. A partire da Plautilla, prima donna ad aver avuto una carriera nel mestiere dell’architettura, verrà utilizzato anche come sostantivo femminile (è lei stessa a introdurre l’uso, firmandosi “Plautilla Briccia architettrice” nel capitolato di Villa Benedetta, del 1663). Trovando peraltro piena accoglienza nei dizionarî della lingua italiana.
La seconda ragione è il contesto familiare di provenienza. Elisabetta Sirani e Lavinia Fontana, per citare due esempî, erano figlie di pittori a tempo pieno. Per una donna del Seicento le strade principali per far carriere come artista erano due: avere un padre che esercitava il mestiere, meglio se con attività già ben avviata, oppure imparare a dipingere in convento dopo aver preso i voti. Il padre di Plautilla era invece un personaggio “poliedrico”, si potrebbe dire con un eufemismo. Più prosaicamente, faceva mille cose. Scriveva opuscoli, libelli, opere teatrali dalle quali non guadagnava alcunché per quanto avessero una buona circolazione, si dava di tanto in tanto alla musica, all’occorrenza era anche matematico, e ovviamente dipingeva. Lui si definiva “pittore”, anche se la sua attività si limitò per lo più a operazioni di modesta portata (come l’esecuzione di insegne o stemmi, oppure illustrazioni per opuscoli): conosciamo dei disegni che lasciano supporre il suo coinvolgimento in opere più impegnative, che tuttavia non ci sono note. È comunque da lui che Plautilla poté ricevere una prima formazione (Lollobrigida, nella monografia del 2017, ha ipotizzato anche una frequentazione della bottega del Cavalier d’Arpino, pur senza documenti che l’attestino, ma sulla base del fatto che il padre conosceva il grande pittore e che la famiglia aveva casa vicino al palazzo del Cavaliere).
Infine, il terzo motivo della singolarità di Plautilla Bricci è la sua stessa carriera, che si svolse in gran parte nel segno della partnership (oggi si direbbe così) con l’abate Elpidio Benedetti, l’agente di Giulio Mazzarino a Roma ch’è stato oggetto d’una densa monografia del curatore Primarosa, e che le garantì un’indipendenza rarissima per una donna dell’epoca, dato che non si sposò, né mai si fece monaca. La mostra della Galleria Corsini entra su tutti questi aspetti, presentando praticamente tutta la produzione nota di Plautilla Bricci, alcune scoperte recenti (tra cui la prima opera nota dell’artista), un itinerario che tocca le vicende politiche del tempo (e in particolare il tema degli ambienti filofrancesi a Roma, a cui Plautilla Bricci s’accostò per tramite di Elpidio Benedetti, e sui quali è presente un approfondimento in catalogo, a firma di Aloisio Antinori), e che si propone al visitatore con un taglio fortemente monografico, dunque senza indugiare troppo, per esempio, su questioni come i ruoli delle donne artiste nella Roma del Seicento. Non è dunque una mostra che insegue determinate tendenze, anche perché l’attenzione della critica su Plautilla Bricci è accesa, come si vedrà più sotto, da diversi anni, benché solo di recente il suo nome sia diventato noto anche a un pubblico più largo di quello degli studiosi.
La prima sezione, Barocco in rosa, è costruita tutta con tre opere provenienti dalle Gallerie Barberini Corsini per offrire al visitatore un veloce quadro della pittura al femminile nella Roma del Seicento (immancabile ovviamente Artemisia, presente con l’Autoritratto come allegoria della pittura), e con una pregevole novità, ovvero un ritratto pubblicato nel 1987 da Patrizia Giusti Maccari, nella cui effigiata Gianni Papi propone per la prima volta (seppur con la cautela suggerita dal punto interrogativo) d’individuare l’immagine di Plautilla Bricci, poiché secondo lo studioso il soggetto è troppo caratterizzato per lasciar supporre che si tratti d’una figura allegorica. I tratti del volto, inclusi anche quelli più naturalistici come gli occhi molto distanti e lievemente strabici e il naso leggermente incurvato, escluderebbero secondo Papi “un intento ideale o allegorico; più ragionevole pensare che il foglio con i progetti architettonici tenuto in primo piano dalla mano sinistra della protagonista e il compasso impugnato con la destra siano gli orgogliosi simboli delle capacità della modella, consì inconsueti per una donna del Seicento”. È un avvio ad effetto: l’immagine di questa donna, così particolare, s’imprime negli occhi del visitatore che la terrà sempre mentalmente presente per tutto il percorso, anche perché nell’allestimento è posta subito all’inizio, quasi a cogliere di sorpresa il pubblico e a guidarlo verso la galleria, dov’è subito introdotto un tema fondamentale della carriera di Plautilla Bricci, il sodalizio con Elpidio Benedetti.
Difficile riassumere in breve la figura dell’abate. Primarosa, nell’introduzione del suo voluminoso libro frutto del programma di studî sul barocco di Fondazione 1563, fornisce quattro punti cardinali per fissarne l’attività: agente, intenditore d’arte, committente e “dilettante”. Agente, nello specifico, di Giulio Mazzarino: Benedetti sarebbe rimasto sempre legato alla Francia, per quanto abbia trascorso a Roma la maggior parte della sua vita, con l’incarico di gestire gli affari romani del cardinale. Dopo la scomparsa di Mazzarino, si mise al servizio di Jean-Baptiste Colbert, rimanendo comunque “per oltre un cinquantennio una figura chiave nel dialogo politico e artistico tra Roma e Parigi”. Uomo di vasta cultura, era anche noto, scriveva Primarosa, “per essere uno scaltro incettatore e rivenditore di quadri e statue antiche, nonché per le relazioni che intratteneva [con] alcuni dei più famosi artisti dell’epoca”. Benedetti stesso era pratico di disegno oltre che committente di opere d’arte, tanto da aver stretto una durevole collaborazione con Plautilla. Nella sua monografia, Lollobrigida ipotizzava che il ruolo di facilitatore tra Plautilla ed Elpidio Benedetti sia da attribuire all’avvocato Teofilo Sartorio, mentore di Giovanni Bricci in contatto col cardinale Mazzarino. Primarosa chiama invece in causa la sorella di Elpidio Benedetti, Flavia, divenuta nel 1627 monaca del convento di San Giuseppe a Capo le Case col nome di suor Elpidia: nella sua guida di Roma pubblicata nel 1638, l’erudito Pompilio Totti parla di “alcune pitture” nel convento di mano di suor Eufrasia, che dunque, stando a questa fonte, s’interessò di pittura. Le due donne potrebbero essersi conosciute negli ambienti carmelitani (è giustappunto d’ambito carmelitano la prima opera nota di Plautilla, del 1640, scoperta da Primarosa, ed esposta in mostra), ed Eufrasia potrebbe aver introdotto Plautilla a Elpidio. Quest’ultimo aveva imparato i suoi rudimenti d’arte nella bottega del padre Andrea Benedetti, ricamatore papale: in mostra, seguendo una nuova ipotesi secondo cui Plautilla potrebbe aver frequentato l’atelier di Andrea, scomparso nel 1651, vengono allineate le prime opere note del ricamatore, tra cui la pianeta di Gregorio XV in prestito dal Tesoro della Cattedrale di Bologna, per presentare gli esiti d’un’arte nella quale s’esercitò anche Plautilla (sono noti una commissione del cardinale Francesco Barberini, del 1664, per un panno da tavola con San Francesco, e alcuni parati dipinti nel 1667, tutte opere perdute).
Con la terza sezione s’entra nel vivo dei rapporti tra Plautilla Bricci ed Elpidio Benedetti, con i due progetti (riprodotti in facsimile) per il monumento funebre del cardinale Mazzarino (un suo ritratto, eseguito da Pietro da Cortona e conservato in collezione privata, marca scenograficamente questo capitolo del percorso). Il curatore ne attribuisce l’ideazione a Benedetti e l’esecuzione, per ragioni stilistiche e vicinanza agli unici disegni noti, a Plautilla: in quello più magniloquente, ideato per un monumento da poggiare alla parete (l’altro invece concepito per venire innalzato isolato), s’osserva il sarcofago sormontato dalla statua del cardinale a tutto tondo, affiancata da due angeli che fanno squillare le trombe e sovrastata a sua volta dalle allegorie della Giustizia e della Pace, identificate rispettivamente dal fascio e dal ramoscello d’ulivo, con un putto che vola sopra a tutte le figure reggendo una corona. Progetto del 1657, nato in seguito a una particolare circostanza (Gian Lorenzo Bernini, interpellato in prima istanza, declinò l’invito a occuparsi dell’impresa), è questa l’opera che dà avvio al sodalizio tra Plautilla ed Elpidio Benedetti: il progetto non sarebbe stato però realizzato.
L’abate, tuttavia, non fu per Plautilla soltanto l’ideatore di progetti nell’ambito dei quali era a lei riservato il ruolo di mera esecutrice: le fece anche, diremmo oggi, da commerciale. E il primo dipinto di Plautilla con cui s’entra in contatto in mostra, uno dei pochi del ristrettissimo corpus pittorico dell’artista romana, lo stendardo processionale dipinto nel 1675 per la compagnia della Misericordia di Poggio Mirteto (“bellissimo” fu definito dai confratelli entusiasti), nacque da un incarico che le fu procurato proprio grazie al tramite di Benedetti. Il dipinto, aggiunto al catalogo di Plautilla nel 2012 da Yuri Primarosa, oggi s’ammira sull’altare maggiore della chiesa di San Giovanni Battista della città sabina (fu riutilizzato come pala a partire dal 1700), ed è dipinto su di un lato con la Nascita e sull’altro con la Morte del Battista. Si tratta dell’unica opera di Plautilla della quale abbiamo una data certa, benché si tratti d’un’opera molto avanzata: all’epoca della realizzazione l’artista aveva infatti già compiuto cinquantanove anni. Opera classica, composta, garbatamente cortonesca e con più spiccati accenti naturalistici nella scena con la Morte del Battista, è giudicata “vero capolavoro della pittrice” da Primarosa nonché debitrice nei confronti del pacato linguaggio di Giovanni Domenico Romanelli e di Andrea Sacchi, con anche quale eco arpinesca (Lollobrigida metteva a paragone la scena della Nascita con la Nascita della Vergine del Cavalier d’Arpino nella chiesa di Santa Maria di Loreto, ritenendo la prima quasi esemplata sull’opera di Giuseppe Cesari).
L’attività pittorica di Plautilla è stata raccolta in un’unica sala aperta cronologicamente dalla Madonna col Bambino, opera attesta dalle fonti (anche perché in antico considerata miracolosa), ritenuta perduta fino a poco tempo fa e scoperta nel 2018 da Primarosa (nel luogo in cui era stata installata nel 1676, ovvero l’altare della chiesa di Santa Maria in Montesanto a Roma), che ne ha ricostruito la storia. È la prima opera pubblica eseguita da Plautilla a Roma, in onore della Beata Vergine del Carmelo restituita sulla tela secondo l’iconografia più tradizionale, e con i modi compassati e quasi ingenui d’un’artista all’inizio della sua carriera (pur mostrando, sottolinea Primarosa, “qualche qualità nel volto allegro e presente del Bambin Gesù e nella resa prospettica della mano della Vergine che regge il globo). L’attribuzione è confermata dalla presenza della firma dell’artista sul retro della tela, vicina a un appunto che dice l’opera ”depinta circa l’anno 1640 da Plautilla Bricci romana zitella". Bizzarre e degne di menzione le circostanze in cui nacque l’icona miracolosa di Plautilla, dato che suo padre Giovanni (che era pure attore) fece credere che l’opera era stata completata dalla Madonna: opera dunque ritenuta acheropita, che garantì a Plautilla la fama di donna toccata dalla grazia divina, status che, a fronte del voto di castità, le risparmiò un matrimonio combinato e l’ingresso in convento, ponendosi dunque, in qualche modo, all’origine della sua indipendenza. Essendo perciò datata al 1640 circa, sarebbe la prima opera nota di Plautilla e secondo Primarosa anche la prima opera a lei riferibile, avendo il curatore scartato l’attribuzione a Plautilla della Sacra Famiglia e l’Eterno della chiesa dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso, oratorio dove Giovanni Bricci, benché da molto prima della nascita della figlia, ricopriva l’incarico di maestro di coro. Nella stessa sala s’alternano altre opere di Plautilla, a cominciare da un capolavoro come il lunettone con l’Angelo che offre il Sacro Cuore di Gesù al Padreterno del 1669-1674: opera resa nota da Consuelo Lollobrigida che ne ha indicato la provenienza dalla sacrestia dei canonici lateranensi in San Giovanni in Laterano, eseguita a tempera su tela, è un dipinto di sicuro effetto, monumentale, moderno, che come lo stendardo di Poggio Mirteto guarda a Pietro da Cortona e a Giovanni Francesco Romanelli (presente peraltro in mostra con quattro dipinti). Si fa notare per un particolare: Plautilla ha orgogliosamente firmato l’opera con la formula “invenit et pinxit”, rivendicando dunque non soltanto l’esecuzione, ma anche l’invenzione dell’opera, e attribuendosi pertanto un ruolo che pubblicamente di rado le era riconosciuto. Il “giro” delle opere di Plautilla si completa con la delicata Madonna del Rosario della collegiata di Santa Maria Assunta di Poggio Mirteto, attribuita da Primarosa a Plautilla nel 2014 su base stilistica, elegante tela centinata in dialogo con l’omologo dipinto di Romanelli proveniente dalla chiesa dei Santi Domenico e Sisto di Roma, e con il solenne San Luigi IX di Francia tra la Storia e la Fede, che avvia il pubblico verso la conclusione della rassegna.
La tela fu infatti dipinta per la cappella Benedetti in San Luigi dei Francesi, progettata da Plautilla per l’abate negli anni Settanta: “manifesto della rinnovata protezione accordata dalla Francia alle istanze cattoliche”, ha scritto Primarosa, la cappella è opera di gusto berniniano, introdotta da un grande drappo barocco inserito a mo’ di sipario che s’apre dinnanzi agli occhi del fedele. L’architettrice diede qui prova di quella teatralità e di quel gusto per l’eccentrico che aveva già dimostrato anche nel suo capolavoro, la “Villa Benedetta”, nota anche come “Villa del Vascello” per la sua singolare forma, le cui vicende son ripercorse nell’ultima parte della mostra: costruita tra il 1662 e il 1665, era la residenza di Elpidio Benedetti. Alla Galleria Corsini ecco i progetti e i disegni, esposti dopo un restauro, oltre che le immagini eseguite da altri artisti e architetti che hanno voluto fissare le idee di Plautilla. Sono vivi testimoni delle originalissime soluzioni dell’architettrice: una loggia semicircolare che faceva da “prua” del vascello, le torri che svettavano come vele, il particolarissimo ingresso a forma di scogliera (uno dei pochi elementi superstiti). La follia della guerra ci ha privati della realizzazione più spettacolare della Plautilla architettrice: la Villa del Vascello è andata tragicamente distrutta nel 1849, durante la difesa della Repubblica Romana, devastata dall’artiglieria francese, poiché situata nei pressi delle Mura di Roma ed essendosi trovata malgré soi a fare da ultimo baluardo per i difensori. Fu in parte demolita, anche se i resti, poi risistemati, sono tuttora in uso e oggi sono sede del Grande Oriente d’Italia.
Rimangono da sciogliere i nodi su come Plautilla Bricci abbia avuto accesso alla professione di architettrice, all’epoca unicamente maschile: in Italia non ci sono precedenti simili, mentre fuori dalla penisola l’unico caso sul quale si potrebbe discutere è quello della nobile francese Katherine Briçonnet, ch’ebbe qualche ruolo nella progettazione del castello di Chenonceau, nel quale viveva assieme al marito Thomas Bohier, tesoriere della corona francese all’inizio del Cinquecento. Si tratta d’un argomento comunque poco studiato, e il caso di Plautilla ha caratteri tali da portarci, stanti le nostre conoscenze, a definirla la prima donna della storia a esercitare la professione. Elpidio Benedetti, il suo potente collaboratore, era un habitué delle botteghe dei grandi architetti del tempo, da Gian Lorenzo Bernini a Francesco Borromini, da Pietro da Cortona a Carlo Rainaldi: fu di sicuro fondamentale per l’avvio della carriera di Plautilla, tanto che l’artista fu probabilmente coinvolta nella ristrutturazione di una casa che Benedetti aveva preso in affitto nel 1651, ma la sua formazione avvenne di sicuro in altro contesto, e dall’itinerario di visita non s’evincono risposte sulla questione, peraltro molto affascinante. Lollobrigida, nella sua monografia, procede per congetture, tutte non dimostrabili al momento dai documenti, e ipotizza che Plautilla abbia frequentato la (a sua volta ipotetica) scuola di formazione per architetti forse aperta da Cassiano dal Pozzo nel suo palazzo, e che abbia fatto pratica assieme al fratello Basilio, anch’egli poi divenuto architetto, nel cantiere dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso, la cui costruzione cominciò nel 1612 e andò avanti molto a rilento. Si tratta però solo di spunti: per ora non abbiamo notizie sulla sua formazione da architettrice.
Di certo possiamo immaginare che il fatto d’essere donna non l’aiutò, anzi le fu d’ostacolo. Benedetti, nei suoi scambi epistolari con Mazzarino, pur citando diversi architetti, non nomina mai Plautilla. Evidentemente, spiega Primarosa, da una parte l’abate intendeva “arrogarsi il merito, intellettuale e materiale”, delle opere realizzate per il cardinale, e dall’altro riteneva che rivelare la presenza d’una donna dietro i progetti presentati a Mazzarino “avrebbe ulteriormente ridotto le loro già scarse possibilità di successo”. Solo più tardi, all’epoca dei cantieri del Vascello e di San Luigi dei Francesi, Plautilla ebbe finalmente l’opportunità di palesarsi come artista autonoma. In una parola, di emanciparsi. E ciò sarebbe avvenuto solo dopo la scomparsa di Mazzarino, quando forse Benedetti ritenne che fosse giunto il momento di scoprire alcune delle sue carte, sebbene prudentemente (venne comunque taciuto l’eventuale contributo di Plautilla ai progetti per la scalinata di Trinità de’ Monti, opera che mai trovò concretizzazione, così come il Vascello fu spacciato per creazione di Basilio): non a caso la parte più importante della carriera di Plautilla, incluse le commesse più prestigiose, data dagli anni Sessanta in poi. Dunque, Plautilla Bricci pittrice e architettrice. Una rivoluzione silenziosa, è mostra che oltre a restituirci in maniera completa la fisionomia dell’artista sulla base di ciò che di lei sappiamo, pone le basi per ulteriori sviluppi. Nell’attesa, il pubblico può approfittare d’un’utile occasione, e sin qui unica, per conoscere da vicino, con pressoché tutto ciò che di lei sappiamo esserci rimasto, la storia, la vicenda umana e l’arte d’una pittrice, un’architettrice, una donna che impiegò una vita intera per emergere.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).