La mostra su Rubens, allestita fino a pochi giorni fa in Palazzo Reale a Genova, presentava tra alcuni inediti un dipinto raffigurante San Sebastiano curato dagli angeli, appartenente a collezione privata, ma da qualche anno esposto in comodato alla Rubenshuis di Anversa, solo dubitativamente attribuito a “Rubens e bottega”.
L’opera, che veniva presentata come una replica autografa, con alcune variazioni, dell’esemplare appartenente alla Galleria Corsini di Roma, aveva già partecipato alla mostra Becoming famous. Peter Paul Rubens, tenutasi a Stoccarda nel 2021-2022, dove era attribuita solo dubitativamente al pittore dallo stesso Büttner. Nella scheda redatta da Anna Orlando, non vi è alcun accenno ai dubbi espressi in precedenza sulla presunta autografia del quadro, presentato direttamente in questa occasione come opera originale di Rubens, senza necessità d’alcuna spiegazione critica.
A differenza della versione di Palazzo Corsini, di cui è ormai accettata universalmente l’appartenenza al maestro, ma già oggetto di alterne dubbiose considerazioni per quanto ne riguarda la collocazione nel corso dell’attività, la nuova versione esposta in mostra veniva riferita senza esitazione al 1615 e identificata con un San Sebastiano curato dagli angeli, citato con misure compatibili in un inventario del 1722, relativo alla collezione di Carlo Filippo Antonio Spinola Colonna, cosa che induceva l’autrice della scheda a ritenerne il committente originario l’antenato Ambrogio Spinola o il di lui figlio Filippo. La questione è tuttavia assai complessa per venire liquidata con poche parole e va affrontata anche considerando l’opera in rapporto alle altre versioni esistenti.
L’esemplare di Palazzo Corsini, che presenta l’aggiunta palesemente posteriore di due angioletti, è stata risolta da Michael Jaffé col riferimento intorno al 1608-1610 (Jaffé, Rubens 1989, p. 162, n. 75), mentre viene rubricata come copia seicentesca un’analoga versione di collezione privata, contenente la variante del drappo bianco che ricopre parte delle nudità del santo, girato dietro al suo busto e sollevato sopra le sue spalle da uno dei due angioletti sulla destra. Hans Vlieghe (1973; Corpus Rubenianum, Saints, vol II, n.144; pagg. 147-148), notando come un grande disegno appartenente al Louvre, raffigurante il Battesimo di Cristo, oggi conservato dal Musée des Beaux Arts di Anversa, eseguito da Rubens per una delle tre tele da lui approntate nel 1604, su commessa di Vincenzo Gonzaga, per la cappella maggiore della chiesa della SS. Trinità a Mantova, raffigurava al centro della composizione un giovane ignudo addossato ad un albero, escluso poi dal numeroso gruppo di figure riportate nel grande quadro per la chiesa. L’esclusione di quest’unica figura sembra trovare la sua ragione nel vederla invece utilizzata, quasi gemella, nel San Sebastiano curato dagli angeli della Galleria Nazionale di Palazzo Corsini a Roma, dal che Hans Vlieghe deduceva opportunamente l’esecuzione dell’opera in un momento tra il disegno progettuale e la sua trasposizione finale su tela, dunque intorno al 1601-1603.
Va tuttavia rilevato che l’opera sembra caratterizzata da tratti stilistici e da un rapporto tra luci ed ombre meno contrastato e drammatico rispetto ai primi anni italiani di Rubens, tali appunto da avere indotto Jaffè ad avanzarne la datazione a dopo il ritorno del pittore ad Anversa.
Vi sono inoltre oggi altri elementi, che riportano verso il tempo mantovano di Rubens l’esecuzione di un’opera analoga. In un primo tempo infatti il pittore aveva pensato di utilizzare, sempre attingendo alla medesima composizione ideata per la chiesa mantovana, proprio la figura di Cristo, come dimostra un sintetico bozzetto (ubicazione ignota, già a Parigi, Millon et Associés, 1/03/2013, n. 33, olio su carta incollata su tavola, cm 23 x 18,5, come École flamande debut du XVIII siècle), la cui affinità stilistica con i modi ancora un poco acerbi che già conosciamo di questo suo primo tempo italiano, come il Martirio di sant’Orsola, oggi al Palazzo Ducale di Mantova, pervenutovi dal convento di S. Orsola, o la Caduta di Fetonte di collezione londinese (M. Jaffé, Rubens e l’Italia, 1977, p. 78, figg. 234 - 235), appare evidente. Anche il resto della composizione risulta nel bozzetto pensato in altro modo, ad eccezione della figura dell’angelo inginocchiato sulla destra, essenziale nel confermare la relazione con la definitiva versione oggetto di questa dissertazione.
A gettare nuova luce sulla questione, quanto meno per restituirne l’aspetto più convincente della versione originale, esiste un’ulteriore redazione inedita dell’opera, appartenente ad una collezione privata inglese (olio su tela, cm 115 x 92), le cui dimensioni risultano compatibili con quelle riportate nel documento Spinola e nell’identico rapporto tra altezza e larghezza.
L’opera è caratterizzata da un registro cromatico e da un’intensità chiaroscurale decisamente più adeguata a quella che caratterizza il momento operativo di Rubens, nel suo primo tempo italiano alla corte di Vincenzo Gonzaga, quando ogni suo impegno è diretto allo studio della grande pittura italiana.
Decisamente alternativa rispetto alla versione presentata in mostra, che appare ancor più lontana dai modi tipici dei primi anni italiani di Rubens di quella appartenente alla Galleria Corsini, caratterizzata da una tavolozza dai toni attenuati che tendono ad una dominante grigio-perlacea, e da un’esecuzione diligente e più disegnativa che pittorica, appiattita nel rapporto smorzato tra luci ed ombre, dove non si discerne più alcun ricordo del vigore cromatico e della funzione strutturale del colore di ascendenza veneziana.
In questa inedita versione del San Sebastiano curato dagli angeli merita particolare attenzione quell’angolo di cielo blu intenso, solcato da striature luminose e da nuvole rosate, come in un tipico tramonto di pittura lagunare, difficilmente riscontrabile nella tradizione figurativa fiamminga, ma assolutamente tipico invece di molta pittura veneta e di repertorio soprattutto in numerose opere di Tiziano, il pittore più amato da Rubens in Italia.
In relazione al particolare momento del pittore, è inoltre esemplare l’essenzialità con cui egli costruisce per semplificate e sbrigative lumeggiature le pieghe dei panni, quasi rinunciando del tutto al modellato progressivo dello sfumato. Modi che, in questi anni intensamente dedicati allo studio della pittura veneziana, riecheggiano soprattutto quelli del Tintoretto, e che ritroviamo in altri dipinti coevi, come nel ritratto di Gio. Carlo Doria a cavallo del suo destriero, di Palazzo Spinola, dove la rossa fascia svolazzante fissata ad un braccio del cavaliere evidenzia un tratto d’esecuzione del tutto analogo a quello d’identico colore da lui raffigurato nell’angolo superiore sinistro del S. Sebastiano. Analogia stilistica che ritorna anche nelle sintetiche pennellate del bianco drappo che scende sul suo fianco destro, ove di diverso vi è solo il colore. Tenuto conto delle assai maggiori dimensioni, sono poi i medesimi tratti essenziali che caratterizzano le grandi tele coeve con i Gonzaga in adorazione della Trinità nel Palazzo Ducale di Mantova.