Sono passati quattrocento anni esatti dalla pubblicazione dei Palazzi di Genova di Pieter Paul Rubens, il libro col quale il grande artista fiammingo, mosso da un vivo interesse per le architetture genovesi, tanto da dare il volume alle stampe a proprie spese, dedicò agli edifici nei quali risiedeva il patriziato cittadino. Il libro di Rubens rappresenta uno dei più rilevanti documenti sulla cultura genovese dell’abitare, sul gusto del primo scorcio del XVII secolo, sulle scelte della nobiltà del Seicento, oltre che uno spaccato sulla situazione economica, politica e sociale della Genova del tempo. Dunque, Genova celebra la ricorrenza con una lunga mostra tra le sale di Palazzo Ducale, Rubens a Genova, a cura di Nils Büttner e Anna Orlando, dedicata, come si legge nella presentazione “a Pietro Paolo Rubens e al suo rapporto con la città”. Un’operazione non inedita: la rassegna ch’è possibile visitare fino al 5 febbraio 2023 è stata infatti preceduta da altre due significative occasioni espositive, tutt’e due tenutesi a Palazzo Ducale, che hanno sondato lo stesso argomento.
Un ruolo da apripista va ascritto alla mostra Rubens e Genova del 1977-1978: organizzata pochi anni dopo la crisi economica del 1973 e la conseguente austerity (nelle introduzioni del catalogo si possono cogliere i riflessi d’un periodo di ristrettezze economiche che impedì la realizzazione d’una grande mostra), nell’ambito dell’“anno internazionale di Rubens” che ricordava il quarto centenario della nascita dell’artista, fu la prima mostra in cui i legami tra Rubens e Genova vennero riallacciati in maniera sistematica. Una mostra, dichiarava il curatore Giuliano Frabetti (che lavorò con un comitato composto, oltre che da lui, da Giuliana Biavati, Ida Maria Botto, Giorgio Doria, Ennio Poleggi e Laura Tagliaferro), “centrata soprattutto sugli aspetti della genoese way of life all’epoca di Rubens, visti nell’ottica della cultura, dell’umanità, dell’arte del fiammingo, che li scruta, li comprende, li illustra, li confronta a livello internazionale”. La rassegna si componeva di una prima sezione introduttiva di carattere storico-economico, cui seguivano un capitolo sui rapporti di Rubens con la città, una sezione sui Palazzi di Genova, e un focus sui dipinti genovesi del pittore. Il pubblico, scriveva ancora Frabetti, non doveva “attendersi dalla mostra le trionfalistiche sfilate di capolavori” che avevano animato le varie mostre europee dell’anno rubensiano, da Anversa a Vienna passando per Firenze, a causa di una serie di “limiti pratici ed economici” che avevano costretto i curatori a una “scarna campionatura”. Scarna, certo, ma base decisamente significativa per impostare il lavoro: arrivavano dunque a Palazzo Ducale l’Ercole e la Deianira di Torino (all’epoca a Palazzo Madama, oggi alla Galleria Sabauda), il Ritratto di Ladislao di Polonia e il Ritratto di Filippo IV della collezione Durazzo Pallavicini, il Ritratto equestre di Giovanni Carlo Doria (dipinto a quel tempo non ancora risolto con certezza, sebbene i curatori propendessero per individuare nell’effigiato Giovanni Carlo Doria, identificazione oggi non più in discussione: il dipinto era stato rintracciato da Longhi nel 1939 ed era conservato a Palazzo Vecchio a Firenze), e venivano schedate come parti integranti della mostra, sebbene non avessero lasciato le loro sedi, le due pale della chiesa del Gesù (la Circoncisione e i Miracoli di sant’Ignazio). La selezione si concludeva con un ritratto di Vincenzo I Gonzaga, della Galleria Rizzi di Sestri Levante, dato a Rubens, ma che i curatori assegnarono invece a Frans Pourbus il Giovane, attribuzione in seguito non più contestata.
Tutt’altra atmosfera accompagnò la grande mostra L’età di Rubens, curata da Piero Boccardo, con la collaborazione di Clario Di Fabio, Anna Orlando e Farida Simonetti, e organizzata nel 2004 nell’ambito delle iniziative per Genova capitale europea della cultura, negli ultimi scampoli d’un lungo periodo di floridezza economica che la crisi dei subprime avrebbe interrotto tre anni dopo. Un’epoca in cui era consuetudine assistere a mostre d’enorme portata, quale fu, effettivamente, L’età di Rubens, che come da titolo non si concentrava in via esclusiva sulla relazione tra artista e città (per quanto fossero presenti in mostra diversi dipinti che sostengono oggi la rassegna di Büttner e Orlando: il ritratto di Buscot Park, il ritratto di Giulio Pallavicino, i dipinti torinesi, il Compianto di Venere su Adone, esposto allora come originale e oggi derubricato a copia benché la questione sia ancora aperta, e poi ancora il ritratto di Geronima Spinola Spinola con la nipote, cui s’aggiungevano la Brigida Spinola Doria della National Gallery di Washington, il Giovanni Carlo Doria di Palazzo Spinola, la Giunone di Colonia, il Serpente di bronzo della National Gallery, la Giovanna Spinola Pavese di collezione privata), ma in via più ampia sul collezionismo nella Genova del tempo: ne scaturiva non soltanto una mostra sistematica e al contempo di ampio respiro, con le opere di Rubens inserite entro una parata di capolavori (di Caravaggio, Tiziano, Guido Reni, Paris Bordon, Orazio Gentileschi, Antoon van Dyck e numerosi altri artisti) che offrivano con esplosiva efficacia un’immagine eloquente delle quadrerie dei collezionisti del tempo, ma anche una pubblicazione d’accompagnamento che stava a metà tra il catalogo della mostra e il catalogo ragionato, con l’intero regesto delle opere “genovesi” di Rubens (eseguite per i clienti liguri oppure arrivate in città per vicende collezionistiche, e poi ancora quelle irrintracciabili e quelle un tempo date a Rubens ma poi espunte dal suo catalogo), e approfondimenti sui singoli collezionisti, con tanto di ricostruzione degl’inventari delle loro raccolte.
Rubens a Genova non ha né il carattere pionieristico di Rubens e Genova, né si configura come una mostra organica come L’età di Rubens (che peraltro s’estendeva anche agli altri luoghi “rubensiani” di Genova: anche in quel caso le opere del Gesù erano schedate come parti della mostra, pur non avendo lasciato le loro sedi, e c’erano sezioni a Palazzo Rosso e a Palazzo Spinola), per quanto l’intento dichiarato sia quello di ricostruire “ciò che vide, chi incontrò, chi conobbe” l’artista durante i suoi trascorsi genovesi: la si può considerare semmai una mostra di addenda, non necessariamente legate a vicende genovesi, ragion per cui l’itinerario di visita potrà risultare tortuoso e disomogeneo. L’introduzione è affidata allo studio che Rubens eseguì per la perduta figura dell’alabardiere della Trinità di Mantova, nella quale l’artista si ritrasse: l’opera, un olio su carta, venne pubblicata da Michael Jaffé nel 1977, e ricondotta alla pala mantovana da Elizabeth McGrath nel 1981, ipotesi su cui si registra anche il parere concorde di Ugo Bazzotti del 2016 in occasione della giornata di studi proprio sulla Trinità tenutasi quell’anno al Palazzo Ducale di Mantova. Il recente acquisto da parte di un collezionista privato e il prestito alla Rubenshuis nel 2020 hanno richiamato l’attenzione sull’opera (presentata come “a new Rubens self-portrait” quand’è stata esposta in Belgio nel 2020, ma in realtà già nota, come s’è visto, dagli anni Settanta) che ha potuto così arrivare anche a Genova per sancire l’avvio della mostra, che prosegue con l’esposizione dell’editio princeps dei Palazzi di Genova, e a cui fa seguito una sezione sulla “Genova meravigliosa” divisa in quattro parti: una dal buffo titolo “Rubens in Love”, una sui giardini dei palazzi nobiliari, una sugli “amici” di Rubens e una sul modello dei Miracoli di sant’Ignazio del Gesù. Nel registrare in questa sezione una interessante novità, ovvero la scoperta in collezione privata francese di un inedito bozzetto dei Miracoli di sant’Ignazio, di attribuzione incerta, posto a diretto confronto con l’omologo studio conservato alla Dulwich Picture Gallery (è comunque, pur nell’incertezza, un’opera d’indubbia qualità che rappresenta, con tutta probabilità, uno stadio dei lavori più avanzato rispetto al bozzetto inglese), vale la pena soffermarsi sulle motivazioni che indussero Rubens a “innamorarsi” di Genova, se si vuol seguire il titolo della prima sottosezione: sono ragioni più profonde della subitanea infatuazione del pittore per la vocazione ai commerci e alle finanze della città, per la sua ricchezza, la sua cultura e la raffinatezza, per l’intraprendenza della sua classe dirigente.
La componente della “meraviglia”, in mostra evocata soprattutto dalla coppia di dipinti di Jan Wildens e dalla Veduta di Genova di Gerolamo Bordoni, era certo comune a tanti che giungevano da lontano in una città splendida e che non mancò di soggiogare col suo fascino anche il giovane Rubens. Ma c’era molto di più. Ragioni di carattere sociale, intanto: Rubens veniva da una famiglia borghese, e in quanto nato e cresciuto in un ambiente che identificava il prestigio (e il successo) coi risultati del prodotto del proprio ingegno e delle proprie mani, il giovane artista non poteva non risultare ammaliato da una ricchezza ch’era frutto di lavoro, commerci, finanza. E, come ricostruì Giorgio Doria, Rubens vedeva in Genova l’immagine tangibile dell’opulenza (e del denaro, naturalmente) prodotta dalla stessa classe sociale da cui proveniva (la sua stessa famiglia, nonostante il padre svolgesse il mestiere di avvocato, aveva tradizioni mercantili): un’immagine rafforzata dalla “onnipresenza del capitale genovese”, nelle Fiandre come in Germania così come a Mantova, tutti luoghi nei quali il giovane Rubens viaggiò durante la sua carriera e che lo portarono verosimilmente a farsi un’idea della città ancor prima di arrivarci, specie se posta a paragone con la sua Anversa, che a inizio Seicento stava cominciando a risollevarsi da una crisi economica che l’aveva colpita nell’ultimo scorcio del secolo precedente. I Palazzi di Genova, per inciso, potrebbero anche essere interpretati come il desiderio, da parte di Rubens, d’offrire uno stimolo alla borghesia mercantile anversana, uno sprone a emulare quanto andava facendo l’oligarchia genovese. E probabilmente un ruolo tutt’altro che secondario dev’essere assegnato al primo maestro di Rubens, Otto van Veen, pittore fiammingo che aveva lavorato a lungo per il cardinale Alessandro Farnese, artista colto, appassionato di letteratura classica e conoscitore dell’Italia, la cui frequentazione non poté non lasciar traccia sul giovane Rubens allora in formazione. In più, come ha recentemente scritto Anne T. Woollett, forse non è da escludere che Rubens abbia lasciato Anversa per Mantova, nell’autunno del 1600, armato d’una lettera di raccomandazione vergata da Van Veen. La sezione successiva della mostra si concentra proprio sull’arrivo di Rubens a Mantova, fondamentale per il successivo soggiorno a Genova, dati i rapporti che la città dei Gonzaga intratteneva con la Repubblica da antica data, e che s’erano intensificati proprio a cavallo tra Cinque e Seicento (peraltro alcuni dei banchieri del duca Vincenzo I Gonzaga saranno committenti di Rubens), ma rimane tuttavia in superficie, benché ci sia un interessante momento di confronto tra un’opera importante quale il frammento della Trinità con il ritratto di Ferdinando Gonzaga infante, conservato alla Fondazione Magnani-Rocca di Traversetolo, e il summenzionato ritratto di Vincenzo I di Pourbus della Galleria Rizzi di Sestri Levante, ch’era dato un tempo a Rubens.
Giungono poi altre due sezioni che rievocano l’ambiente genovese: una sul milieu letterario della città, altro motivo del fascino che Genova esercitò su Rubens (vi si trovano un ritratto di Gabriello Chiabrera eseguito da Bernardo Castello, alcuni libri tra i più letti del tempo, su tutti la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, e un dipinto di bottega, Ero e Leandro, ritenuto replica di un’opera perduta ma nota anche attraverso un’altra replica, seppur di qualità più alta rispetto a quella esposta in mostra, ed esposta alla Gemäldegalerie di Dresda), e una sulle famiglie genovesi. Viene qui presentato un San Sebastiano di privata collezione tedesca che non soltanto viene attribuito senza dubbi a Rubens, ma che viene fatto risalire alla committenza di Ambrogio Spinola sulla base del testamento di suo figlio Filippo, ritrovato in occasione degli studi condotti per la mostra nell’Archivio di Stato di Alessandria, e che testimonia nel 1655 la presenza di una “imago S.ti Sebastiani de manu Rubens” nella sua collezione. Prima di questo ritrovamento l’ultima attestazione del dipinto risaliva al 1722 (data in cui il “San Sebastiano medicato dagli angeli” figura nel palazzo di Carlo Filippo Antonio Spinola Colonna, in antico dimora di Ambrogio), dopodiché non se ne hanno più notizie. Non si comprende perché in mostra il dipinto, di cui si conosce un’altra versione, quella di Palazzo Corsini a Roma, leggermente diversa nella composizione ma che appare decisamente più potente oltre che più studiata nella resa degl’incarnati e negli effetti di luce, venga dato senza esitazione alla mano del solo maestro. Occorre infatti specificare che nella recente guida della Rubenshuis di Anversa (2020), dove l’opera è esposta in prestito a lungo termine, il dipinto viene assegnato a “Rubens e bottega” e viene spiegato che anche sulla datazione vige ancora incertezza, mentre nel catalogo della mostra Becoming famous. Peter Paul Rubens, tenutasi a Stoccarda tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, lo stesso Büttner, pur ritenendo probabile l’identificazione di questo dipito con quello dell’inventario del 1722, lo registrava con un punto interrogativo di fianco al nome di Rubens: poiché l’unica novità di rilievo è la scoperta del documento del 1655, che fornisce al più una prova per ricondurre un San Sebastiano alla committenza di Ambrogio Spinola, ma com’è scritto anche nel catalogo c’è un vuoto d’informazioni tra il 1722 e la data della recente apparizione sul mercato del dipinto in questione, risulta poco chiaro il perché della scomparsa del punto interrogativo che accompagnava il dipinto a Stoccarda. Conosciamo invece molto meglio la storia dell’Ercole e della Deianira esposti vicino e presenze fisse di tutte le mostre genovesi su Rubens: sono non soltanto opere che attestano i rapporti tra il collezionismo ligure e il pittore fiammingo, ma sono anche notevoli sunti delle fonti che lo ispirarono, tra antichità classica e Michelangelo, tra lezione carraccesca e quella, ancor più evidente, di Tiziano. Purtroppo in mostra non compaiono opere per contestualizzare meglio la cultura figurativa di Rubens: si troverà invece, appena dopo le opere torinesi, una sezione interlocutoria dedicata alla pittura di genere e alle nature morte per dare un saggio dei gusti della committenza genovese.
Poco coerente sembra poi la sezione sulla ritrattistica, di cui peraltro si trova un’appendice a fine mostra, dacché i curatori han preferito esporre il ritratto di Buscot Park in un capitolo a sé sulle dame genovesi dall’enfatico titolo “Genova paradiso delle donne”, ripresa di un commento di Enea Silvio Piccolomini che, due secoli prima di Rubens, si riferiva non solo ai lussi di cui le donne genovesi si circondavano, ma anche (e soprattutto) alle libertà di cui godevano: nonostante gli apparati di sala facciano intendere cha la sezione intende affrontare la “rivoluzione” nella ritrattistica apportata da Rubens, nonostante venga evocato il nome di Tiziano (del quale non figura neppure un’opera in mostra, così come non ci sono opere di pittori veneti), nonostante si elenchino gli artisti apprezzati dal fiammingo, la sezione si risolve in un confronto tra, da una parte, il Ritratto di dama in collezione privata ad Heidelberg, per il quale viene proposta per la prima volta un’ipotetica provenienza mantovana, e quello di Giovanna Spinola Pavese conservato al Museo Nazionale di Bucarest (e dipendente da un simile dipinto in collezione privata, nella cui effigiata Orlando propone d’identificare la cognata Maria Doria Pavese: l’opera non è in mostra), e dall’altra una selezione di opere di Bernardo Castello, Luca Cambiaso, Guillem van Deynen. Insomma, se intento della sala sembra quasi essere quello d’affrontare la ritrattistica rubensiana nel suo complesso, la selezione, al contrario, non s’estende al di là dei confini genovesi. Quanto invece al ritratto di Buscot Park, che il pubblico, come anticipato, troverà qualche sala più avanti, anche in questo caso è accompagnato da una nuova ipotesi: in particolare, viene proposta un’identificazione con Violante Spinola Serra, sorella della Veronica effigiata in un ritratto quasi identico conservato alla Kunsthalle di Karlsruhe (l’idea di Anna Orlando è che Rubens abbia dipinto, con poche differenze, i ritratti di due sorelle molto somiglianti, seppur divise da sei anni d’età).
Nelle quattro sale che intercorrono tra quella in cui sono stati dislocati i ritratti e quella del dipinto di Buscot Park, si è trovato il motivo dei “quattro elementi” per giustificare una sorta di pot-pourri in cui s’incontra di tutto, con l’idea di portare il visitatore nell’“universo fantastico che Rubens riproduce con la sua arte coinvolgente, a 360°”, come recita il pannello di sala. All’elemento “terra” sono associate una variante, conservata in collezione privata, della Pietà di Rodolfo d’Asburgo custodita a Madrid, eseguita da Rubens in concorso con Jan Wildens e recentemente protagonista di una gustosa vicenda di provincia (dopo che riemerse venne esposta per la prima volta nel 2015 a Matelica, e ne nacque una polemica tra maggioranza e opposizione in merito all’autenticità del dipinto, sulla quale non pendono dubbî, benché la versione di Madrid sia di qualità più alta), e una replica dell’Omaggio a Cerere dell’Hermitage. La sezione sull’aria viene aperta dall’Albero con pavone sinora ritenuto opera di Sinibaldo Scorza (e così figura anche nel catalogo di Rubens a Genova), ma i pannelli in sala informano che, poco prima della partenza della rassegna, l’attribuzione è stata cambiata in favore di Jan Roos (occorrerà dunque capire in separata sede i motivi di questo cambio d’attribuzione), mentre nella sala sull’acqua trovano spazio la Susanna e i vecchioni della Galleria Borghese, e un abbozzo, di collezione privata svizzera, della Scoperta di Erittonio conservata nella raccolta dei principi del Liechtenstein. Si passa infine al fuoco, qui inteso come simbolo di passione, che vede per protagonista una delle migliori opere rubensiane in mostra, Venere, Cupido, Bacco e Cerere della Gemäldegalerie di Kassel, posta a confronto con alcuni dipinti di soggetto mitologico di Luca Cambiaso e di Giovanni Battista Paggi, in ragione del fatto che i nudi di Cambiaso ispirarono Rubens malgrado il forte scarto generazionale (cinquant’anni esatti d’età: il genovese morì quando Rubens aveva otto anni), e che Paggi viene “considerato un caposcuola quando Rubens è a Genova”. Il paragone tra Cambiaso e Rubens costituisce forse il momento più riuscito della mostra e rievoca un saggio di settant’anni fa esatti di Bertina Suida Manning, che nel 1952, sulla Gazette des Beaux-Arts, metteva a confronto i due artisti. Nella fattispecie, il raffronto più pregnante era quello tra il Ratto delle Sabine affrescato da Luca Cambiaso nella Villa Imperiale di Terralba, e il Ratto delle Leucippidi di Rubens (oggi alla Alte Pinakothek di Monaco di Baviera), per riconoscere che il dipinto del fiammingo richiama in maniera del tutto evidente il gruppo centrale dell’affresco di Cambiaso (la donna rapita e il rapitore figurano in una posa pressoché identica) ed evidenziare dunque i debiti che Rubens ebbe nei riguardi di Cambiaso, altro artista ch’è possibile inserire tra quelli che offrirono spunti al grande fiammingo (“in diverse composizioni di Madonne”, avrebbe poi scritto Suida Manning tornando sull’argomento nella sua monografia su Cambiaso, “ricordò l’idillio religioso” espresso dal genovese nella Madonna col Bambino e San Giovannino della chiesa di Santa Maria della Cella di Sampierdarena).
Dopo la sala sulle donne, che giunge a questo punto della mostra, si entra nella Cappella del Doge (che si vorrebbe sempre libera da allestimenti, come ribadiamo in ogni occasione in questa sede, ma evidentemente sembra sia impossibile evitare di toccare questo ambiente così importante) dov’è stato allestito un piccolo focus sul Rubens sacro: vi trovano spazio una piccola tela conservata al Salzburg Museum di Salisburgo, raffigurante San Gregorio tra i santi Mauro e Papia, e santa Domitilla tra i santi Nereo e Achilleo, prima versione della pala di Santa Maria in Vallicella a Roma, e un bozzetto per la Circoncisione della chiesa del Gesù (che, a intuito, dovrebbe costituire la quindicesima sezione della mostra, dal momento che la numerazione passa dal 14 della sezione in Cappella del Doge al 16 dell’ultima sala, saltando un numero in corrispondenza della teletta). L’ultima sala presenta quella ch’è forse la principale novità della mostra, la scoperta d’un Cristo risorto che si pensa possa essere quello citato come opera di Rubens in un inventario genovese dell’Ottocento, e ritenuto perduto, ma sinora comunque noto attraverso incisioni secentesche. Il Cristo in mostra fu dipinto su una tela già utilizzata, com’è stato possibile scoprire attraverso le radiografie (l’artista ridipinse la figura della Madonna): il dipinto è stato esposto, per volere dei curatori, a restauro in corso, così che sia possibile vedere due donne di fronte al Cristo. Si tratta, in realtà, della stessa figura (la Vergine), raffigurata in due pose diverse: quella più recente è la Madonna in azzurro, più lontana, mentre l’altra risale a un “primo stato” del dipinto, quello riprodotto nell’incisione secentesca di Egbert van Panderen. Questo “primo stato”, scrive Fiona Healy che s’è occupata di redigerne la scheda, “dal punto di vista stilistico [...] rientra perfettamente nella produzione di Rubens degli anni 1612-1616, come rivela in modo particolare il modellato del corpo muscoloso di Cristo, che per posa e aspetto ricorda il Cristo della Minerva di Michelangelo a Roma. Inoltre, anche il soggetto della Vergine che intercede davanti a Cristo è tipico della produzione rubensiana negli anni Dieci del Seicento”. Non sappiamo perché Rubens abbia poi deciso di modificare la composizione, né sappiamo fino a che punto gl’interventi sull’opera siano riconducibili alla sua mano. “Le condizioni conservative della parte visibile del primo stato sosno compromesse e rendono difficile l’attribuzione”, spiega Healy, “anche se l’esecuzione apparentemente meccanica della Madonna fa pensare alla mano di un assistente”. Quanto al “secondo stato”, la studiosa associa al pennello di Rubens soltanto la testa della Vergine e l’angelo più a destra. E in mostra figura pertanto come opera di Rubens e bottega, anche se si tratta di un dipinto che andrà ulteriormente studiato: da non escludere l’idea che il primo stato sia una replica di bottega di un originale perduto su cui in seguito può essere intervenuto il maestro (di conseguenza, il volto della Vergine del “primo stato” con tutta probabilità verrà di nuovo coperto).
Peccato che un dipinto tanto interessante, e legato a vicende genovesi, giunga solo all’ultima tappa d’un percorso che pure non manca di spunti nuovi (va citato anche un secondo inedito oltre al finora sconosciuto bozzetto per i Miracoli di sant’Ignazio: è un arazzo che fa parte della continuazione delle storie di Decio Mure, eseguito su un cartone forse della bottega di Rubens, mentre il rinvenimento del Cristo risorto è stato reso noto nel 2020), ma che appare troppo diluito e poco bilanciato: comprensibile il desiderio di presentare una mostra con nuove proposte, anche laddove appaiono poco chiare, e con opere mai esposte prima, ma la propensione all’inedito e la possibilità di vedere opere mai viste o mai mostrate in Italia non dovrebbero prescindere dall’allestimento di un percorso completo e definito. A fronte di alcuni acuti (il confronto tra Rubens e Cambiaso, l’ultima sala con il Cristo risorto che condensa l’inizio d’un’indagine scientifica in una sezione decisamente interessante anche per i non addetti ai lavori), sono infatti molti i passaggi faticosi: il poco spazio riservato ai Palazzi di Genova che pure hanno fornito il pretesto per la mostra (è vero che si può ovviare col saggio di Sara Rulli in catalogo, ma nel percorso la presenza quasi non si nota), una sezione sulle famiglie genovesi scarna, così come poco nutrita pare la sezione sulla ritrattistica, la mancanza d’un affondo denso sulla cultura figurativa di Rubens e, viceversa, la presenza di alcuni passaggi non così fondamentali (quello sugli animali, per esempio, o quello sulle scene di genere). S’aggiunga poi una grossa mancanza nei riguardi del visitatore che non necessariamente conosce i trascorsi genovesi di Rubens: l’assenza d’un qualche invito chiaro ad andare a vedere le opere di Rubens sparse per la città, due delle quali appena al di là della piazza, e se è vero che una mostra deve portare a una maggior consapevolezza del territorio cui si riferisce, forse questo elemento andava meglio gestito, com’era stato fatto per esempio per l’ottima mostra La forma della meraviglia che ha preceduto quella su Rubens e che, in uscita da Palazzo Ducale, proiettava il pubblico verso la città. L’uscita da Rubens a Genova non è invece altrettanto chiara e, soprattutto, lascia la sensazione d’aver visitato una mostra non del tutto risolta.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).