Nel 2015 fa la chiesa di San Francesco a Pisa, la seconda per dimensioni nella città toscana dopo il monumentale duomo, veniva chiusa per un parziale crollo del tetto che ha compromesso la sicurezza del luogo sacro. In seguito, negli ultimi mesi del 2023, la Soprintendenza di Pisa ha pubblicato il bando di gara per l’affidamento dei lavori di restauro, per una cifra che si aggira intorno ai 5 milioni di euro, interventi che si dovranno concludere in 750 giorni. La speranza di tutti gli amanti della cultura, non certo solo quelli pisani, è di poter nuovamente rientrare in un luogo così importante per le vicende artistiche nazionali: non a caso il tempio è stato dichiarato Monumento Nazionale. Nella sua plurisecolare storia, la chiesa pisana ha accolto diversi capolavori dei più roboanti nomi della storia dell’arte italiana, tesori che in parte ancora vi si conservano, anche se alcuni dei più importanti oggi si trovano in altri musei.
Le origini di questo tempio affondano nell’antichità, si perdono nella leggenda e si legano alla figura di san Francesco d’Assisi che, secondo tradizione popolare, si sarebbe trovato a Pisa nel 1211, appena due anni dopo l’approvazione dell’Ordine da parte di papa Innocenzo III. Le prime testimonianze certe di una chiesa dedicata a san Francesco risalgono al 1233 quando un funzionario del Comune acquistò per conto dei frati alcuni terreni ad uso orto. In meno di trent’anni l’importanza dell’Ordine che seguiva la regola del Serafico aveva acquistato tale importanza che nel 1261 venne presa la decisione di ricostruire la chiesa con dimensioni decisamente più vaste. Si lega a questo cantiere, dirigendone i lavori, la straordinaria e misteriosa figura di Giovanni di Simone, uno dei più importanti architetti del suo tempo, noto per i suoi interventi nella Piazza dei Miracoli, che lo avrebbero visto coinvolto nella costruzione del Camposanto e anche nella parte sommitale della celebre Torre pendente. Secondo i dettami fissati dal Capitolo Generale dell’Ordine, la chiesa si presenta con linee semplici e severe, con un impianto ad aula unica, ciononostante di dimensioni molto vaste, misurando 70 per 18 metri. I lavori per l’edificio si protrassero per molto tempo: sessant’anni dopo la volta a capanna non era ancora stata terminata e la facciata in marmo fu ultimata solamente nel 1603.
Nel corso del tempo la chiesa, tanto importante da dare il nome all’intero quartiere in cui si erge, ha ospitato le tombe di alcuni dei personaggi più illustri di Pisa, tra cui capitani del popolo, podestà, magistrati, professori come Francesco Buti, uno dei primi commentatori della Divina Commedia, ed esponenti della nobiltà, come i Visconti e i Della Gherardesca.
Qui, anche i resti del celebre Ugolino trovarono riposo, anche se parziale, visto che furono più volte spostati e ricollocati. Dei Della Gherardesca si trovava in chiesa anche un sontuoso monumento funebre, ispirato dal modello del sepolcro di Arrigo VII che Tino da Camaino realizzò per il Duomo di Pisa. Il glorioso complesso, scolpito da Lupo di Francesco, composto da archi e pinnacoli, dal sarcofago e statue, è stato nei secoli smembrato e oggi si conserva in parte nel Camposanto monumentale e in parte nel Museo nazionale di San Matteo.
Non stupisce che, vista l’importanza della chiesa e del suo convento, grandi sforzi vennero fatti durante i secoli per il suo apparato decorativo, che ha coinvolto alcuni nomi di grandissimo rilievo. Tra questi, ricordiamo Spinello Aretino e Taddeo Gaddi, che realizzarono dei cicli di affreschi, oggi quasi completamente perduti, il dossale in marmo di Tommaso Pisano, Niccolò di Pietro Gerini, Giunta Pisano con la tavola istoriata con San Francesco, e Barnaba da Modena con opere che oggi si conservano al Museo di San Matteo, ma più avanti nel tempo anche Lodovico Cigoli, Ventura Salimbeni, Jacopo Chimenti detto l’Empoli e Santi di Tito. Questa lista lunghissima di capolavori, di cui per fortuna una buona parte ancora si conserva in chiesa o nei musei pisani, sembra solo una parziale consolazione se si pensa che da qui provengono due delle opere tra le più celebrate oggi al Museo del Louvre, una delle ferite ancora aperte di quelle spoliazioni perpetrate da Napoleone e da Vivant Denon, l’uomo incaricato di realizzare per l’imperatore il museo più straordinario che l’umanità avesse visto fino ad allora. Si tratta della Maestà di Cimabue e della tavola con le Stigmate di san Francesco di Giotto, opere e personalità cardine dell’evoluzione stilistica dell’arte italiana che segnano il passaggio da quel modo di dipingere “alla greca”, cioè imperniato su modelli bizantini, verso una nuova riscoperta del naturalismo e delle leggi prospettiche.
Fu Giorgio Vasari a ritagliare per Cimabue il ruolo di primo artista a staccarsi dalla “maniera greca”, e proprio con il pittore fiorentino inizia infatti le sue Vite. L’inventore della storia dell’arte non dimenticò di menzionare l’opera pisana, ricordando come dopo essersi distinto per il grande Crocifisso di Santa Croce, Cimabue fosse chiamato ad operare a Pisa per realizzare una tavola con san Francesco; tale annotazione per lungo tempo ha fatto attribuire a Cimabue il dossale oggi ritenuto di Giunta Pisano. Continuando nella sua biografia Vasari scrive: “Per la medesima chiesa fatto in una tavola grande, l’immagine di nostra Donna col figliuolo in collo, e con molti angeli intorno, pur in campo d’oro, ella fu dopo non molto tempo levata di dove ell’era stata collocata la prima volta, per farvi l’altare di marmo, che vi è al presente; e posta dentro alla chiesa allato alla porta, a man manca. Per la quale l’opera fu molto lodato, et premiato da’ Pisani”. Sulla scorta dell’indicazione vasariana l’opera è stata fin dall’Ottocento ricondotta alla mano del Cimabue dalla grande maggioranza della critica, che si è soffermata invece a lungo a dibattere la datazione. Oggi si è generalmente concordi per farla risalire all’ultimo quarto del XIII secolo, e in particolare attorno al 1280. Questo di fatto non solo indicherebbe Cimabue come il grande rinnovatore dell’iconografia mariana della Maestà, cioè della Madonna in trono, ma ulteriormente l’opera pisana sarebbe il grande prototipo di tante delle Maestà successive.
Nella tavola oggi del Louvre, Maria siede infatti sul trono con in braccio il bambino, attorniata da una schiera di angeli, ma Cimabue rende la scena ben più reale rispetto a ciò che si era fino a quel momento realizzato: la seduta su cui poggia la donna è posta di tre quarti nella ricerca di un effetto di profondità basandosi su una prospettiva ancora intuitiva, ma capace di rendere lo spazio del quadro abitabile. La resa della Madonna e del Bambino che sembrano vivere su un piano sovrapposto rispetto a quello del trono si allontana sempre di più dalla posa ieratica bizantina e medievale e sotto le vesti si iniziano a percepire le volumetrie del corpo, senza però abbandonarla del tutto. Gli angeli, con acconciature orientaleggianti, sono disposti ancora in una prospettiva gerarchica, e si collocano intorno al trono nella ricerca di ritmo e simmetria piuttosto che nella volontà illusionistica di rendere lo spazio. I lineamenti dei volti vanno verso una prima ricerca di naturalismo e del chiaroscuro, iniziando a mettere da parte il gusto per un tratto calligrafico. Cimabue realizza così un’opera dove la teofania è credibile e vera, e non un’icona, di fatto ponendo un fondamentale rinnovamento della cultura figurativa tradizionale della Madonna col Bambino. Appena cinque anni dopo Duccio di Buoninsegna avrebbe seguito l’esempio di Cimabue nella Madonna Rucellai aggiungendovi una certa ricerca degli affetti, mentre Cimabue nella Maestà di Santa Trinità avrebbe portato avanti i suoi esiti di plasticità.
Questa ambizione di spazialità venne perseguita alcuni decenni dopo, intorno al 1310-1315 da Giotto, che dalla lezione del maestro Cimabue, si mosse verso un anelito sempre più profondo di dimensione spaziale nella Maestà dipinta per la chiesa di Ognissanti a Firenze. Di Giotto è l’altra opera, che, partita sui convogli organizzati dai francesi, non sarebbe mai più tornata in Italia. Vasari ci racconta la tavola come “tenuta in molta venerazione per memoria di tanto uomo”. L’opera è una tavola cuspidata a tempera su fondo oro con soggetto le Stigmate di san Francesco, e istoriata in basso con scene della vita del santo.
Nel dipinto è mostrato il santo di Assisi mentre riceve “ne l’orribile sasso della Vernia” le stimmate indotte attraverso dei raggi di luce emesse dalle ferite di Cristo in veste di serafino. In basso, la predella a corredo mostra Il sogno di Innocenzo III, Il papa che conferma la regola dell’Ordine e San Francesco che predica agli uccelli. La paternità giottesca è stata a lungo messa in dubbio, benché corredata della firma Opus Iocti florentini che si legge in basso sulla cornice. Lo storico dell’arte Luciano Bellosi, che aveva lungamente caldeggiato l’autografia dell’opera, si lamentava come essa fosse presa in scarsa considerazione, poiché “uno degli aspetti più sconcertanti degli studi su Giotto è il fatto che si è venuto affermando un singolare luogo comune: che i dipinti firmati da Giotto non sono opera di Giotto”.
La tavola del Louvre, infatti, replica una scena che si trova anche in un affresco nella Basilica di Assisi, benché come noto anche l’attribuzione di questo ciclo a Giotto sia stata più volte messa in crisi. Le due opere, nonostante abbiano notevoli tangenze, mostrano alcune differenze nello stile e nell’impaginazione secondo gli studiosi da rintracciare nella diversa data d’esecuzione e nell’intervento più o meno attivo di aiuti. Quella pisana è esposta al Louvre come più tarda, proponendo come datazione il primo quarto del XIV secolo.
Se dubbi persistono sull’autografia e sulla datazione, non meno sono quelli sulla genesi di quest’opera. Sui lati della cornice furono identificati da Julian Garnerd degli stemmi, come appartenenti a quelli di una famiglia fiorentina esiliata a Pisa, forse gli Ughi, mentre per Strehlke si tratta invece degli emblemi della ricca famiglia di mercanti pisani, i Cinquini.
In particolare, questa interpretazione è stata la più accreditata in passato, facendo propendere la realizzazione dell’ancona per collocarla in una delle due cappelle del transetto sinistro, dove ancora si trovano le insegne della famiglia pisana. In tempi più recenti è stato invece proposto che l’opera fosse stata ideata per essere posta appesa a una delle travi del soffitto insieme ad altri dipinti. Vasari vide l’opera disposta in un pilastro accanto all’altare maggiore nella chiesa di San Francesco, dove rimase fino alla soppressione del convento nel 1786. Successivamente fu spostata nella chiesa di San Nicola a Pisa, per poi trascorrere un paio di anni in deposito al Camposanto Monumentale. Nel 1813 fu invece scelta da Denon e trasportata a Parigi.
Le opere di Giotto e di Cimabue a Pisa sono la testimonianza più viva dell’importanza che dovette avere nel passato la chiesa di San Francesco e del prestigio dei suoi committenti, capaci di assicurarsi i servigi di due, ma anche di numerosi altri, protagonisti tra i più importanti del loro tempo.
Per saperne di più su Pisa: https://www.turismo.pisa.it/
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Jacopo Suggi
Nato a Livorno nel 1989, dopo gli studi in storia dell'arte prima a Pisa e poi a Bologna ho avuto svariate esperienze in musei e mostre, dall'arte contemporanea, alle grandi tele di Fattori, passando per le stampe giapponesi e toccando fossili e minerali, cercando sempre la maniera migliore di comunicare il nostro straordinario patrimonio.