È la più grande tavola dipinta del XIII secolo che ci sia nota: un’imponente opera di quattro metri e mezzo d’altezza per quasi tre di larghezza. Si tratta della Madonna Rucellai, straordinario capolavoro di Duccio di Buoninsegna (Siena, 1255 circa - 1319), che oggi accoglie i visitatori della Galleria degli Uffizi di Firenze all’inizio del percorso del museo. È un’opera di cui conosciamo molto bene la storia: l’opera fu commissionata il 15 aprile del 1285 al grande pittore senese dalla Compagnia dei Laudesi, confraternita che si era formata verso la metà del Duecento a Firenze, e che richiese la tavola per destinarla alla chiesa di Santa Maria Novella, dove i Laudesi abitualmente si riunivano. Nelle sue Vite, Giorgio Vasari, che attribuiva la tavola a Cimabue (Firenze, 1240 circa - Pisa, 1302), la descriveva come “posta in alto fra la capella de’ Rucellai e quella de’ Bardi da Vernia”.
In origine la Madonna Rucellai si trovava probabilmente nel luogo in cui l’aveva vista Vasari. Solo nel 1990 la studiosa Irene Hueck ha chiarito quale poteva essere l’originale destinazione del dipinto, all’interno della chiesa di Santa Maria Novella: non la cappella di San Gregorio, passata alla famiglia Bardi nel 1336 (è la cappella Bardi poi decorata forse dallo Pseudo Dalmasio, un pittore attivo attorno alla metà del Trecento che dipinse nello stile di Dalmasio di Jacopo Scannabecchi), dato che i rapporti che i Laudesi avevano con questa cappella erano pittusto labili, e neppure l’altare maggiore, bensì una zona della chiesa posta proprio tra la cappella Bardi e la cappella Rucellai. L’opera di Duccio deve oggi il suo nome al fatto che, nel 1591, fu spostata proprio nella cappella Rucellai: è lì che la vide il letterato Francesco Bocchi descrivendola nella sua opera Le bellezze della città di Fiorenza, pubblicata quell’anno. Ed era ancora lì alla metà del Settecento, quando lo storico Giuseppe Richa pubblicava le sue Notizie istoriche delle chiese fiorentine, tra il 1754 e il 1762. E vi rimase fino al 1937, quando fu spostata per un’importante mostra su Giotto agli Uffizi.
Fu proprio in quella data che la Madonna Rucellai tornò al centro dell’attenzione degli studiosi. “Mai la Madonna Rucellai si è vista così bene”, scriveva Pietro Toesca a Bernard Berenson dopo aver visitato l’esposizione, “e si sono affacciate così vicine quelle delle altre Madonne che hanno tanta affinità e tanta diversità con quella (Gualino, Mosciano ecc.)”. L’opera pervenne definitivamente agli Uffizi nel 1948, in deposito dalla chiesa di Santa Maria Novella: e la Madonna Rucellai, da quella data, pur non essendo formalmente di proprietà degli Uffizi, non si è più mossa dal museo fiorentino. Per dare un’adeguata sistemazione al capolavoro di Duccio, furono chiamati tre grandi personalità dell’architettura del Novecento, ovvero Carlo Scarpa (Venezia, 1906 - Sendai, 1978), Giovanni Michelucci (Pistoia, 1891 - Firenze, 1990) e Ignazio Gardella (Milano, 1905 - Oleggio, 1999), che idearono un’apposita “Sala delle Maestà” dove far dialogare proficuamente la Madonna Rucellai di Duccio con la Maestà di Santa Trinita di Cimabue e con la Madonna di Ognissanti di Giotto (Firenze?, 1267 circa - Firenze, 1337). Ed è qui che l’opera si trova tuttora.
Duccio di Buoninsegna, Madonna col Bambino in trono e angeli, detta Madonna Rucellai (1285; tempera su tavola e fondo oro, 450 x 290 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi, in deposito dalla chiesa di Santa Maria Novella a Firenze, Comune di Firenze) |
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La sala delle Maestà degli Uffizi (nella foto si vedono le opere di Giotto e Cimabue, la Madonna Rucellai è su un’altra parete) |
Nel corso della sua storia, la Madonna Rucellai non è sempre stata riferita correttamente a Duccio: come s’è anticipato, Vasari la attribuiva a Cimabue, e per lungo tempo la grande tavola fu creduta opera dell’artista fiorentino. Vasari, addirittura, nelle Vite riporta un singolare aneddoto: “la qual opera”, scriveva il grande storiografo aretino, “fu di maggior grandezza, che figura che fusse stata fatta insin a quel tempo; et alcuni Angeli che le sono intorno, mostrano, ancor che egli avesse la maniera greca, che s’andò accostando in parte al lineamento e modo della moderna, onde fu questa opera di tanta maraviglia ne’ popoli di quell’età, per non si esser veduto insino allora meglio, che da casa di Cimabue fu con molta festa e con le trombe, alla chiesa portata con solennissima processione, et egli perciò molto premiato et onorato”. Secondo Vasari l’opera fu così apprezzata che i fiorentini l’accompagnarono con una grande e festosa processione verso la chiesa di Santa Maria Novella. Il racconto evidentemente fece gran presa su uno dei maggiori pittori inglesi dell’Ottocento (all’epoca, infatti, nessuno aveva ancora messo in dubbio la presunta paternità cimabuesca della Madonna Rucellai), Frederic Leighton (Scarborough, 1830 - Londra, 1896), che raffigurò nel 1855 l’immaginaria processione in un suo dipinto oggi conservato alla National Gallery di Londra, inserendo nel corteo anche Dante Alighieri, Arnolfo di Cambio, Gaddo Gaddi e, anacronisticamente, pure Simone Martini e Buonamico Buffalmacco.
Ancora alla fine del XIX secolo, diversi storici dell’arte ascrivevano largamente la Madonna Rucellai a Cimabue: tra i pochi che l’avevano riferita correttamente a Duccio figurava Gaetano Milanesi, che nel 1854, scorrendo un’opera del 1790 di un frate fiorentino, Vincenzio Fineschi (le Memorie istoriche che possono servire alle vite degli uomini illustri del convento di S. Maria Novella di Firenze), aveva notato che un documento pubblicato dallo stesso Fineschi (datato 14 aprile 1285 e oggi conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze) altro non era che il documento di allogagione del dipinto. Neppure la scoperta di Milanesi tuttavia bastò a smuovere molti dalla convinzione che si trattasse di un dipinto di Duccio, e il dibattito proseguì a lungo, fino alla succitata mostra del 1937 che chiuse definitivamente il dibattito, e questo nonostante il grande studioso Franz Wickhoff avesse di nuovo pubblicato nel 1889 il documento che attestava la commissione a Duccio della tavola da parte della compagnia dei Laudesi, ribandendone in modo più fermo e convinto il collegamento con la Madonna Rucellai.
Nel documento di allogagione, i Laudesi incaricavano il pittore senese di “dictam tabulam depingere et ornare de figura beat[a]e Mariae Virginis et eius omnipotentis Filii et aliarum figurarum”. Malgrado ciò, c’era ancora chi non riteneva che la “tabulam” di cui parlava il documento potesse essere identificata con il dipinto di Duccio, e di conseguenza ci fu anche chi, come Wilhelm Suida, provò a ipotizzare un “Maestro della Madonna Rucellai”, una personalità intermedia tra Cimabue e Duccio a cui potesse essere assegnata la grande tavola. Altri ancora parlarono di una collaborazione tra i due (tra questi il finlandese Osvald Sirén, secondo il quale l’opera sarebbe stata cominciata da Duccio e terminata da Cimabue).
Perché, nonostante la prova evidente che la Madonna Rucellai fosse opera di Duccio, c’era comunque una resistenza a riconoscergli la paternità dell’opera? Lo ha ben spiegato lo studioso Luciano Bellosi nella sua scheda sull’artista senese (del 1994) nell’Enciclopedia dell’Arte Medievale: “Un troppo rigido concetto di ‘scuola’ rendeva difficile ammettere che un’opera conservata in un’importante chiesa fiorentina, considerata a lungo il capolavoro di un grande pittore fiorentino come Cimabue, e che con Cimabue denunciava tanti rapporti, potesse essere opera di un senese come Duccio”. C’era tuttavia anche chi, senza dar peso alle resistenze “pro Cimabue”, accoglieva di buon grado la paternità duccesca. Tra coloro che recepirono le scoperte di Wickhoff e Milanesi è possibile annoverare Robert Langton Douglas, che ebbe anche il merito di far notare come la leggenda della processione era esemplata su una storia simile che riguardava proprio Duccio, e Adolfo Venturi, autore di un puntuale confronto tra la Madonna Rucellai e le Madonne di Cimabue.
Frederic Leighton, Cimabue’s Celebrated Madonna is carried in Procession through the Streets of Florence (1853-1855; olio su tela, 222 x 521 cm; Londra, National Gallery) |
Il dipinto infatti si pone in diretto dialogo con le opere di Cimabue: uno dei problemi principali della critica è stato infatti quello di cercare di comprendere quali fossero i rapporti tra Duccio e Cimabue, tanto che Roberto Longhi, nel 1948, avrebbe definito il senese “non allievo soltanto, ma quasi creato di Cimabue”. La Madonna Rucellai effettivamente è una delle opere più antiche di Duccio: risale al 1285, a un periodo in cui l’artista, con tutta probabilità, lavorava al fianco di Cimabue, pur essendo stato in grado di sviluppare già un linguaggio pienamente autonomo. La Madonna siede su un trono posto di tre quarti, tenendo tra le sue mani il Bambino: con la destra gli accarezza la gamba, con la sinistra invece lo sorregge per il torace. Come soleva accadere nell’arte bizantina e nell’arte paleocristiana, il Bambino indossa una leggerissima dalmatica velata, con sopra un altrettanto leggero manto rosso intessuto di crisografie, ed è colto nell’atto di benerie. Ai lati del trono finemente intagliato, che si staglia sul fondo oro e il cui schienale è coperto con un raffinato drappo di seta dalle bordature dorate, si dispongono sei angeli, tutti colti di profilo, abbigliati con vesti dai colori tenui e delicati (prevalgono gli azzurri, i verdolini, i rosa pallidi). La sontuosa cornice cuspidata reca tondi entro i quali si dispongono teste di santi: tra gli altri, si notano Domenico e Pietro martire, entrambi legati alla compagnia dei Laudesi.
La Madonna Rucellai è un capolavoro di raffinatezza tipicamente senese: nel mettere a punto la propria tavola, Duccio raggiunge già esiti di preziosismo cui Cimabue ancora non s’era spinto. Si noti, ad esempio, la linea della bordatura dorata del manto della Vergine, che segue un andamento sinuoso, sconosciuto a Cimabue, e che delinea ghiribizzose volute soprattutto nella parte bassa: è una novità sia nei riguardi della ieratica pittura bizantina cui i senesi ancora si rifacevano, sia nei confronti della solida pittura fiorentina di Cimabue. Da quest’ultimo, Duccio si differenzia anche per la varietà e la delicatezza della gamma cromatica, per l’aspetto più aristocratico della Vergine, per quel senso d’astrazione comunicato dagli angeli che stanno in volo (peraltro in ginocchio!) ai lati del trono, al contrario di ciò che Cimabue aveva fatto nella sua Maestà un tempo in San Francesco a Pisa e oggi al Louvre di Parigi, dove al contrario gli angeli che affiancano Maria e il Bambino sono più realisticamente disposti su diversi piani a scalare, come se stessero su una struttura a gradoni che il pittore ha posto dietro il trono (e hanno un profilo più terreno rispetto a quelli di Duccio, che al contrario paiono davvero esseri di puro spirito). E nuova è anche l’idea di coprire la spalliera del trono con un drappo. C’è poi in Duccio, nel modo in cui la madre tiene il figlio, meno dolcezza rispetto a Cimabue: nella Maestà di Santa Trinita il Bambino coi piedi sembra quasi arpionare la madre, che non gli riserva lo stesso gesto affettuoso della Madonna Rucellai.
Duccio di Buoninsegna, Madonna Rucellai, dettaglio |
Duccio di Buoninsegna, Madonna Rucellai, dettaglio |
Duccio di Buoninsegna, Madonna Rucellai, dettaglio |
Duccio di Buoninsegna, Madonna Rucellai, dettaglio |
Duccio di Buoninsegna, Madonna Rucellai, dettaglio |
“L’amore degli ornamenti, anzi della loro profusione”, riassumeva Adolfo Venturi nella sua Storia dell’arte italiana mettendo a confronto Duccio e Cimabue, “notasi in Duccio nelle orlature del manto della Vergine gemmate e ricamate, e del pari nella Madonna Rucellai, non in quelle di Cimabue più grande e austero. Attenendosi a un tipo bizantino, Duccio mette nel drappo, al sommo del capo e anche sulla spalla destra della Vergine, una stella, secondo l’antico modo classico di distinguere gli eroi preferiti dal destino. Cimabue non ricorre al simbolo. Il manto della Vergine di questo maestro è a linee spezzate; quello di Duccio si chiude a mezzo il petto, scendendo in linee sinuose, calligrafiche dai lati delle guance, e cadendo dalle ginocchia in giù con le moltiplicate curve dell’orlatura: tal forma si riscontra nella Madonna Rucellai. Il Bambino nei dipinti di Cimabue veste da romano: è avvolto dal pallio che, copertagli la spalla sinistra, s’aggira intorno al dorso, esce ampio disotta al braccio destro, e lo fascia a mezzo il corpo. Duccio si serve invece di veli per la tunica del Bambino, e il manto, che lo copre da mezza la persona in giù, è un drappo qualsiasi, uno scialletto. Cimabue dà al Bambino il rotule della legge; Duccio, tanto nella Madonna Rucellai, come nella celebre sua pala di Siena, lo fa attenersi con la sinistra ai propri panni. E mentre il tipo di Gesù, nell’opera del primo, è forte, romano, imperioso ; in quella del secondo è grassoccio e infantile. Nella tavola Rucellai il divin Pargolo benedice lentamente guardando da un lato, quasi distratto; nell’altra del Louvre ha il gesto largo, lo sguardo innanzi a sè”.
Ancora, Venturi si concentrava sui lineamenti della Vergine, che riteneva molto simili, entrambi di derivazione bizantina: “ma nella Madonna Rucellai”, notava il grande storico dell’arte, “è minore la compressione alla radice del naso, che Cimabue segna con un’unghiata, così come suole segnar tutto, rude e forte. La bocca, larga in Cimabue, in Duccio è breve, con le estremità men cadenti e accentuate di scuro“. Si osservino poi gli angeli, ”mistici“ quelli di Duccio, ”campagnoli“ quelli di Cimabue, privi di quella ”grazia devota“ del senese: ”il collo degli angioli di Cimabue è forte, cilindrico, non a tronco di cono, esile come in Duccio; le mani di quello sono a dita più aperte e ossute e strette in punta, con la indicazione dei segni delle giunture; la chioma ha il ciuflfetto a ciocche trasversali sulla fronte, mentre Duccio taglia i capelli e più ordinatamente li acconcia. Di frequente nel maestro fiorentino si riscontrano linee trasversali, per esempio, nel fascione formato dal manto avvoltolato sul petto degli angioli e ne’ contorni delle vesti ; nel maestro senese le linee corrono a curve e a spire". Luciano Bellosi notava tuttavia diverse affinità, per esempio “una notevole consonanza nella preferenza per un tipo di panneggio che fascia i corpi con stoffe leggere che si piegano fittamente; il fremito stupendo di pieghe lunghe e fitte del manto che fascia la Madonna del Louvre non ha riscontro nella Madonna Rucellai, in cui è scomparso il modellato del manto, ma ha delle straordinarie controparti nei panneggi degli angeli, trasparenti e impalpabili”, oppure l’“l’idea della cornice ornata di liste decorative che si alternano a dei tondini con mezze figure sacre” (e che Cimabue abbandonerà però nella Maestà di Sanata Trinita).
Tuttavia, nonostante la sua raffinatezza e i suoi preziosismi, nonostante l’abbondanza d’oro e di cromie diafane, Duccio si dimostra anche artista in certa misura attento al naturale. E non solo per la scelta di sistemare il trono in tralice, onde comunicare al riguardante, in maniera empirica, il senso della terza dimensione. Allo stesso effetto concorrono le sapienti ombreggiature (soprattutto quelle del drappo che ricopre il trono) e la capacità di saper distribuire le luci. Certo: l’interesse che Duccio dimostra per lo spazio non ha niente a che vedere con quello che si palesa nella Madonna di Ognissanti di Giotto, che negli Uffizi si ammira nella stessa sala. Nella Maestà giottesca (forse la prima Madonna “di carne” della storia dell’arte), la composizione è già orientata verso una prospettiva intuitiva di grande efficacia che denota un’impostazione spaziale radicalmente differente rispetto a quella di Duccio, e che dimostra come Giotto abbia inteso rinnovare con vigore la pittura del suo tempo. La Madonna di Ognissanti, ha scritto lo storico dell’arte Angelo Tartuferi, è un’opera particolarmente rivelatrice delle “novità nel campo della definizione spaziale introdotte da Giotto nella pittura del tempo, in particolare nell’impostazione del trono, la cui tridimensionalità conferisce profondità allo spazio in cui è ambientata la scena. Ma anche nei volti delicatamente ombreggiati, nei panneggip esanti, nelle stesse figure dipinte è marcata una nuova corporeità, fatta di volumi solidi, e altrettanto veri appaiono i materiali rappresentati: si veda per esempio il piano di legno su cui poggiano i piedi della Vergine”.
Cimabue, Maestà (1280 circa; tempera su tavola e fondo oro, 424 x 276 cm; Parigi, Louvre) |
Cimabue, Madonna col Bambino in trono e profeti detta Maestà di Santa Trinita (1290-1300 circa; tempera su tavola e fondo oro, 384 x 223 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 n. 8343) |
Giotto, Madonna col Bambino in trono, angeli e santi detta Maestà di Ognissanti (1300-1305 circa; tempera su tavola e fondo oro, 325 x 204 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 n. 8344) |
Anche dal confronto con le opere che affiancano la Madonna Rucellai nella Sala delle Maestà degli Uffizi appare evidente a tutti che l’opera di Duccio è di dimensioni davvero eccezionali: e non a caso è la più grande tavola del Duecento che ci sia nota. Può dunque sorgere una domanda: perché i Laudesi avevano la necessità di commissionare al pittore senese un’opera così grande? In uno dei suoi ultimi contributi, pubblicato nel 2006 sulla rivista Prospettiva, Bellosi lanciò una nuova, interessante proposta circa l’originaria funzione della Madonna Rucellai, partendo da questo presupposto. Tali dimensioni, ipotizza Bellosi, fanno venire in mente una circostanza precisa, ovvero il fatto che, all’epoca della realizzazione della Madonna Rucellai, Santa Maria Novella stava diventando la più grande chiesa fiorentina (nel 1285, la parte absidale e i transetti erano giunti al termine). A quel tempo, la Cattedrale era ancora la piccola chiesa di Santa Reparata (per vedere la posa della prima pietra di Santa Maria del Fiore sarebbe stato necessario attendere sino al 1296), e l’altra grande chiesa fiorentina, Santa Croce, non era ancora stata costruita. Secondo Bellosi, dunque la tavola non fu pensata per la cappella di San Gregorio, né per la Società dei Laudesi, “bensì per la chiesa di Santa Maria Novella”: la Società, in altri termini, “offriva alla chiesa di Santa Maria Novella, che stava diventando immensa, un’immagine della Madonna di dimensioni adeguate all’immensità dello spazio che la nuova chiesa stava occupando”.
In effetti ci sarebbero i presupposti per avvalorare l’ipotesi, secondo Bellosi. C’è il fatto che le confraternite domenicane intitolate alla Madonna contribuissero alle spese per la costruzione delle chiese legate all’ordine (e una tavola enorme come la Madonna Rucellai poteva ben rappresentare un contributo alla crescita dell’edificio di culto). Ci sono i documenti che testimoniano i copiosi lasciti dei membri della Società alla chiesa e al convento di Santa Maria Novella. Ci sono anche alcune note che omettono i legami tra la Madonna Rucellai e la Compagnia dei Laudesi, ma si premurano bene di sottolineare l’eccezionalità della pala. Il fatto che il Crocifisso di Giotto sia anch’esso di dimensioni monumentali, e pertanto doveva concorrere agli stessi obiettivi. Anzi, spesso tavole con Maestà e crocifissi erano... abbinate: anche la Madonna di Ognissanti, ricorda Bellosi, si accompagnava a un crocifisso prodotto dalla bottega di Giotto, oggi rimasto nella chiesa di Ognissanti a Firenze. E del perché l’opera sia stata commissionata a Duccio, Bellosi aveva una sua opinione: si potrebbe assegnare a lui la decorazione dei due lunettoni della cappella di San Gregorio (come avevano fatto prima di lui Boskovits e Wilkins), dato che i restauri del 1905-1906 hanno fatto riemergere tracce della decorazione duecentesca poi ridipinta quando la cappella passò ai Bardi. Duccio sarebbe stato ingaggiato per la cappella di San Gregorio dopo esser stato notato come collaboratore di Cimabue, e si potrebbe pensare, immaginava lo studioso, che i Laudesi fossero stati così convinti del risultato da affidargli la Madonna Rucellai. È comunque difficile stabilire con certezza la paternità dei dipinti murali, dacché sono rovinatissimi. Ma si tratta di un’ipotesi di sicuro fascino.
La basilica di Santa Maria Novella. Ph. Credit Georges Jansoon |
Santa Maria Novella, la Cappella Bardi. Ph. Credit Francesco Bini |
Santa Maria Novella, Cappella Bardi, gli affreschi trecenteschi attribuiti allo Pseudo Dalmasio. Ph. Credit Francesco Bini |
Santa Maria Novella, Cappella Bardi, uno dei due lunettoni con la decorazione attribuita a Duccio di Buoninsegna. Ph. Credit Francesco Bini |
Di recente la Madonna Rucellai è tornata di... attualità, dato che nel maggio del 2020 il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, aveva provocatoriamente lanciato l’idea di restituirla alla chiesa di Santa Maria Novella. “Certamente agli Uffizi questo monumentale dipinto offre la possibilità di un paragone stilistico con le due pale di Cimabue e Giotto”, affermava Schmidt, “ma la sua assenza da Santa Maria Novella sottrae una parte essenziale alla sua storia e al suo senso complessivo. Mi auguro un dibattito ampio, aperto, pubblico e privo di pregiudizi sull’opportunità di restituire l’opera alla basilica di Santa Maria Novella per la quale essa fu ideata e dipinta (e non di collocarla un fantomatico e costoso nuovo museo, come è stato proposto: allora tanto vale lasciarla agli Uffizi)”.
Il dibattito, in effetti, c’è stato, anche se, occorre ribadirlo, si ripresenta ciclicamente: se n’era parlato negli anni Novanta con la stessa proposta lanciata da Giovanni Bonsanti, e poi di nuovo nel 2004, quando l’allora assessore alla cultura del Comune di Firenze, Simone Siliani, coglieva l’occasione del restauro della cappella Bardi per reclamare il ritorno della Madonna Rucellai nella chiesa: “Non esiste motivo al mondo”, aveva detto, “per il quale la Madonna Rucellai non debba tornare al suo luogo d’origine”. Siliani sottolineava che Santa Maria Novella poteva offrire tutte le condizioni necessarie per consentire il rientro della tavola in chiesa. Ma contro l’ipotesi si era schierato l’allora soprintendente del Polo Museale Fiorentino, Antonio Paolucci: “La Madonna Rucellai”, rispondeva tagliando corto, “sta bene nella sua collocazione attuale, perché fa parte di un insieme ormai storicizzato. La sala dove è esposta ospita anche le Maestà di Cimabue e Giotto. Fu progettata da Giovanni Michelucci nei primi anni Cinquanta ed ha un grande valore storico e culturale perché spiega lo svolgimento storico della rappresentazione della Maestà”. E a distanza di sedici anni, Paolucci ha ribadito la propria contrarietà all’eventuale operazione, pur dichiarandosi, in linea di principio, favorevole alle restituzioni ai luoghi d’origine: qui però la questione è diversa, perché anche la Sala delle Maestà è un capolavoro di museografia, ed è una sala che ormai rappresenta anch’essa, a suo modo, un contesto storico (questa l’argomentazione che viene opposta da chi è contraria al ritorno della Madonna Rucellai in Santa Maria Novella).
In che modo hanno reagito altri esponenti del settore? Lo storico dell’arte Timothy Verdon, direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, ha dichiarato al quotidiano Avvenire che la restituzione sarebbe “una proposta rivoluzionaria che inverte il percorso museale dell’arte sacra degli ultimi secoli. Già nel Seicento si era cominciato a musealizzare le grandi pale d’altare facendole entrare nelle collezioni principesche. Riportare una pala in una chiesa e in particolar modo sopra l’altare, anche se non più utilizzato, significa evidenziare la funzione liturgica dell’immagine: ad esempio nella Pala Rucellai ritornerebbe leggibile il legame tra il corpo eucaristico e il corpo del Bambino Gesù”. Una “provocazione salutare, l’occasione per riflettere su un modo diverso di presentare l’arte, introdurre le persone al senso più profondo. Se anche alla fine una sola opera venisse ricollocata sarebbe comunque un successo”. La direttrice del Museo Diocesano Tridentino, Domenica Primerano, ha invece valutato il problema secondo un’ottica più allargata: “il tema si inserisce in un percorso che coinvolge da tempo l’ambito museale italiano, dove si sta ragionando su un approccio alle opere in museo fatto di narrazioni oltre che di elementi storico–artistici. C’è uno spostamento di approccio all’arte sacra, con un racconto che restituisca all’opera tutte le sue dimensioni. Oggi quindi siamo più pronti a muoverci in altro modo. La proposta entra in questa nuova logica, magari forzando la mano ci vuole dire esattamente questo: regalare a queste opere, ovunque siano, uno sguardo diverso e più completo”. Chi si è dimostrato molto favorevole, è stato il critico Vittorio Sgarbi: “Ha mille volte ragione”, ha detto di Schmidt.
Il ritorno della Madonna Rucellai sarebbe però problematico anche per il fatto che, come si è visto, non conosciamo l’esatta collocazione originaria della pala nella chiesa, e per il fatto che Santa Maria Novella ha subito grossi cambiamenti rispetto al 1285. Insomma: se n’è parlato più volte, ma la Madonna Rucellai non ha mai lasciato gli Uffizi e possiamo supporre che ci rimarrà ancora molto a lungo.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo