Non è facile fare un presepe, scriveva Dino Buzzati. È un “lavoro che può sembrare un gioco ed è invece carico di serietà e di mistero”, un lavoro non adatto “per le mamme”, perché “richiede capacità organizzativa, ingegnosità tecnica e slancio di fantasia, doti precipuamente maschili”, affermava nel suo articolo sulla “tecnica del presepio”, pubblicato nel 1934 sul Corriere della Sera. Altri tempi. E se oggi possiamo stabilire con certezza che organizzazione, ingegno e fantasia sono qualità indubbiamente unisex, è comunque possibile concordare con Buzzati sul fatto che allestire un presepe sia operazione tutt’altro che semplice: occorre dell’inventiva per fare un presepe casalingo, dunque figuriamoci quali professionalità servano per mettere in piedi, scriveva ancora Buzzati, “presepi da chiesa, o da vetrina natalizia, o da teatrino di palazzo patrizio, preziosi di statuette settecentesche”. Per avere conferma occorrerebbe chiedere ad Antonio Begarelli, scultore modenese del primo Cinquecento, tra i più grandi maestri di sempre della terracotta, e autore d’uno dei più bei presepi che si possano ammirare in una chiesa italiana: è suo il Presepe del Duomo di Modena, opera realizzata nel 1527, quando la carriera di Begarelli era ancora agli albori.
Il primo a dar menzione del presepe di Begarelli è Tomasino Lancilotto, nella sua Cronaca di Modena che riporta giorno per giorno i fatti della città dal 1503 fino al 1554. Un lavoro costante, lungo e minuzioso, quello di Lancilotto: non si parla infatti d’un compendio, ma di una cronaca sistematica, di un resoconto quotidiano di cinquant’anni di storia della città, al quale Lancilotto attese per cinque decennî della sua vita, terminando il lavoro un mese prima di morire. Ecco: alla data del 20 aprile 1527, si legge nella Cronaca di Lancilotto: “M. Antonio de Zulian Bregarelo ha fato el presepio che è soto la ancona di San Sebastian in Domo, et posto in dito loco”. Oggi non vediamo più il presepe di Begarelli nella sua sede originaria (possiamo infatti ammirarlo nella navata destra del Duomo di Modena, ma comunque sempre vicino alla Pala di San Sebastiano, capolavoro di Dosso Dossi, per il quale in antico l’opera di Begarelli fungeva da singolare e insolita predella), ma è significativo il fatto che le statuine di terracotta, in cinque secoli di storia, non abbiano mai lasciato la loro sede, il più importante edificio di culto della città. Certo, alcuni dettagli non sono più quelli originali: l’intervento più corposo, quello dello scultore carrarese Giovanni Lazzoni, chiamato a restaurare l’insieme nel 1669, ha portato alla sostituzione di brani piuttosto ampî. Come ha ricostruito lo storico dell’arte Giorgio Bonsanti, sono riconducibili al restauro di Lazzoni le mani della Madonna e di san Giuseppe, le braccia e la gamba sinistra del terzo pastore da destra, le braccia di quello inginocchiato in primo piano sulla sinistra, e poi ancora, sul primo pastore a sinistra, la testa, le braccia e la gamba destra. La pecora invece è opera dello scultore modenese Luigi Righi che restaurò il gruppo begarelliano nel 1844.
Oggi vediamo le statuine nel colore naturale della terracotta, cui sono state riportate di recente, a seguito del restauro del 1976 che ha eliminato le ridipinture bianche delle figure, ma sappiamo che in origine le figure dovevano presentarsi proprio nel colore del marmo, con finiture dorate, per farle sembrare più lussuose: è ormai da tempo acclarato che, nel marzo del 1527, un mese dopo la cottura, Begarelli avesse ricevuto un pagamento “per bianchire le figure del presepio”. Il bianco delle statuine però non era più quello originario: restauri e ridipinture avevano alterato la facies del presepe, finendo per offuscare il fine modellato dei personaggi. Si parla, del resto, d’un’opera di somma finezza e di delicata eleganza. E di certo, ripensando a Buzzati, non dev’essere stato facile, per Begarelli, organizzare un insieme di ben tredici statuine di mezzo metro l’una (gli otto pastori, il Bambino, la Madonna, san Giuseppe, il bue e l’asinello) che non solo rispettasse una posizione ben bilanciata, ma dialogasse bene con la Pala di San Sebastiano, svolgendo dunque con diligenza il suo compito d’inusuale predella, e col contesto del Duomo di Modena. Non siamo certi della disposizione che le statuine dovevano seguire in origine, ma possiamo ragionevolmente credere che la configurazione attuale non sia molto distante rispetto a quella che Begarelli aveva immaginato: ne risulta un insieme equilibrato, aggraziato e al contempo movimentato, come suggeriscono il gruppo dei pastori inginocchiato dalla sinistra, sui cui volti si leggono con chiarezza la sorpresa, lo stupore dinnanzi al lieto evento, e il pastore che sopraggiunge da destra di passo svelto, quasi che si sia accorto d’essere in ritardo e abbia dunque affrettato il suo cammino. Questi inserti, che accendono di vita il presepe di Begarelli, non minano comunque la sua eleganza: se occorre pensare a un corrispettivo in pittura, si potrebbe pensare alle Natività del Correggio, alla loro gioiosa delicatezza, alla libertà con cui l’Allegri rileggeva e interpretava la lezione di Raffaello. La componente correggesca, del resto, era già stata ben notata da Adolfo Venturi: “par che d’un tratto irrompa, nell’arte lenta del Begarelli, un soffio vivido, lieto, la vena di grazia capricciosa che Antonio Allegri aveva fatta scaturire dal suolo emiliano”. Una grazia capricciosa che consentì a Begarelli di trasformare, era convinto Venturi, “i pastori in azzimati gentiluomini, il presepe in un’adunata di Arcadi”.
Per comporre un presepe come quello del Duomo di Modena si rese dunque necessaria tutta la raffinatezza d’uno scultore classicheggiante, che guardava a Raffaello, negli anni in cui la cultura dell’Urbinate s’affermava nelle città della Val Padana, per attenuare la lezione naturalista appresa osservando le opere d’un altro straordinario interprete della terracotta, il suo concittadino Guido Mazzoni. Il Presepe del Duomo di Modena è poi l’unica opera con figure piccole di Antonio Begarelli, ma il fatto che l’artista lavori qui su sculture di dimensioni ridotte, e su un soggetto iconografico più congeniale a una composizione domestica che a una predella, seppur inconsueta, non deve indurci a immaginare un Begarelli naïf: tutt’altro. “Nel Presepio”, ha scritto Giorgio Bonsanti, “sono presenti numerose componenti, se bene leggiamo, che informano sugli interessi e l’aggiornamento dell’artista a quest’epoca. Alcuni di questi interessi vengono da lontano, dal mondo classico, e richiamano l’esperienza romana che è stata ragionevolmente postulata. L’indirizzo è qui, e in altre occasioni, piuttosto verso il mondo ellenistico che non classico: il pastore che irrompe da destra, ad esempio, fa pensare alla libertà nuova con cui in quel contesto veniva scoperta ed esplorata una naturalezza inedita”.
Un presepe libero, leggiadro ed ellenistico, opera di uno dei più fini scultori del suo tempo, che in origine doveva apparire simile a quello di Federico Brandani nell’Oratorio di San Giuseppe a Urbino, anch’egli attento osservatore della pittura di Correggio: non capita di vederne spesso, dentro una chiesa. Tant’è che tutte le guide di Modena non possono fare a meno di menzionarlo come uno dei “presepi permanenti” più belli della zona. Un presepe che sorprende, infine, per la sua semplicità. Buzzati aveva rispolverato un vecchio manualetto sui presepi che raccomandava di lasciar perdere le stravaganze. Per contestarlo, però: sul “rito gentile” del presepe non dovrebbero pesare norme e regole, diceva lo scrittore. È vero: ognuno farà il proprio presepe come riterrà, anche mettendoci leoni e giraffe se vuole, e non è detto che il risultato esca pessimo. Spesso però le soluzioni più interessanti e sorprendenti sono proprio quelle più misurate. Nei presepi, come in tutto. E il capolavoro di Begarelli è lì per dimostrarlo.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).