Tra i borghi più belli d’Italia, Deruta, a una quindicina di chilometri da Perugia, è nota per la sua produzione di ceramiche artistiche, ma non è solo l’arte della ceramica ad affascinare chiunque venga da queste parti, perché nel trecentesco Palazzo dei Consoli, dove ha sede la Pinacoteca Comunale, è custodito un affresco di Pietro Vannucci detto il Perugino (Città della Pieve, 1450 circa – Fontignano, 1523) che ritrae il profilo del piccolo borgo umbro come appariva a quel tempo, nella seconda metà degli anni Settanta del Quattrocento. Nella parte inferiore dell’affresco staccato con il Padre Eterno tra i santi Rocco e Romano si riescono infatti a distinguere in maniera molto nitida i principali monumenti del luogo, in particolare la chiesa di San Francesco, con il campanile gotico terminante a guglia invece del suo attuale aspetto rettilineo che risale al 1704. Rendendo ben riconoscibile nell’opera la veduta di Deruta s’intendeva chiedere con chiarezza la protezione dei santi sul borgo. E cos’era accaduto di tanto grave da invocare la protezione divina? Intorno al 1475 si era scatenata nel territorio di Perugia un’epidemia di peste; per questa ragione il comune di Deruta decise di far realizzare un’opera d’arte per invocare la protezione dei santi Romano e Rocco sul borgo e sui suoi abitanti, santi qui raffigurati mentre intercedono con il Padre Eterno.
In origine l’affresco si trovava all’interno della chiesa di San Francesco a Deruta e ora è invece visibile nella sala propriamente detta “del Perugino” al primo piano della Pinacoteca Comunale, dove sono esposte opere provenienti dalle chiese locali del borgo: quella di San Francesco e quella di Sant’Antonio Abate.
L’opera, di notevoli dimensioni, è suddivisa in una parte superiore e una parte inferiore. In quest’ultima è raffigurata, come detto, una veduta dal basso di Deruta, in cui oltre alla chiesa di San Francesco sono riconoscibili la chiesa di Santa Maria dei Consoli e le torri civiche nelle aree corrispondenti di Sant’Angelo, del Borgo e Perugina. Sopra alla veduta corre poi lungo l’intera lunghezza dell’opera un’iscrizione con la data in parte danneggiata “DECRETO PUBBLICO DPECTA / ANNO D[OMI]NI MCCCCLXXV”. L’opera si ricollega infatti alla pestilenza del 1476, come farebbe percepire lo spazio per una cifra mancante: una sorta di richiesta di protezione da parte sia dei frati francescani sia della comunità tutta verso i santi rappresentati nella parte superiore dell’affresco. Qui sono raffigurati, come indicano le iscrizioni sotto ai due personaggi, a sinistra san Romano e a destra san Rocco, in pose plastiche. Tra i due vi è la mandorla con il Padre Eterno che, con il capo rivolto in basso verso la veduta della cittadina, compie il segno benedicente con la mano destra, mentre con l’altra regge il globo. San Romano, biondo e ricciuto, alza lo sguardo verso di lui e allo stesso tempo compie un gesto quasi teatrale, di stupore per l’apparizione divina, gesto che peraltro si ritrova anche in altre opere dell’artista (per esempio nel Cristo dell’Imago Pietatis conservata al Louvre). Si appoggia inoltre a un bastone che gli arriva all’orlo del gonnellino della veste; questa è stretta alla vita da una corda. Sotto porta una calzamaglia rossa, e sopra alla veste un mantello blu. San Rocco, senza il suo cane al seguito, guarda invece verso l’osservatore, per fargli notare, sollevando un lembo della veste, la piaga sanguinante che ha sulla gamba provocata dalla peste. Abbigliato in vesti da pellegrino qual era, con il cappello, il lungo bastone e il mantello, san Rocco è considerato il protettore degli appestati.
Nato a Montpellier, in Francia, si narra infatti che in giovane età perse entrambi i genitori e che da quel momento decise di vendere tutti i suoi beni, di affiliarsi al Terz’ordine francescano e di recarsi da pellegrino a Roma per pregare sulla tomba degli apostoli Pietro e Paolo. Giunto ad Acquapendente, in provincia di Viterbo, prestò servizio nell’ospedale locale ignorando il pericolo della peste: invocando Dio e facendo il segno della croce sui malati, fece miracolose guarigioni e continuò anche dopo a prestare soccorso agli appestati. Fu a Roma tuttavia che avvenne il suo più famoso miracolo: guarì un cardinale tracciando sulla sua fronte il segno della croce. Quando anni più tardi scoprì a Piacenza di essere stato contagiato anche lui dalla peste, andò a rifugiarsi in una capanna, in un bosco vicino Sarmato nei pressi del fiume Trebbia: qui lo trovò un cane che lo salvò dalla morte portandogli ogni giorno un pezzo di pane. Dio non permise che il giovane pellegrino morisse di peste perché proseguisse la sua opera di cura verso i malati. Sulla via del ritorno a casa fu arrestato come persona sospetta e condotto a Voghera davanti al governatore. Venne incarcerato per cinque anni: prima di morire in cella però il santo ottenne da Dio il dono di diventare l’intercessore di tutti i malati di peste che lo avessero invocato. Ecco perché il san Rocco è diventato protettore degli appestati e in generale delle malattie contagiose, e dunque in perfetta sintonia con la ragione della realizzazione dell’opera di Deruta.
Nel saggio Forme e colori del paesaggio umbro, scritto da studiosi dell’Università degli Studi di Perugia (Fabio Fatichenti, Laura Melelli, Mirko Santanicchia, Biancamaria Torquatie Sonia Venanzi), si fa inoltre notare come di Deruta si sia voluto sottolineare anche “l’essenza di città dell’argilla: si veda in questo senso tanto l’accensione cromatica degli edifici in laterizio, quanto il mattone posto sotto il piede del san Rocco, funzionale sì a rendere credibile la postura del santo, ma secondo una scelta che in questo contesto è tutt’altro che incidentale e allude all’anima ‘produttiva’ della città”.
I santi e la mandorla con il Padre Eterno si stagliano su una sorta di drappo rosso, e i primi poggiano i loro piedi su un pavimento dalle forme geometriche, con riquadri e losanghe.
Iconograficamente ispirato ai gonfaloni umbri “contra pestem”, l’affresco di Deruta riprende anche elementi di altre opere del Perugino realizzate più o meno nello stesso periodo, come la testa di san Rocco che appare molto simile a quella di Baldassarre nell’Adorazione dei Magi della Galleria Nazionale dell’Umbria, o il pavimento geometrico nel Miracolo del bambino nato morto, tavoletta della serie dei Miracoli di san Bernardino attribuita a Perugino e bottega anch’essa custodita nella Galleria.
Nel Padre Eterno tra i santi Rocco e Romano si è vista inoltre un’influenza di Piero della Francesca, in particolare nella veduta del borgo di Deruta che ricorda quelle di Arezzo e nel cerchio perfetto delle falde del cappello di san Rocco che ricorda le aureole a specchio del pittore.
L’opera venne scoperta in maniera del tutto casuale nel 1846, quando venne rimossa la tela posta sul primo altare a sinistra nella chiesa di San Francesco, e fu subito giudicata dagli studiosi molto interessante per la sua alta qualità pittorica. Nel 1855 venne attribuita da Luigi Carattoli all’artista perugino Fiorenzo di Lorenzo. Questa attribuzione venne in gran parte accettata fino a quando nel 1984 Pietro Scarpellini fece il nome del Perugino in seguito a nuovi studi sulla fase giovanile del pittore e la proposta attributiva venne accolta pienamente dalla critica successiva. Scrisse Scarpellini: “Siamo dinanzi alla cellula primaria del linguaggio peruginesco che verrà poi a imporsi dappertutto”. E poi prosegue: “I due giovani santi, con quel loro modo di muoversi sul piano a un ritmo quasi danzante, alludono a un particolarissimo modo di interpretare Pollaiolo e Verrocchio che è appunto quello di Pietro. Anzi è proprio qui che comincia a meglio precisarsi l’andamento molleggiato, la cadenza ritmica interna ai corpi, per cui le gambe si dispongono sui fondi in una sorta di elegante silhouette [...] una maniera di addolcire le scattanti, tornite invenzioni muscolari dei modelli per piegarle a un senso ritmico che finisce anche col diventare una sorta di nuova grammatica compositiva”.
In occasione dell’intervento di restauro compiuto nel 1997 sotto la direzione di Giovanni Manuali grazie all’Archeo Club di Perugia, durante il quale si è provveduto al trasferimento della pittura su un supporto più idoneo (un pannello in vetroresina con strato di intervento in sughero), alla rimozione delle precedenti integrazioni pittoriche e al ritocco ad acquerello delle parti lacunose, si è scoperto dall’analisi della superficie pittorica che il Perugino realizzò l’affresco in oltre dieci giornate: un tempo piuttosto esteso per le dimensioni dell’opera, ma giustificabile dalla particolare attenzione con la quale venne compiuta l’opera. Impiegò ben tre giornate per realizzare la veduta di Deruta, di grande finezza tecnica e lucidità topografica.
L’affresco venne restaurato per la prima volta dalla sua scoperta nel 1908 in seguito alla denuncia del suo cattivo stato di conservazione da parte di Carattoli che già suggeriva il distacco per “toglierlo dall’umidità cui si trova al presente”. Ma già tre anni dopo l’ispettore Luigi Fiocca denunciava ancora il cattivo stato di conservazione. Per il distacco si dovette aspettare ancora molti anni, poiché venne effettuato nel 1953 successivamente a un’ulteriore relazione che ne denunciava il degrado. Lo stacco venne compiuto ad opera di Luigi Fumi e in questa occasione furono reintegrate anche lacune presenti sulla superficie pittorica.
L’opera rimase nella chiesa di San Francesco fino al 1975, quando in concomitanza con la riapertura della Pinacoteca Comunale venne trasferita nel Palazzo dei Consoli, dove tutt’oggi si trova, potendo così ammirare in ottime condizioni l’affresco capolavoro del Perugino.
L’articolo è redatto nell’ambito di “Pillole di Perugino”, un progetto che fa parte delle iniziative per la divulgazione e diffusione della conoscenza della figura e dell’opera di Perugino selezionate dal Comitato Promotore delle celebrazioni per il quinto centenario della morte del pittore Pietro Vannucci detto “il Perugino”, costituito nel 2022 dal Ministero della Cultura. Il progetto, a cura della redazione di Finestre sull’Arte, è cofinanziato con i fondi messi a disposizione del Comitato dal Ministero.
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