Nascosto tra i vicoli medievali di Perugia, dopo una ripida salita, si trova un luogo silenzioso e poco noto, lontano dai percorsi del turismo di massa, dov’è possibile vedere due grandi maestri della storia dell’arte affiancati, a confronto, ovvero il Perugino (Pietro Vannucci; Città della Pieve, 1450 circa – Fontignano, 1523) e Raffaello (Raffaello Sanzio; Urbino, 1483 – Roma, 1520): è la Cappella di San Severo. Il nome richiamerà a molti quello di una cappella quasi omonima che si trova a Napoli, la cappella Sansevero: nel capoluogo campano, l’edificio di culto prende nome dalla famiglia che la fece realizzare. A Perugia è chiamata così poiché si trova nelle vicinanze della chiesa dedicata a san Severo, che sorge nella parte più alta della città, non lontano da Porta Sole. La cappella è un vano attiguo alla chiesa: faceva parte, in antico, della quattrocentesca chiesa di San Severo. Poi, quando la chiesa venne rifatta nel Settecento, la cappella rimase isolata, trasformandosi in un vano vicino alla chiesa che oggi si può visitare, e oggi è stata musealizzata. Dall’esterno, la cappella apparirà anonima: un edificio in laterizio, dalla facciata sobria, come ce ne sono tanti a Perugia, risultato dei rimaneggiamenti di secoli di storia, perché la cappella esiste fin dal Duecento. Il complesso di San Severo si trova in una piccola piazzetta, che si apre proprio sul punto più elevato di Perugia.
La cappella custodisce, come anticipato, un affresco in cui è possibile vedere, a diretto confronto, due delle maggiori personalità del Rinascimento, quelle di Raffaello e del Perugino. L’allievo e il suo maestro. E del maestro, l’affresco della cappella di San Severo rappresenta, peraltro, l’ultima opera realizzata a Perugia. E per quanto riguarda l’allievo, l’affresco è invece l’unica opera, delle tante che Raffaello realizzò a Perugia, che sia ancora possibile ammirare nel capoluogo umbro: le altre, oggi, sono tutte conservate altrove. L’importanza dell’affresco è tale che quando nel Settecento la chiesa quattrocentesca fu demolita, fu deciso di preservare il dipinto, che fu inglobato in un vano realizzato appositamente, e dotato di un ingresso separato rispetto a quello della chiesa.
È necessario tornare indietro fino al 1505: all’epoca, Raffaello era un giovane che si era già fatto notare per le sue eccezionali capacità, e dalla città natale, Urbino, si era da un anno spostato a Firenze, una città che offriva maggiori opportunità di lavoro. Neppure a Perugia, città all’epoca governata dai Baglioni, una famiglia tanto autoritaria e pragmatica in politica quanto raffinata nei gusti artistici e nella promozione dei talenti dell’arte, mancava il lavoro, e Raffaello otteneva commissioni sia in Toscana che in Umbria. E proprio nel 1505 riuscì a procurarsi un incarico grazie a uno degli esponenti della famiglia che reggeva le sorti di Perugia. Si trattava del vescovo Troilo Baglioni: fu il vescovo in persona, in quanto commendatario del monastero di San Severo (carica che ricopriva all’epoca assieme al cardinale Gabriele de’ Gabrielli, vescovo di Urbino), a commissionare al pittore, allora ventiduenne, la decorazione ad affresco della piccola cappella.
Raffaello ricevette quindi l’incarico e si recò a Perugia dove iniziò a dipingere la sua opera: una Trinità con santi. L’artista all’epoca era però oberato d’impegni: tra il 1505 e il 1506 tornò brevemente a Urbino, ospite di Guidobaldo da Montefeltro, che gli commissionò alcune tavole, dopodiché tornò a Firenze per eseguire alcuni dei suoi lavori più noti, come i ritratti dei coniugi Doni o la Sacra Famiglia Canigiani, dipinta per il fiorentino Domenico Canigiani, per non parlare poi della Pala Baglioni, commissionata da Atalanta Baglioni, oggi alla Galleria Borghese. E quando, nel 1508, a Raffaello si presentò l’occasione di trasferirsi a Roma, dove avrebbe lavorato per il papa Giulio II, il giovane artista lasciò la Toscana (e l’Umbria) per trasferirsi nello Stato Pontificio. Tuttavia rimase incompiuto il suo affresco nella cappella di San Severo: Raffaello fece in tempo a dipingere soltanto le figure della Trinità e quelle dei santi Mauro, Placido, Benedetto da Norcia, Romualdo, Benedetto da Benevento e Giovanni monaco, tutti legati all’ordine dei monaci camaldolesi a cui era affidata la chiesa di San Severo (Romualdo era il fondatore dell’ordine, Benedetto da Norcia il santo la cui regola era praticata dai camaldolesi, Mauro e Placido i suoi principali discepoli, Benedetto da Benevento, noto anche come Benedetto martire, e Giovanni monaco furono invece due camaldolesi che fecero opera missionaria in Polonia e furono uccisi da alcuni malfattori che invasero il loro romitorio).
Anche Giorgio Vasari, nel capitolo delle Vite dedicato a Raffaello, descrive l’opera eseguita dall’Urbinate: “Et in San Severo della medesima città, piccol monasterio dell’Ordine di Camaldoli, alla cappella della Nostra Donna, fece in fresco un Cristo in gloria, un Dio Padre con alcuni Angeli a torno e sei Santi a sedere, cioè tre per banda: San Benedetto, San Romualdo, San Lorenzo, San Girolamo, San Mauro e San Placido; et in questa opera, la quale per cosa in fresco fu allora tenuta molto bella, scrisse il nome suo in lettere grandi e molto bene apparenti”. È l’opera di un Raffaello giovane, che guarda ai punti di riferimento della sua formazione: in questo caso è del tutto evidente il legame con il Giudizio universale affrescato pochi anni prima, tra il 1499 e il 1501, da fra’ Bartolomeo e Mariotto Albertinelli in una cappella del cimitero dell’ospedale di Santa Maria Nuova (oggi staccato e conservato al Museo Nazionale di San Marco a Firenze): identica è l’impostazione con i santi che si dispongono a semicerchio attorno alla figura principale (il Cristo in trono nell’affresco di Perugia e il Cristo giudice in quello di fra’ Bartolomeo e Albertinelli), del tutto simili sono le pose dei personaggi, simile è anche l’impianto fortemente monumentale della composizione. È uno schema che poi Raffaello avrebbe rielaborato in termini più grandiosi e originali nella Disputa del Sacramento dipinta nel 1509 nella Stanza della Segnatura in Vaticano.
I camaldolesi, probabilmente, covavano la speranza che l’artista tornasse a Perugia per finire il suo lavoro, perché fino a che Raffaello fu in vita, nessun altro pittore mise mano all’opera. Ma l’affresco rimase per molti anni compiuto a metà. Quando Raffaello nel 1520 scomparve, divenute vane le aspettative dei monaci, si pensò di far terminare l’opera al Perugino che, dopo una vita ricca di soddisfazioni e di gratificazioni, era tornato da qualche tempo a vivere in Umbria. Il vecchio pittore, che aveva superato la soglia dei settant’anni, non si tirò indietro e portò a compimento il dipinto realizzando le figure dei santi Scolastica, Girolamo, Giovanni evangelista, Gregorio Magno, Bonifacio e Marta. Sono i santi del registro inferiore, disposti attorno alla nicchia centrale che ospita una Madonna col Bambino in terracotta, attribuita a Leonardo del Tasso.
Della parte realizzata da Raffaello, alcune figure non sono più leggibili a causa dell’umidità e di alcuni restauri condotti in modo scriteriato durante l’Ottocento, contro i quali si scagliò anche Giovan Battista Cavalcaselle. Quindi, oggi non sono più visibili la figura del Padreterno (rimane solo il suo enorme libro con l’alfa e l’omega, simboli del principio e della fine), l’angelo alla sua sinistra, e la figura di san Giovanni monaco, di cui vediamo soltanto le gambe. L’azione del tempo e degli agenti non è stata però sufficiente per offuscare la bellezza delle figure raffaellesche e per consentirci di operare un confronto, agevole, chiaro e diretto, tra il giovane Raffaello e il suo vecchio maestro.
Le figure di Raffaello appaiono mosse da una maggiore vitalità, le espressioni sono più profonde, gli atteggiamenti più studiati. Al contrario di quelle del Perugino, che pur nella loro evidente eleganza formale, segno distintivo della poetica peruginesca, appaiono invece più ripetitive e simili a figure che l’artista aveva già dipinto in passato. C’è poi da notare la differenza nel rappresentare la tridimensionalità: i più forti passaggi chiaroscurali delle figure di Raffaello ce le fanno apparire più naturali di quelle, più piatte, del Perugino. Pietro Vannucci era sempre stato un pittore delicato e raffinato, ma nel 1521, quando terminò le figure dei santi, appariva come un artista di un altro tempo, i suoi dipinti erano il prodotto d’un genio che apparteneva a un’altra epoca.
In quegli anni, le principali novità giungevano da artisti come Michelangelo, Andrea del Sarto e, per allargare lo sguardo al resto d’Italia, come Tiziano o Sebastiano del Piombo, e se n’erano andati da poco Leonardo da Vinci e Raffaello, mentre si stavano affacciando i primi esponenti di quel periodo che sarebbe stato classificato dagli storici dell’arte come “manierismo”: proprio nel 1521 infatti il Rosso Fiorentino licenziava un dipinto rivoluzionario come la Deposizione di Volterra. Il Perugino appare quindi, in questo affresco della cappella di San Severo, come una artista nostalgico, espressione di un tempo andato.
Lo storico dell’arte Umberto Gnoli, autore d’una monografia sul Perugino pubblicata nel 1923, formulò un giudizio molto duro sulle figure di Pietro Vannucci: riferendosi alle figure di Raffaello, Gnoli scriveva che “il vecchio maestro non sentì nulla, non si accorse di nulla. Non una reminiscenza, non un accenno raffaellesco anima quella meschina teoria di santi, vecchi cartoni voltati e rivoltati, la consueta posa estatica con un piede a terra e l’altro un po’ sollevato, i consueti tipi, le solite pieghe dei manti che cadono a diagonale, una povertà desolante. Il Perugino, dopo il Cambio, guardò sempre e unicamente indietro alla propria arte: mai attorno, mai innanzi a sé”. Più morbida appare invece Giovanna Sapori, che nella sua ricognizione sulle opere umbre per il volume Pittura murale in Italia. Il Quattrocento, pubblicato nel 1995, scrive che “le sei figure di santi con cui Perugino completò molti anni dopo la decorazione della cappella di San Severo (1521) sono fra le estreme prove, ma di alta qualità” della “pittura maestrevolmente ‘economica’ e veloce” di cui il Perugino aveva offerto numerosi esempi. È curioso peraltro notare come il giovane Raffaello, nel 1505, per le sue figure aveva preso a modello proprio il maestro, con una tecnica di esecuzione “accostabile a quella del Perugino”, scrive ancora Sapori, “nei modi che questi aveva già sperimentato nel ciclo del Cambio passando da una pittura compatta e preziosa (un equivalente di quella su tavola) a un ductus complesso e veloce, a una visibile materia cromatica dagli effetti ariosi e moderni”.
Il Perugino della cappella di San Severo, in sostanza, dev’esser visto come un artista raffinato e ancora capace d’esprimersi su altissimi livelli, ma non più al passo con i tempi. E il nuovo è rappresentato proprio da Raffaello, e da quel Cristo così apollineo e maestoso allo stesso tempo che, malgrado fosse stato dipinto ben sedici anni prima rispetto alle figure del Perugino, appare molto più attuale. Due epoche in un solo affresco, due protagonisti del Rinascimento a paragone diretto, in uno degli angoli più belli e calmi di Perugia, nel cuore del centro antico, nel rione Porta Sole. In una cappella dove, da cinquecento anni, ogni giorno si rinnova il confronto tra il maestro e l’allievo.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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