È un episodio della storia del Rinascimento forse non noto a molti, ma di sicuro la battaglia della Polesella può essere annoverato tra quelli più singolari, e non solo perché a seguito di questa impresa militare ferrarese scaturirono delle vicende che portarono alla nascita di un capolavoro di Benvenuto Tisi detto il Garofalo (Garofalo di Canaro, 1481 – Ferrara, 1559), ovvero la Minerva e Nettuno, straordinario dipinto del 1512, oggi alla Gemäldegalerie di Dresda (rientrato però temporaneamente in Italia nel 2024 per la mostra Il Cinquecento a Ferrara. Mazzolino, Ortolano, Garofalo, Dosso, a cura di Vittorio Sgarbi e Michele Danieli, al Palazzo dei Diamanti di Ferrara fino al 16 febbraio 2025: qui la nostra recensione): si trattò di un evento rilevante anche perché contribuì, almeno inizialmente, ad alimentare le ambizioni e il prestigio di un duca, Alfonso I d’Este (Ferrara, 1476 – 1534), desideroso di dimostrare di meritarsi il ruolo di protagonista nelle vicende politiche dell’Italia del primo Cinquecento.
La battaglia della Polesella rappresentò un grande successo per Ferrara sul piano militare, dimostrando che l’esercito del duca, nelle giuste condizioni, poteva essere in grado di sconfiggere la numerosa e attrezzata flotta veneziana, ma soprattutto fu importante perché rafforzò il ruolo del ducato estense sullo scacchiere italiano del tempo e la posizione di Ferrara all’interno della Lega di Cambrai, consentendo al ducato di guadagnare rilevanza internazionale. Si trattò però di un momento fugace: il prosieguo della guerra non fu granché fortunato per il duca. Ed è in questo contesto che occorre dunque immaginare la nascita del capolavoro del Garofalo.
Lo scontro tra le forze di terra ferraresi e l’armata marittima veneziana si consumò il 22 dicembre del 1509 nei pressi del centro abitato di Polesella, sul delta del Po, nel più ampio contesto della guerra della Lega di Cambrai cominciata l’anno prima, e che vedeva Venezia contrapposta a una vasta coalizione di cui inizialmente facevano parte Stato Pontificio, Impero, Francia, Aragona, Urbino, Mantova, Monferrato, Saluzzo e, appunto Ferrara, riuniti per contrastare l’espansionismo della Serenissima: si trattò però di un conflitto dalle fasi altalenanti, con schieramenti decisamente fluidi, nel senso che i contendenti si trovarono a passare con una certa disinvoltura (tipica del tempo, del resto) da una parte all’altra, e addirittura in un dato momento Venezia e papato si trovarono addirittura a combattere dalla stessa parte del fronte come alleati in funzione antifrancese, a seguito dei contrasti tra il re di Francia, Luigi XII, e il papa Giulio II, promotore della Lega. L’inizio della guerra non fu facile per Venezia: il 14 maggio del 1509 la Serenissima subì una pesante sconfitta ad Agnadello e fu costretta a ritirarsi dalla Lombardia, nella tarda primavera i francesi e gli imperiali occuparono quasi tutte le grandi città della terraferma a cominciare da Bergamo e Brescia, che facevano parte dei domini della Repubblica, e i primi segnali di ripresa per i veneziani arrivarono soltanto in autunno, con il vittorioso assedio di Padova che si concluse con la cacciata degli occupanti dalla città. La battaglia della Polesella, tuttavia, concluse il momento favorevole ai veneziani e produsse uno stallo che portò Venezia a negoziare un accordo con il papa già quello stesso inverno.
Nel mese di novembre la Serenissima era infatti riuscita a riconquistare quasi tutto il Veneto occupato dalla coalizione, ed era riuscita anche a cacciare i ferraresi dal Polesine, da loro occupato nelle fasi iniziali della guerra. I veneziani però non si accontentarono di riottenere quello che avevano perduto: avevano il desiderio d’infliggere al Ducato di Ferrara una sconfitta sonora e inequivocabile, e per questa ragione inviarono una flotta di 17 galee per sbaragliare definitivamente i ferraresi nelle acque del Po. Arrivati sul fiume, i veneziani costruirono due bastioni dai quali avevano intenzione di sferrare l’attacco finale via terra alla città di Ferrara una volta arrivati i rinforzi terrestri, che però tardavano a giungere, poiché parte dell’esercito era ancora impegnata in Veneto contro i francesi. I veneziani tuttavia non attesero e continuarono ad avanzare, arrivando a occupare la città di Comacchio in data 6 dicembre. I ferraresi, intanto, si preparavano per respingere i nemici, e il 21 dicembre, comandati dal fratello di Alfonso I, il cardinale Ippolito, attaccarono il bastione, dopodiché, nella notte dello stesso giorno, l’artiglieria ferrarese venne schierata lungo il Po, perché i comandanti ferraresi, con millimetrica precisione e forti della loro conoscenza del territorio, avevano previsto una piena del fiume, che avrebbe avuto l’effetto di portare le galee veneziane ad altezza di tiro rispetto alle posizioni estensi. Le forze di terra del Ducato di Ferrara fecero quindi strage dei veneziani (la Serenissima ebbe oltre duemila caduti), e gli estensi riuscirono senza problemi a catturare 15 galee delle 17 che i veneziani avevano schierato. La vittoria estense, come detto, fu importante anche per il prosieguo della guerra, dal momento che spezzò il momento favorevole alla Repubblica di Venezia, che durante l’inverno s’impegnò per trovare un accordo con lo Stato Pontificio.
Esiste un dipinto che raffigura lo scontro: è un’opera di Battista Dossi (Niccolò di Battista Luteri; San Giovanni del Dosso?, prima del 1500 – Ferrara, 1548), eseguita verso il 1530 e oggi conservata alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara. Si tratta di un ritratto del duca Alfonso I, avanti con gli anni, che si fa raffigurare con, sullo sfondo, proprio una scena della battaglia della Polesella. È evidente, insomma, che il duca estense ritenne quella vittoria la più grande impresa militare della propria vita. Al punto da volerla eternata dietro la sua effigie, cosa tutt’altro che frequente nella ritrattistica del tempo.
Non conosciamo la storia antica di Minerva e Nettuno, noto anche come l’Allegoria di Alfonso I, ma è del tutto lecito supporre che Alfonso I d’Este lo abbia commissionato al Garofalo poco dopo l’impresa della Polesella. La prima menzione nota dell’opera risale infatti al 1618, quando il dipinto è attestato nel Palazzo Ducale di Modena, ma sono molti gli studiosi che riconducono la possibile commissione alla celebrazione della vittoria militare. A rafforzare l’ipotesi è anche un dato curioso: in alcune lettere del 1512, Alfonso I è soprannominato proprio “Nettuno”: il duca veniva dunque paragonato al dio del mare proprio per aver inflitto alla Repubblica di Venezia una sconfitta sul terreno sul quale la Serenissima si sentiva più sicura, ovvero una battaglia navale (anche se non fu tale in senso stretto, dal momento che gli estensi combatterono da terra). Rimasto a Modena per quasi un secolo e mezzo, nel 1745 finì a Dresda nell’ambito dell’imponente vendita di cento dipinti della quadreria estense ad Augusto III di Sassonia, un acquisto epocale che fece confluire nella città tedesca una gran quantità di capolavori.
Anticamente l’opera era attribuita a Frnacesco Francia, ma già nel XIX secolo veniva correttamente assegnata al Garofalo, all’epoca ancora giovane (nel 1512 aveva trentun anni) e quindi legato alla formazione presso Lorenzo Costa. La scena è ambientata lungo un fiume che possiamo agevolmente identificare come il Po, malgrado il paesaggio irrealistico almeno per Ferrara, dal momento che non ci sono in territorio estense rupi o montagne a picco sul fiume come vediamo nel dipinto. Le due divinità occupano tutta la composizione: Minerva, atteggiata in posa di contrapposto, da statua antica, regge una lunga freccia e con la mano sinistra indica il dio del mare, Nettuno, nel quale è facile riconoscere le fattezze di Alfonso I. Il dio è seduto su un tronco d’albero, appoggia il piede sopra un delfino e regge il tridente, suo tipico attributo iconografico.
L’opera somma diverse suggestioni, oltre a essere un caposaldo della produzione del Garofalo, un punto fermo a partire dal quale si può ricostruire la sua intera carriera, essendo la sua prima opera datata. Lo storico dell’arte Michele Danieli ha posto l’accento sui possibili legami con le opere del pieno Rinascimento che il Garofalo poté vedere direttamente a Roma, proprio nel 1512, quando, con tutta probabilità, dovette recarsi nella capitale dello Stato Pontificio al seguito di una missione diplomatica di Alfonso I presso papa Giulio II. Non abbiamo la certezza che il Garofalo facesse parte della missione, ma dato che all’epoca non era infrequente trovare artisti nel contesto di legazioni diplomatiche, e dato che la sua arte sembra riflettere, a partire da un preciso momento della sua carriera, quello che s’andava dipingendo a Roma proprio in quel torno d’anni, la circostanza è del tutto plausibile. Pare che il duca, e con lui senza ombra di dubbio anche i pittori, fosse rimasto particolarmente impressionato dagli affreschi che Michelangelo stava finendo sulla volta della Cappella Sistina: la delegazione ferrarese, infatti, in data 11 luglio 1512 ebbe l’occasione di salire sui ponteggi della Cappella e di visitare le Stanze Vaticane. “Il Signor Ducha”, scriveva a Isabella d’Este uno dei delegati ferraresi, Giovanni Francesco Grossi, “andò in su la volta con più persone, tandem ogni uno a pocho a pocho se ne vene giù de la vollta et il Signor Ducha restò su con Michel Angello che non si poteva satiare di guardare quelle figure et assai careze gli fece di sorte che Sua Excellencia desiderava el gie facesse uno quadro et li fece parlare e proferire dinarij et li ha inpromesso de fargiello”. L’opera con Minerva e Nettuno è pienamente calzante per la data che reca (è siglata “NOV 1512” sul sasso in primo piano) proprio per via dei suoi evidenti legami con il Michelangelo e il Raffaello romani, e per questo motivo è ritenuto anche un’opera spartiacque nel contesto dell’arte ferrarese del Cinquecento, proprio perché a partire da questo dipinto i pittori di Ferrara si sarebbero aperti, senza alcun tipo di pregiudizio e con una certa precocità, alle novità romane.
Secondo Danieli, la figura di Minerva, col suo piede appoggiato sull’elmo, altro attributo iconografico, e il busto inclinato verso sinistra, “riprende la finta statua di Apollo nello sfondo della Scuola di Atene; e il gesto del braccio levato della stessa Minerva, con una anatomia muscolosa assolutamente inedita in Garofalo, sembra riproporre quello famosissimo di Michelangelo nella Creazione di Adamo nella Cappella Sistina, scoperta pubblicamente il 31 ottobre dello stesso anno, ma probabilmente visibile in luglio, al momento della sfortunata ambasceria di Alfonso presso Giulio II”. Non si tratta però solo di una questione di singole citazioni: “la svolta rispetto alla produzione precedente è innegabile, a partire soprattutto dall’impostazione: mai prima di allora Garofalo si era misurato con un ritmo così calmo, simmetrico e solenne, con un gruppo di tale monumentalità, e la sua riuscita mostra l’incertezza dell’esordiente”. Un’impostazione che tuttavia non nega il ricordo di ciò che il Garofalo guardava nella fase precedente della sua carriera, a cominciare dal paesaggio ch’è di evidente stampo giorgionesco: addirittura, Roberto Longhi riconduceva le stesse figure di Nettuno e Minerva a un ipotetico ricordo delle figure del Fondaco dei Tedeschi dipinte dallo stesso Giorgione (un parere talmente ingombrante, quello di Longhi, da aver impedito per lungo tempo, secondo Danieli, che si considerasse il dipinto del Garofalo alla luce delle novità romane).
Prima ancora che per il suo possibile significato politico, il capolavoro del Garofalo è importante soprattutto per le sorti delle arti a Ferrara, da quel momento, da quel 1512, sempre più aperte all’arte romana. L’importanza di quest’opera nel contesto dell’arte ferrarese del tempo è del resto ormai condivisa e largamente accettata. Meno chiare sono invece le sue implicazioni propagandistiche, dal momento che non si conservano documenti che possano aiutarci a far luce sul contesto in cui nacque il dipinto. Non sappiamo dunque perché fu dipinto tre anni dopo la battaglia, se davvero fu commissionato dal duca, né a quale ambiente fosse destinato.
Ci sono però alcune circostanze, rammentate in un saggio della studiosa Alessandra Pattanaro, che potrebbe chiarire le circostanze dell’eventuale commissione. Nell’agosto del 1511 infatti, sempre nel corso della guerra della Lega di Cambrai, Ferrara era faticosamente riuscita a riottenere il Polesine e la città di Rovigo, incluse le saline di Comacchio ch’erano state spesso al centro di scontri e ruggini tra il Ducato e la Repubblica. Ancora, Alfonso I era tra i comandanti delle forze franco-ferraresi che l’11 aprile del 1512 sconfissero l’alleanza tra Stato Pontificio e Impero a Ravenna, alla fine di quella ch’è ritenuta la più violenta battaglia che si sia combattuta in Italia nel Cinquecento. Non si trattò però di una vittoria decisiva, tanto che ne seguì una lunga fase diplomatica, nell’ambito della quale rientra anche la missione di Alfonso I a Roma ricordata sopra: il duca sperava infatti di ottenere dal papa la revoca della scomunica che gli era stata inflitta due anni prima e soprattutto di tornare in possesso dei territorî che aveva perso durante la guerra, anche se l’esito della missione fu politicamente fallimentare. Non è dunque da escludere che il dipinto del Garofalo sia stato realizzato alla fine di questi eventi: Minerva, in questo contesto, può essere letta come un’allegoria della religione per effetto di quella “antica equazione Minerva-Maria, attestata fin dal Medioevo”, scrive Pattanaro, che porterebbe la figura femminile a chiamare a sé “il concetto di Minerva pacifica, di Venus Victrix, di Vergine Maria e di Religio”. Tanto che nel Seicento la freccia fu trasformata in una croce, poi rimossa coi restauri (esistono però ancora incisioni tratte dal dipinto in cui è possibile vedere come venne l’opera del Garofalo venne modificata). Evidentemente, Alfonso I non voleva celebrare se stesso come padrone del Po, come vincitore dei veneziani: in questo caso l’opera sarebbe stata dipinta subito dopo la battaglia della Polesella, e poi forse c’è qualche ragione di pensare che sarebbe stata “una vera e propria smargiassata”, ha osservato lo studioso Alessandro Ballarin, anche se si è visto come, anche a distanza di anni, Alfonso I non abbia mancato di farsi rappresentare nelle vesti di vincitore della Serenissima. Inoltre, non verrebbe meno l’idea dell’alta considerazione che Alfonso I aveva di se stesso qualora non si rinunciasse a identificarlo nel dio del mare.
È probabile, quanto meno, che Alfonso I non volesse soltanto farsi raffigurare come il dominatore delle acque: forse, intendeva anche presentarsi come vincitore morale in sede diplomatica, e questo non tanto per affermare le proprie prerogative dinnanzi ai protagonisti della politica del tempo, quanto piuttosto, probabilmente, per rafforzare il consenso interno, dato che l’estate del 1512 non aveva procurato grandi successi al duca: non aveva ottenuto dal papa i territorî che Ferrara aveva perso in precedenza (dopo la vittoria della Polesella erano stati infatti molti i rovesci ferraresi: il Ducato aveva perso diverse città come Carpi, Finale Emilia, Bondeno e soprattutto Modena, occupata dall’esercito pontificio nell’agosto del 1510), aveva dovuto subire l’occupazione di Reggio Emilia da parte dell’esercito urbinate che in quella fase della guerra si alleato del papa, e pure la Garfagnana era stata invasa. Insomma, il territorio del ducato si era ormai ridotto alla sola Ferrara e a poche zone circostanti, che includevano il Polesine e le città di Argenta e Comacchio. Probabile, allora, che ad Alfonso I servisse una qualche forma di propaganda interna.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERGli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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