La tragedia dell'Olocausto in tre opere di Voltolino Fontani


Nel 1920 nasceva Voltolino Fontani, uno dei principali artisti del Gruppo Labronico. Nel centenario della nascita, la figlia Maria Grazia Fontani lo ricorda con tre opere, tra le più toccanti della sua produzione, dedicate alla tragedia dell'Olocausto.

Voltolino Fontani è stato un eclettico pittore espressionista che ha operato a Livorno nel Novecento. Nato nel 1920, dal 1936 al 1976, anno della sua prematura scomparsa, ha prodotto un’ingente quantità di opere con tecniche, tematiche e stili molto diversificati fra loro, ma che possiedono, pur nella varietà, una grande coerenza e potenza espressiva. Fu una persona non schierata politicamente, non incline a seguire correnti di nessuna natura né politica né artistica (come i veri artisti spesso fanno), restando sempre per così dire al di sopra delle parti; un uomo non militante fra le fila di nessun partito, pacifista e non violento in tutte le sue manifestazioni, sempre attento alle condizioni degli umili e delle vittime di soprusi.

Ebbe contatti con i grandi artisti del suo tempo e interagì con istituzioni e manifestazioni a carattere nazionale (come per esempio le edizioni del 1955 e 1959 della Quadriennale di Roma), ma restò sempre intimamente legato alla sua città natale, Livorno, fonte per lui di infinite ispirazioni. Fu membro per molti anni del Gruppo Labronico, dove portò una ventata di novità. Molte sue opere sono sognanti e rassicuranti, ma ce ne sono di drammatiche, opere che lasciano il segno perché hanno il coraggio di trattare temi toccanti e scabrosi. Il suo carattere solare, ironico e gioviale faceva da contraltare alla gravità delle tematiche ricorrenti delle sue opere, specialmente quelle del periodo giovanile e post bellico. Ed è proprio su alcune opere dipinte pochi anni dopo la Seconda Guerra Mondiale da Fontani che voglio porre l’attenzione.

Tutti conoscono il nome “Mauthausen”: uno dei più famigerati lager nazisti, un campo dove lo sterminio avveniva attraverso il lavoro forzato e la consunzione per denutrizione e stenti, ma anche con la camera a gas. Il primo quadro di cui proverò a dare una interpretazione (ovviamente personale) ha per titolo Mathausen (con l’ortografia errata) ed è stato dipinto nel 1950. Appena due anni prima, nel 1948, Fontani era stato il fondatore dell’avanguardia artistica dell’Eaismo, il cui manifesto, fra i suoi principi fondanti, recitava: “L’EAISMO vuole riportare l’arte a riattingere i suoi supremi valori, cioè ad esprimere con essenzialità ed intimità la nostra presenza nel mondo. Esso si propone perciò di liberare l’espressione artistica dai cerebralismi in cui s’è invischiata nell’ultimo cinquantennio e di ricondurla alla necessaria naturalezza intesa ad esprimere con la maggiore umanità d’impegno e coerenza espressiva i problemi che ci urgono dentro come uomini prima che come stilisti”.

I problemi che urgevano dentro, in quegli anni, erano ovviamente, per le persone sensibili, gli orrori della guerra, l’olocausto, le sofferenze inflitte a milioni di persone nei campi di sterminio e la conclusione drammatica della guerra con le esplosioni nucleari in Giappone, ma anche la difficoltà di dover convivere con i ricordi dell’incubo vissuto.

E Voltolino Fontani sensibile lo era, un artista partecipe delle disgrazie umane, pacifista e contrario ad ogni forma di sopraffazione e di violenza. Aveva ben chiaro Fontani quello che Pietro Gori chiamava “il ruolo sociale dell’arte” e come lui era una persona vicina agli umili, ai diseredati, un uomo pronto a farsi carico delle sofferenze dell’umanità e consapevole dei rischi contingenti.

Mathausen è il titolo di un quadro molto rappresentativo, un’opera espressionista che emoziona per la sua forza e per l’immediatezza del messaggio che veicola. Un’importante particolarità di quest’opera è che sul retro della tavola è dipinta quella che potrebbe essere la sua prima stesura, ma anche una versione scartata perché forse fu giudicata troppo forte dall’artista stesso, oppure che può avere una sua ragione d’essere più complessa ma della quale parlerò in seguito.

Voltolino Fontani, Mathausen (1950; olio su tavola, 150 x 100 cm)
Voltolino Fontani, Mathausen (1950; olio su tavola, 150 x 100 cm)

Prima di passare all’analisi di questi due dipinti faccio una piccola digressione. Mi sono sempre chiesta perché mio padre intitolasse proprio Mathausen questo quadro così iconico, questa aperta denuncia agli orrori dei campi di sterminio nazisti. Alcuni nomi sarebbero stati più evocativi nell’immaginario collettivo, ma lui scelse Mathausen, storpiando il vero nome del luogo, Mauthausen, e questo mi ha sempre fatto pensare ad una pronuncia approssimata, ad un nome sentito nei discorsi della gente più che letto su giornali o libri.

Ho avuto la conferma di questa mia supposizione leggendo un articolo del 1973, Voci «Gergali» In Un Glossario Militare Del 1918, una raccolta di locuzioni militaresche raccolte dal professor Michele A. Cortelazzo, docente di linguistica e studi letterari all’Università di Padova.

In questo articolo si legge testualmente: “AVANZARE VERSO MATHAUSEN (soldat.), ’esser fatto prigioniero”. La locuzione, con la grafia identica al titolo del quadro di Fontani, si riferisce al fatto che il campo di Mauthausen, chiamato “il cimitero dei vivi”, era già tristemente noto per essere stato un campo di prigionia nella Grande Guerra nel quale le condizioni di vita dei soldati semplici italiani furono disumane. Molte notizie su questo campo di prigionia si trovano nell’articolo “Mauthausen 1918 una tragedia dimenticata” di Gian Paolo Bertelli, nel quale si vedono anche le foto scattate dall’ufficiale medico F.M. Daniele (che testimoniano indicibili sofferenze e torture) che egli riuscì fortunosamente a portare con sé dopo la liberazione dal campo e a pubblicare nel 1932 in un diario intitolato “Calvario di guerra”.

Ovviamente il campo fu “riadattato” dai nazisti per essere più funzionale, fu dotato di camere a gas e forni crematori, ma anche nella sua prima versione costituì un vero e proprio inferno dove trovarono la morte per torture, stenti, lavori forzati e malattia centinaia di prigionieri italiani, abbandonati completamente dallo Stato perché ritenuti traditori, rei di essersi arresi al nemico. Sia Cadorna che Diaz pensavano che il prigioniero si fosse arreso per scelta, per “imboscarsi” e sottrarsi così dalla guerra combattuta. Per questo non vennero mai inviati cibo e generi di conforto da parte dello Stato italiano (come facevano per esempio Francia, Belgio, Inghilterra) ma fu lasciato questo compito alle famiglie. Con la confisca dei pacchi in realtà fu decretata la condanna a morte per molti prigionieri che provavano a sopravvivere nutrendosi anche di topi.

Significativa la lettera che un padre manda al figlio detenuto, riportata nell’articolo di Bertelli: “Tu mi chiedi il mangiare, ma a un vigliacco come te non mando nulla: se non ti fucilano quelle canaglie d’austriaci ti fucileranno in Italia. Tu sei un farabutto, un traditore; ti dovresti ammazzare da te. Viva sempre l’Italia, morte all’Austria e a tutte le canaglie tedesche: mascalzoni. Non scrivere più che ci fai un piacere. A morte le canaglie”. E in risposta la lettera al padre: “Non mi degno chiamarvi caro padre avendo ricevuto la vostra lettera, dove lessi che ho disonorato voi e tutta la famiglia: perciò d’ora in poi sarò il vostro grande nemico e non più il vostro Domenico”.

Tutto questo ci autorizza a ipotizzare che il nome Mauthausen fosse associato ad un luogo di morte e di disperazione già dagli anni Venti, e magari rammentato, storpiandone leggermente il nome, dai reduci che ne avevano avuto esperienza diretta o per sentito dire. Da qui il detto: “Si va verso Mathausen” per dire che ormai tutto è perduto.

Voltolino Fontani alla sua antologica del 1963 a Livorno
Voltolino Fontani alla sua antologica del 1963 a Livorno

Veniamo ora ad analizzare l’opera, una tavola di medie dimensioni che fu molto considerata dal pittore stesso che la volle esposta alla Mostra Antologica, da lui stesso curata, che si tenne nel 1963 alla Casa della Cultura (oggi Cisternino di Città) di Livorno. Il soggetto è un corpo scheletrito che si trova in una innaturale posizione contorta, non si sa se ancora vivo o già cadavere, imprigionato da un filo spinato che lo avvolge nelle sue spire. L’opera ha una media densità figurativa, in quanto il soggetto, se pur rappresentato in tratti minimali, è perfettamente percepibile. I colori sono pochissimi, il bianco per il corpo, il rosso per il filo spinato e il nero per lo sfondo. La realtà evocata è quella della morte per tortura o per stenti.

Pur rappresentando la morte, e quindi qualcosa di statico, in realtà il quadro ha un suo intrinseco senso del movimento come se il corpo continuasse a contorcersi davanti a noi, o come se lo avesse fatto fino ad un attimo prima, in una fittizia tridimensionalità. Poiché sappiamo per certo che un intero lato del muro del campo di prigionia di Mauthausen non fu mai realizzato e fu sostituito da una recinzione di filo spinato percorsa da corrente elettrica, dove molti prigionieri del primo conflitto mondiale scelsero di suicidarsi, non posso escludere che sia questo il fatto rappresentato, ma il soggetto è diventato un’immagine simbolica, un manifesto di una assurda strage. La sensazione comunicata è assolutamente tragica: nessun dettaglio inutile e nessuna indulgenza nel realismo appesantiscono il discorso figurativo e distolgono l’attenzione dello spettatore; il messaggio è scarno ed immediato, non ci sono ambiguità di interpretazione: la condanna per l’atrocità dei fatti e la pietà per le persone coinvolte sono decise e inequivocabili. Non è un’immagine facile o rassicurante, tutt’altro; chi osserva il quadro vive un attimo di sospensione, resta attonito a realizzare l’assurdità e l’inutilità del comportamento umano causa di una strage di una tale portata.

Quest’opera è stata esposta molte volte e sempre da questo lato per volontà dell’autore; un fotogramma di un filmato amatoriale lo mostra mentre la descrive alla Antologica del 1963. Il retro di questo quadro è, se possibile, ancora più evocativo e sul suo soggetto possiamo fare solo ipotesi, dato che non ha mai avuto un titolo, o almeno non ne è ancora stata trovata traccia.

Voltolino Fontani, Retro di Mathausen (1950; olio su tavola, 150 x 100 cm)
Voltolino Fontani, Retro di Mathausen (1950; olio su tavola, 150 x 100 cm)

Vi si riconosce in basso la sagoma di un corpo spettrale nell’inutile sforzo di uscire da una fossa, con delle enormi braccia nere che fanno da contrasto alla vivezza dei colori usati per descrivere il corpo e la fossa stessa. Le linee hanno andamenti contrastanti: mentre nella parte inferiore quelle che descrivono i bordi della fossa, le braccia e la mano sono rettilinee, nella parte centrale del quadro delle spire formano delle circonvoluzioni, quasi un sottile fumo, che arriva fino al cielo nerissimo, dove si possono riconoscere le sagome di due teschi, come se dei morti assistessero alla scena da un altro mondo.

Il cromatismo è del tutto innaturale: lo spettro protagonista dell’opera sembra che sia formato d’aria piuttosto che di carne perché ha il corpo di un verde pallido in contrasto alle grandi braccia nere. Anche il cielo è completamente nero mentre il colore caldo della parte centrale del quadro ricorda il fuoco; infatti il bordo che lo stacca sul cielo è verosimilmente il profilo di una fiamma. Anche in questo caso l’immagine non è statica ma suggerisce il movimento verso l’alto sia della figura che delle fiamme. L’intensità figurativa non è altissima ma si possono fare alcune ipotesi sulla realtà, se non rappresentata, almeno evocata da quest’opera.

Il campo di sterminio di Birkenau (detto anche Auschwitz II) era stato all’inizio concepito come campo di prigionia. Dal 1941 diventò un campo di lavoro e di sterminio, e fu dotato di quattro grandi forni crematori ma anche di roghi, ossia fosse ardenti ininterrottamente giorno e notte, usate fino al 1943 (anno di costruzione delle camere a gas) per bruciare i prigionieri inabili al lavoro dopo una sommaria esecuzione con proiettili non mortali e successivamente per distruggere (in caso di impossibilità di farlo con i crematori) i corpi delle vittime delle camere a gas. Tutto questo è descritto dai testimoni nel libro di Philippe Aziz I medici dei lager- Joseph Mengele l’incarmazione del male, edizioni Ferni, Ginevra 1975. Quindi il soggetto di questo quadro non sarebbe altro che “l’anima” di un prigioniero il cui corpo sta bruciando che si appresta ad affrontare il viaggio verso l’al di là, sotto lo sguardo dei defunti che lo attendono nel mondo dei morti. Non si indulge sui dettagli, il messaggio è semplice: una fiamma brucia un cadavere e la sua anima si libera a fatica del corpo.

Questa mia interpretazione, molto verosimile ancorché congetturale poiché non avallata dall’autore, dà un senso compiuto a tutta la composizione. Mi sembra che non si giustifichi il fatto che questo lato del quadro non abbia avuto la stessa divulgazione dell’altro: forse l’autore lo ritenne meno incisivo? O al contrario lo ritenne troppo forte? O forse meno leggibile? Mi permetto di fare un’ipotesi più avanzata. In altre circostanze Fontani ha riutilizzato una tavola già dipinta, o eseguendo una nuova stesura sopra a una precedente, o cancellando in qualche modo quella sul retro. In questo caso invece nessun ripensamento, nessuna cancellazione, il che potrebbe far supporre che i due lati del quadro avrebbero dovuto essere letti in successione, quasi come una pagina di un libro da sfogliare, un triste libro che narra le disgrazie dell’umanità. Può anche darsi che il lato Mathausen si riferisca agli orrori del passato, quelli del campo di prigionia della Grande Guerra, e che il lato che chiameremo “Birkenau” (che ripeto non ha titolo) si riferisca a quelli più recenti, quelli del secondo conflitto mondiale, in una sorta di descrizione cronologica illustrata della follia umana.

C’è un’altra opera fondamentale che racconta l’olocausto, ma da un punto di vista molto insolito per l’epoca di realizzazione, e si intitola Relitti. Il dipinto, del 1948, riproduce, secondo i canoni del manifesto eaista, l’orrore dello sterminio degli zingari avvenuto nel 1944 ad opera dei nazisti. L’opera fu esposta alla prima mostra eaista, tenutasi a Firenze (Casa di Dante) nel 1949.

Voltolino Fontani, Relitti (1948; olio su tavola, 80 x 110 cm)
Voltolino Fontani, Relitti (1948; olio su tavola, 80 x 110 cm)

Il tema del quadro è chiaramente quello della strage delle popolazioni Rom e Sinti che secondo il progetto di pulizia etnica nazista dovevano, come gli ebrei, scomparire completamente dalla Germania. Testimonianza dirette riportano che in una sola notte fra il 2 e il 3 agosto 1944 al lager E del campo di Birkenau 2897 prigionieri rom e sinti, per la maggior parte malati, anziani, donne e bambini furono sterminati nelle camere a gas.

Il riferimento certo del dipinto è il tipico carrozzone usato dai gitani come abitazione, con i quali essi, assolutamente ignari del loro destino, vennero rinchiusi nei campi, lasciando le famiglie riunite e la loro vita apparentemente inalterata, contrariamente agli altri prigionieri. Si dice che le prime sere li sentissero suonare le loro canzoni. Un romanzo di Alexander Ramati del 1986, da cui è stato tratto un film nel 1995, che tratta della deportazione degli zingari in Polonia nel 1942, si intitola proprio E i violini cessarono di suonare.

Come ricordava Piero Terracina, testimone diretto, in una intervista in occasione della cerimonia al Quirinale per il Giorno della Memoria del 2018: “Vicino a noi c’era il campo dei sinti rom: loro avevano ancora i bambini, i capelli, i loro vestiti. Pensavamo si sarebbero salvati e sarebbero tornati liberi per il mondo come erano sempre stati. Una notte piombarono le SS e noi tememmo che ci avrebbero uccisi tutti. Invece andarono da loro... La mattina oltre il filo spinato c’era solo un agghiacciante silenzio. Il fumo nero dei forni crematori ci disse il resto. In una notte li avevano sterminati tutti quanti”.

Tornando alla descrizione dell’opera Relitti, l’orrore della tragedia è ben visibile nei colori freddi e cupi del cielo, nella figura, probabilmente maschile, scheletrica e contorta in una posa innaturale in primo piano su quella che sembra una montagna di ceneri, e nella figura di donna evanescente in secondo piano, già quasi uno spirito, a rappresentare lo strazio delle intere famiglie zingare gassate e bruciate nei campi di sterminio.

Coerentemente con quanto esposto nel manifesto eaista, l’artista in questa opera non vuole narrare solo la tragedia, ma piuttosto la sofferenza che tale tragedia ha generato, non indulgendo in inutili dettagli ma limitando la sua descrizione a dei simboli evocativi, rifuggendo ogni retorica e cercando di ridurre il messaggio all’essenziale. Il risultato è un’opera toccante, piena di pathos, ma che nella sua essenzialità non è affatto “impenetrabile” ma anzi risulta portatrice di un chiaro messaggio di compassione e di condanna. Nel quadro però non c’è nessun segno di speranza o di redenzione, solo rassegnazione, dolore e sconforto.

La considerazione che si può fare di questo straordinario dipinto è la incredibile sensibilità con la quale Fontani racconta questo particolare aspetto della guerra, del quale non si è parlato molto nel dopoguerra. Ma lui nell’immediatezza dei fatti ha voluto soffermarsi su questo particolare genocidio, dimostrando di avere la capacità di ottenere informazioni (utilizzando gli strumenti a disposizione, oppure disponendo di qualche testimonianza diretta) e la volontà di divulgarlo in tutto il suo orrore. Ancora una volta si è dimostrato “avanti” nelle sue scelte artistiche, ancora una volta ha dimostrato in quest’opera la sua capacità di entrare nei fatti pur essendone sconvolto e di saper raccontare la tragedia che essi lasciano nell’animo dell’artista che li divulga con la potenza della pittura che sa produrre per lasciare un segno indelebile nell’osservatore.

Mi auguro di avere, con questa mia analisi appassionata e commossa di questi dipinti, fornito al lettore gli strumenti per decifrare non tanto opere già di per sé abbastanza chiare ed evocative, ma piuttosto l’animo del loro autore, un pittore che non ha esitato mai a rappresentare la realtà, nelle sue manifestazioni più belle (i paesaggi, le nature, i ritratti) ma anche nelle sue forme più orrende, frutto di un intervento scellerato da parte dell’uomo. E di aver ricordato questo grande artista, che per me è stato un padre affettuoso e protettivo.


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