Termina il restauro di uno dei grandi capolavori del Rinascimento: la Pala di Santa Lucia dei Magnoli di Domenico Veneziano, che dal 2019 si trovava all’Opificio delle Pietre Dure. Con il rosa surreale dell’architettura, il verde luminoso delle pareti e l’azzurro del manto della Madonna, torna a splendere il delicato cromatismo capolavoro del grande maestro rinascimentale, databile intorno al 1445. L’intervento è stato finanziato, mediante Art Bonus, da parte del mecenate Giampaolo Cagnin, che ha voluto così omaggiare la memoria della moglie Anne Marie Bauer, restauratrice impegnata nel salvataggio delle opere d’arte dopo l’alluvione che colpì Firenze nel 1966. Il delicato intervento, iniziato, come detto, nel 2019 con una vasta campagna diagnostica, è stato presentato alla stampa oggi, 12 dicembre. Sarà possibile anche per il pubblico vedere l’opera in anteprima il 21 dicembre, nelle fasce orarie 10-13 e 14-16 presso il Laboratorio dell’Opificio delle Pietre Dure alla Fortezza da Basso (accesso gratuito, necessaria la prenotazione su https://opd-effettorestauro.eventbrite.it). Il suo ritorno alla Galleria degli Uffizi, nelle sale della Pittura del Quattrocento al secondo piano, è previsto nei primi mesi del prossimo anno.
Tra le opere più importanti del primo rinascimento italiano, nonché unica tavola firmata dal Veneziano (che con fierezza appone l’iscrizione “OPVS DOMINICI DE VENETIIS” sul bordo inferiore) la Pala dei Magnoli fu commissionata per l’altare maggiore della chiesa di Santa Lucia dei Magnoli in via de’ Bardi dalla famiglia fiorentina dei Capponi. Le figure sono disposte entro un porticato realizzato con accurata resa prospettica e caratterizzato da colori luminosissimi: bianco, verde, azzurro e rosa che conferiscono alla scena una dimensione magica e sovrannaturale. All’interno del porticato, la Madonna col Bambino è affiancata dai santi Francesco, Giovanni Battista, Zanobi e Lucia. La santa regge un piatto su cui sono presentati i suoi stessi occhi, simbolo del martirio cui venne sottoposta. Oltre la partitura architettonica, sullo sfondo, si vedono le chiome di tre alberi di arancio, la cui presenza unisce al significato simbolico –la fecondità spirituale - un riferimento all’importazione di questa particolare specie arborea, attestata in quegli anni da documenti della famiglia Medici.
La Pala di Santa Lucia dei Magnoli entrò a far parte della collezione delle Gallerie degli Uffizi nel 1862, già priva della predella composta da cinque scomparti raffiguranti l’Annunciazione; San Francesco che riceve le stigmate; San Giovanni Battista nel deserto; il Miracolo di san Zanobi e il Martirio di santa Lucia (oggi divisi tra la National Gallery of Art di Washington D.C., il Fitzwilliam Museum di Cambridge e gli Staatliche Museen di Berlino).
Un’antica operazione di drastica pulitura, risalente al suo ingresso nel museo, con successiva patinatura a colla, aveva impoverito la pellicola pittorica, facendo perdere brillantezza ai colori e conferendole un aspetto opaco e arido, tale da assimilarla quasi ad una pittura murale e non far più percepire la caratteristica saliente di luminosità dell’insieme. Un commentatore dell’epoca aveva definito l’opera “un paravento cinese”, proprio per stigmatizzare la perdita della brillantezza e della saturazione dei colori. Il restauro ha finalmente restituito al dipinto le sue cromie.
“Si è trattato di un lavoro di grande difficoltà, possibile grazie alla generosità di un mecenate come Giampaolo Cagnin, che ha compreso la delicatezza dell’impresa, e all’altissima professionalità dell’Opificio delle Pietre Dure e dei suoi restauratori”, commenta Eike Schmidt, direttore degli Uffizi. “La competenza e l’acume scientifico richiesto da questo restauro hanno dato risultati insperati, che ora ripagano anche la pazienza dei visitatori che per tre anni, a causa delle interruzioni dovute al lockdown, non hanno potuto ammirare il dipinto nelle sale degli Uffizi. Il suo aspetto ora fa dimenticare le condizioni in cui era prima e ci permette di comprendere meglio il grande impatto di Domenico Veneziano sulla pittura italiana del Quattrocento”.
“Quando ho rivisto la tavola nei Laboratori della Fortezza ho detto a Oriana Sartiani: ‘è come se la vedessi per la prima volta’”, ha detto Emanuela Daffra, soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure. “Eppure è un dipinto che conosco, ho studiato ed amo. Tuttavia il lavoro insieme minuzioso e discreto, che ha saputo tenere in equilibrio una pittura che ha sofferto, recuperando limpidezze senza premere sul pedale della pulitura o senza nascondere svelature, ci restituisce la scansione dei piani, lo snodarsi dei profili, la fantastica ricchezza di dettagli (invito tutti a osservare il piviale di San Zanobi) con una nitidezza inedita. Sono davvero grata alla generosità di Giampaolo Cagnin, che ha fatto a tutti noi un autentico regalo. E nel giorno del solstizio d’inverno, quando le tenebre calano prima, invito tutti a passare in Fortezza, a godere per un momento di questa luce immutabile”.
“Il grande fascino che questa opera esercitava sui contemporanei torna oggi vivo e palpabile grazie al recupero delle sue valenze originali di luce e colore”, sottolinea Cecilia Frosinini, rappresentante del Comitato Scientifico degli Uffizi. “La commistione fra i colori astratti dell’architettura, di origine gotica, e la chiarezza della visione geometrica, tutta fiorentina, fu certamente uno degli aspetti di grande fascinazione del dipinto. Se lo si immagina all’interno della piccola e buia chiesa di Santa Lucia dei Magnoli, possiamo capire come entrare e vederlo sull’altar maggiore equivalesse ad aprire una finestra sul mondo divino, sul messaggio di luce di cui la santa stessa, nel suo nome, era portatrice”.
“La partecipazione al restauro di Giampaolo Cagnin”, evidenzia Sandra Rossi, direttrice del settore restauro dipinti dell’Opificio delle Pietre Dure, “non ha solo la importantissima valenza della liberale erogazione con cui un mecenate moderno decide di contribuire alla salvaguardia del patrimonio artistico. In questo caso sottolinea anche un legame storico, attraverso la sua vicenda personale, col mondo del restauro e, in maniera specifica, con l’Opificio delle Pietre Dure. Fu infatti all’interno del nostro laboratorio che sua moglie, all’indomani dell’alluvione del 1966, venne a prestare la sua opera in aiuto delle opere d’arte danneggiate da quel drammatico evento. Una solidarietà ed una collaborazione che oggi Cagnin ha voluto riproporre in memoria della consorte”.