Sfogliando un manuale di storia dell’arte dell’Ottocento non sarà difficile imbattersi nel nome di Alfredo d’Andrade, il grande architetto portoghese di nascita (il nome completo era Alfredo Cesar Reis Freire de Andrade), ma naturalizzato italiano, che oggi associamo ai principali progetti del revival gotico in Italia: il Castello d’Albertis di Genova, per esempio, oppure il Borgo Medievale di Torino, e poi tutta una serie di restauri condotti secondo le teorie e il gusto del tempo, quando s’interveniva in maniera pesante sui monumenti antichi rileggendo e rivisitando, spesso arbitrariamente, certi elementi. Sarà sufficiente ricordare il restauro del Battistero paleocristiano di Albenga, quando Andrade fece buttare giù la cupola: riteneva che fosse un rimaneggiamento rinascimentale, e allora tanto valeva rifarla, dato che comunque non era originale. Il problema è che poi si scoprì che, tolte le lastre d’ardesia riposizionate in epoca successiva, la struttura era effettivamente tardoantica. Inutile però prendersela con Andrade: la prassi prevalente all’epoca era quella del restauro stilistico, e il lusitano era comunque tra i professionisti meno violenti nei riguardi del patrimonio antico.
Meno nota, ma estremamente interessante, è la sua carriera di pittore: all’architettura, infatti, Alfredo d’Andrade sarebbe arrivato in un secondo momento. Quando, all’incirca ventenne, si stabilì a Genova, abbandonando senza troppi ripensamenti il mondo degli affari e del commercio (la famiglia voleva infatti che il rampollo intraprendesse una brillante carriera finanziaria), il giovane Alfredo andò a studiare da Tammar Luxoro, uno dei maggiori pittori genovesi del tempo, col chiaro intento di diventare a sua volta un pittore. Era così fermo nel suo proposito che decise di trasferirsi per qualche tempo, tra il 1860 e il 1861, a Ginevra, appositamente per prendere lezioni da Alexandre Calame. In Svizzera rimase però folgorato dall’arte di Antonio Fontanesi, che stava rivoluzionando in quegli anni la pittura di paesaggio e che all’epoca risiedeva proprio a Ginevra: da allora, la pittura di Alfredo d’Andrade, pur nutrendosi in continuazione del confronto coi colleghi, su tutti il piemontese Vittorio Avondo, altro punto di riferimento ineludibile per la sua arte, avrebbe continuato a palesare tutto il fascino delle vedute di Fontanesi. Spesso, peraltro, rivaleggiando in modernità col suo maestro ideale: è quel che viene da pensare osservando un capolavoro come il Temporale sulla palude di Castelfusano, oggi alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, dov’è entrato nel 1931 a seguito di una donazione di Ruy de Andrade, nipote dell’artista.
L’opera è del 1867, un momento in cui Andrade si sposta di continuo in lungo e in largo per l’Italia: vuole conoscere tutto il paese, vuole visitare ogni città, vedere i paesaggi più belli, conoscere le ricerche figurative contemporanee, farsi ispirare dalla quiete delle campagne, esplorare borghi e centri urbani per approfondire gli studi sul Medioevo e sul Rinascimento che tanto lo interessano già a quel tempo, e che avrebbero finito per fargli cambiare mestiere e farlo diventare uno dei più celebri architetti del suo tempo. Nel 1867 Andrade è però ancora un pittore, e si trova a percorrere le campagne romane, sulle tracce dello stesso Avondo, che aveva compiuto (e avrebbe continuato a compiere) numerosi viaggi nei dintorni di Roma, lasciandone memoria nei suoi dipinti e soprattutto in un nutrito nucleo di disegni. C’immaginiamo quindi un Alfredo d’Andrade in un giorno di pioggia, davanti a una palude tra le pinete di Castelfusano, attento a registrare con la memoria, e inevitabilmente anche su qualche foglio di carta, le prime impressioni del vento, delle nuvole, dei riflessi dell’acqua, della luce fioca del sole prima dell’arrivo del temporale, e ce lo figuriamo poi nel suo studio, a rielaborare le suggestioni ricavate da quella giornata in campagna, per dipingere una delle vedute più originali e temerarie del suo tempo.
Quello della GAM di Torino non è l’unico scorcio di Castelfusano dipinto da Andrade: il Prado, per esempio, ne conserva uno dove parte dell’orizzonte è chiusa dalle sagome imponenti dei pini. Ancora a Torino c’è uno studio in cui l’artista dipinge la pineta con colori più caldi, per dare l’idea che il temporale sia passato e in lontananza si sia aperto uno squarcio tra le nubi da cui filtrano i raggi del sole al tramonto. L’opera della GAM è però la più libera, la più sfrontata, la più audace veduta di questo brano di litorale romano. Oltre che il paesaggio più anticonvenzionale dell’intera produzione di Andrade. Lo stesso catalogo del museo riconosce che ci troviamo dinnanzi a un’opera “di inedita modernità”. E questo sostanzialmente per tre ragioni: il taglio compositivo, l’essenzialità di forme e colori, il coinvolgimento emotivo.
Andrade sceglie un punto di vista poco usuale: si posiziona di fronte alla palude, davanti alla distesa d’acqua, per avere la linea dell’orizzonte esattamente alla metà del dipinto. Ne risulta così una composizione simmetrica, speculare, con il profilo lontano della pineta che ci sembra quasi una linea scura messa lì per dividere il cielo dall’acqua, e che emerge per contrasto anche dalla vicinanza con le linee verticali delle tife che spuntano dall’acqua. Una composizione che offre ad Andrade l’opportunità di concentrarsi esclusivamente sugli eventi atmosferici.
Soluzioni simili erano state sperimentate da Vittorio Avondo, ma Andrade si spinge oltre, dimostrando quella stessa attitudine da esploratore del paesaggio ch’era propria di Antonio Fontanesi, e volendo esprimere, come faceva l’artista reggiano, le proprie sensazioni dinnanzi a ciò che sta guardando. Per arrivarci, Andrade sceglie di semplificare il più possibile la composizione, riducendola quasi a un’impressione astratta, dipingendola con modi bozzettistici, con pennellate rapide, liquide, impulsive, impostando tutta la gamma cromatica sulle diverse tonalità del grigio, con l’unica eccezione delle cromie terrose del canneto: sono i colori che la pineta di Castelfusano assume quando il sole scompare e rimangono solo le nubi che annunciano la pioggia.
La semplificazione compositiva e cromatica di Andrade non ha riscontri nella pittura italiana coeva, ed è forse la caratteristica più moderna di questo dipinto. Ma c’è anche una sensibilità che anticipa la poetica del paesaggio-stato d’animo: forse non si può ancora parlare propriamente di un artista che proietta sul paesaggio il suo sentire personale, ma appare evidente come Andrade esprima una forte partecipazione emotiva, suggerita dall’approssimarsi del temporale. Ci par quasi di vedere il movimento delle nuvole gonfie di pioggia, che arrivano dal lato destro del dipinto: le nubi nere, da quella parte, hanno ormai inghiottito i pochi spiragli azzurri, stanno per offuscare gli ultimi bagliori del sole, che vediamo anche riflessi sull’acqua al centro, e hanno gettato nell’ombra quasi metà di questo scorcio di pineta, dipinto con tonalità molto più scure rispetto alla parte sinistra. Ecco la forza coinvolgente di questo paesaggio: sentiamo che a breve i cumuli minacciosi copriranno tutto il cielo, l’atmosfera diventerà cupa, e la pioggia si abbatterà sulla pineta.
Il Temporale di Alfredo d’Andrade è un dipinto straordinariamente sottovalutato. Forse perché ormai il nome del suo autore è comunemente associato alle sue imprese architettoniche, e di conseguenza tendiamo a trascurare le sue prime esperienze da pittore. Ma anche all’epoca della sua realizzazione l’opera non trovò grandi riscontri: sappiamo che un dipinto intitolato Le paludi di Castelfusano venne esposto alla Promotrice di Torino del 1871, ma non sappiamo con certezza se fosse esattamente quello della GAM quello del Prado, o qualche altro lavoro rimasto magari in una collezione privata. Probabilmente, il Temporale era troppo in anticipo sui tempi. Oggi però abbiamo gli strumenti idonei per collocarlo in una posizione di rilievo all’interno di quella tradizione altissima che parte da Turner e Constable, attraversa Fontanesi, Nino Costa, Fattori, i pittori del paesaggio-stato d’animo come Previati, Segantini, Khnopff e arriva fino alle visionarie vedute di Anselm Kiefer, che peraltro spesso dimostrano una incredibile somiglianza con il Temporale di Andrade. Non sappiamo se Kiefer conosce Andrade, ma non ha importanza. Ci appaiono simili perché simile è la loro sensibilità.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).