Imitatio, tempus, vanitas. L'arte di Bertozzi & Casoni


Noto per il suo grande virtuosismo, il duo Bertozzi & Casoni, con le sue opere così verosimiglianti ma anche così misteriose, ha scritto un nuovo capitolo nella storia della ceramica. Un profilo della loro arte con particolare riferimento ai loro lavori più recenti.

Tra le fabbriche dell’operosa periferia industriale di Imola, al limite d’un’interminabile sequenza di campi coltivati che accompagnano l’autostrada verso Forlì e i lidi della Romagna, si nasconde l’opificio che vede nascere le sorprendenti ceramiche di Bertozzi & Casoni. Occupa i due piani d’un capannone che s’incontra appena usciti dal casello, dopo aver svoltato in una strada secondaria. A chi entra nella grande e ordinata fucina allestita da Giampaolo Bertozzi e Stefano Dal Monte Casoni, che dagli anni Ottanta formano un duo artistico tra i più originali non soltanto della scena italiana, sembrerà di vedere la manifestazione, vivente e moderna, d’una bottega rinascimentale. Specialmente se s’avrà la ventura d’osservare l’officina al lavoro. Vi regna un caos pulito e accurato, le mansioni sono ben organizzate e definite ma i pochi collaboratori sono pienamente partecipi del processo creativo, la trasmissione dei saperi accende il laboratorio, governa il suo funzionamento, è garante della sua stessa esistenza. Le conoscenze si tramandano di generazione in generazione, esattamente come accadeva nel Rinascimento: Zeno Bertozzi, figlio poco più che ventenne di Giampaolo, ha da poco cominciato a esporre i suoi lavori autonomi presso contesti espositivi di rilievo. Salendo al piano superiore, s’entra in un ambiente dove alcuni grandi recipienti per immersione segnalano che qui le opere s’avviano al processo di smaltatura, e una porta lì accanto immette in un’accogliente cucina: vedere le stoviglie vere, le tazzine da caffè, i piatti e le ceramiche da uso quotidiano assieme a quelle che andranno a comporre qualcuno dei vassoi, degli accrochage, degli avanzi, delle sparecchiature di Bertozzi & Casoni, è una dell’esperienze più singolari, stranianti, rivelatrici che si possano fare a contatto con un’opera d’arte.

Tiziano Scarpa, in un suo saggio del 2007, aveva scritto che nell’opera di Bertozzi & Casoni la ceramica è “uscita dai piatti, prima contagiando ceramicamente gli avanzi di cibo, poi la tovaglia, il tavolo, gli esseri animati e inorganici, fino a ceramificare prodotti industriali sofisticati ed entità metafisiche”. Nelle loro opere, “ci si imbatte in oggetti dichiaratamente ‘di ceramica’: piatti, tazzine, teiere dove la ceramica dichiara esplicitamente se stessa in mezzo a una congerie di altri oggetti”. Non esiste forse materia che più della ceramica sia in grado di mutare perennemente il suo aspetto, di rivelare gli atteggiamenti più diversi e varî, di assumere le forme tra loro più distanti, d’imitare qualunque oggetto, naturale o artificiale, di fare il verso persino a se stessa. C’è una data precisa, nella produzione di Bertozzi & Casoni, a partire dalla quale la mimesi più veridica ha cominciato a innervare ogni loro opera: era il 1998, e il duo presentava alla Galleria 1000eventi di Milano Scegli il Paradiso, opera dell’anno precedente, anche se anticipata da un analogo lavoro del 1994, in cui una Madonna a grandezza naturale veniva colta nell’atto di spingere un tosaerba sopra un tappeto di altissimi fiori con, a fianco a lei, il Bambino steso carponi sul prato, intento a giocare con una rana. Al cospetto d’opere come questa, e ad altre in cui l’imitazione del reale è ancor più scoperta, il riguardante di solito reagisce con stupore, domandandosi se davvero ogni singolo elemento di quell’accumulo d’oggetti sia fatto di ceramica. Uno stupore, si potrebbe dire seguendo ancora Tiziano Scarpa, che è prettamente “barocco”, dacché in grado di procedere dall’arte, suscitato anzitutto dalla forma. Non è però questo il fine ultimo dell’arte di Bertozzi & Casoni, che a un primo livello di lettura andrà intesa come imitatio, nell’accezione che ne diede Cicerone nel De Oratore, quando scriveva che “sine dubio in omni re vincit imitationem veritas, sed ea si satis in actione efficeret ipsa per sese, arte profecto non egeremus” (“senza dubbio la verità vince l’imitazione, ma se bastasse da sola all’azione, di sicuro non avremmo bisogno dell’arte”): imitatio, dunque, non come mera copia della natura, ma come modello ideale ch’è frutto dell’inventiva dell’artista. Non esiste nella cosiddetta realtà ciò che Bertozzi & Casoni modellano con le loro mani: le loro opere, pur nell’immediatezza della loro corporeità spesso anche triviale, giungono direttamente dall’idea.

Si prendano, tra i lavori più recenti, quelli che omaggiano i vasi di fiori di Giorgio Morandi: Bertozzi & Casoni hanno tradotto in ceramica le composizioni floreali del loro conterraneo che, a dispetto di quanto potremmo immaginare, non adoperava fiori appena colti, freschi, profumati di soavi fragranze. Erano fiori finti, quelli che Morandi sistemava dentro i suoi vasi: tra Morandi e Bertozzi & Casoni esiste una sorta di comunanza d’intenti nel determinare una cesura netta tra naturale e artificiale, come a voler dichiarare fin dal principio il modo in cui è da intendere la loro imitatio, come a voler stabilire con palmare chiarezza che arte e natura, pur nelle tante e più o meno audaci forme di compenetrazione che le possono avvicinare, abitano comunque piani differenti. Morandi stesso aveva delineato con lucidità estrema i presupposti della sua poetica: “le immagini suscitate dal mondo visibile, che è un mondo formale, sono molto difficilmente esprimibili, o forse non sono esprimibili con le parole”. L’arte di Morandi, così come quella di Bertozzi & Casoni, contiene pertanto un certo grado d’astrazione, si muove nella materialità ma al contempo ne rimane distante, aspira ad agguantare un invisibile che tuttavia, ha scritto Massimo Recalcati riferendosi a Morandi (ma lo stesso assunto vale anche per Bertozzi & Casoni), “non è altrove dal visibile”: è una “metafisica [...] integralmente immanentista”. Il miracolo è dentro le cose, e nella ceramica di Bertozzi & Casoni è riposto in ogni dettaglio più minuto: ogni elemento, anche il meno appariscente, è rivelatore, partecipe d’un complesso e talora anche aggressivo discorso filosofico, concettuale. Un discorso che riguarda anche, naturalmente, le celeberrime sparecchiature: immagini fisse, e che tuttavia riescono a innescare un meccanismo di movimento mentale in grado d’agire su più livelli: ricostruire la storia di quell’accumulo, domandarsi il perché della presenza di certi elementi, coglierne le implicazioni speculative.

Bertozzi & Casoni, Scegli il Paradiso (1997; maiolica, 196 x 190 x 85 cm; Sassuolo, Museo Bertozzi & Casoni)
Bertozzi & Casoni, Scegli il Paradiso (1997; maiolica, 196 x 190 x 85 cm; Sassuolo, Museo Bertozzi & Casoni)
Bertozzi & Casoni, Per Morandi (2019; ceramica policroma, 36 x 20 x 18 cm)
Bertozzi & Casoni, Per Morandi (2019; ceramica policroma, 36 x 20 x 18 cm)
Bertozzi & Casoni, Per Morandi (2020; ceramica policroma)
Bertozzi & Casoni, Per Morandi (2020; ceramica policroma)

Le sparecchiature di Bertozzi & Casoni hanno provocato ovvî paragoni con i tableaux-pièges di Daniel Spoerri, ma le opere del duo emiliano sono lontane dagli objets trouvés dello svizzero-rumeno del Nouveau Réalisme. Sussiste, intanto, un primo grado di separazione: è quello che divide l’arte dalla realtà, lo stesso che Arthur Danto aveva colto spiegando quale fosse la principale differenza che allontanava Warhol da Duchamp (l’esempio era quello delle scatole Brillo, assurte a icona della pop art, e peraltro presenti anche nella produzione di Bertozzi & Casoni). Spoerri lavorava su “situazioni trovate”, come lui stesso le aveva definite, utilizzando oggetti reali, mentre l’operazione concettuale di Bertozzi & Casoni scaturisce da fondamenta radicalmente distinte: la realtà tangibile, la realtà vera, nel loro caso, non entra nelle opere. Manca allora l’intenzione, tipicamente nouveau réaliste, di spogliare la realtà di qualunque idealizzazione: al contrario, in qualsiasi opera di Bertozzi & Casoni sarà possibile cogliere rimandi, citazioni, contenuti altri, slittamenti di significato che una situazione trovata non può attivare, a meno che l’artista non intervenga per alterarla e piegarla ai proprî desiderata, disattendendo però le basi filosofiche del proprio metodo. Al Museo Bertozzi & Casoni di Sassuolo (i due sono tra i rari artisti contemporanei ad aver già un museo dedicato), per esempio, si conserva un accumulo del 2016, Architettura Design, dove si distingue facilmente la copertina d’un libro, Zeitlose Kunst (“Arte senza tempo”), album di fotografie di opere d’arte di varie culture e varie epoche messo assieme negli anni Trenta da Ludwig Goldscheider, e che ebbe una certa diffusione e financo un certo impatto. Il loro inganno, più che somigliare alla trappola percettiva dei tableaux-pièges, assume semmai i connotati dell’inganno concettuale: “abbiamo continuato a parlare di cose, là dove c‘erano altre cose, di composizioni, quando c‘erano scomposizioni, di immagini, dove ciò che contava era il non-visto”, ha scritto Marco Senaldi. È questa rete di rimandi lo strumento che fornisce al pubblico le vere chiavi di lettura dell’opera di Bertozzi & Casoni, al di là del primo impatto con l’innegabile virtuosismo che tanto affascina chiunque veda i loro splendidi lavori. Una rete che è andata estendendosi negli ultimi lavori, è diventata sempre più viva e presente. E poi, se per Spoerri il tempo è soprattutto kairós, è l’istante in cui tutto è al suo posto, il momento fortuito e propizio che consente all’artista di conferire lo status di opera d’arte a un brano di realtà catturato in un dato frangente (Spoerri ha del resto ammesso di non saper disegnare: è il suo amore per gli oggetti a fargli cogliere l’occasione per trasformarli in opere d’arte), in Bertozzi & Casoni il tempo s’esprime anche in termini quantitativi, è anche il chrónos che scorre, è in definitiva l’ambiguo e più sfumato tempus che per Cicerone era “dotato di una moltitudine infinita di mirabile varietà”.

Proprio sul tempo si sono concentrate le ricerche più recenti di Bertozzi & Casoni, tanto che una delle loro ultime mostre, quella che s’è tenuta a Pietrasanta tra il 2020 e il 2021, era dedicata proprio a questo tema. Il tempo, prima ancora che come rappresentazione necessaria, come sequenza che non si ricava empiricamente dall’esperienza ma ch’è costruita dalla mente, è da intendersi come un’astrazione sfuggente, impalpabile, come manifestazione dell’eternità che occupa un momento dell’esistenza: quando s’ammirano certe opere di Bertozzi & Casoni viene alla mente l’idea del tempo secondo sant’Agostino, che era convinto del fatto che non esistessero passato (il tempo che non è più) né futuro (il tempo che non è ancora), quanto piuttosto le loro manifestazioni nel tempo presente, nella coscienza, nei ricordi, nello studio, nelle aspettative di chi vive il presente. “Tempora sunt tria”, scriveva il santo nelle Confessioni: “praesens de praeteritis, praesens de praesentibus, praesens de futuris”, ovvero “presente del passato, presente del presente e presente del futuro”. La Grottesca con fenicottero, opera che Bertozzi & Casoni hanno presentato nel 2014, offre la rappresentazione forse più icastica di questa riflessione sul tempo: la scritta “ADESSO” in capitali gotiche contrasta con le grottesche che rimandano a un linguaggio di due-tre secoli successivo (e ovviamente evocano un’idea di passato a noi contemporanei del XXI secolo, ma evidentemente ciò che noi percepiamo come passato era il tempo del presente, il tempo dell’“ADESSO”, per chi scriveva con quei caratteri), e la presenza ambivalente del fenicottero che da una parte è vivo, in piedi, presente sul piatto, e dall’altra è decapitato, morto, diventato già materia organica su cui germogliano i fiori (nel mezzo, le penne che cadono come foglie), suggeriscono la compresenza delle tre diverse componenti che formano la comune idea di “tempo”.

Ma lavorare sul tempo significa anche, per stessa ammissione del duo, come ha dichiarato Giampaolo Bertozzi, riconoscere che l’essere umano vede se stesso come legato al tempo che passa, a ciò che “lascia dietro di sé dopo il suo passaggio nel tempo in cui vive”. Un filone della ricerca sul tempo, questo, che Bertozzi & Casoni hanno continuato ad approfondire sin dai primi anni Duemila, ma che in realtà, leggendolo tramite certe declinazioni, è stato presente dagli esordî: l’idea del degrado, per esempio, accompagna la loro opera fin dagli anni Ottanta. Il degrado è una presenza così costante nelle opere di Bertozzi & Casoni perché è davvero rivelatore dell’animo dell’essere umano: “nel degrado”, dicevano a Senaldi in un’intervista del 2002, “vedi la vita vera, vedi l’essenza dell’uomo, non nell’immagine patinata, quello è un bel velo”. Il degrado ricopre con la sua patina di plastica e muschio un cumulo d’ossa nei Pensieri del 2019, intacca con la ruggine un ammasso di barili di petrolio, trabocca da cassette e cestini facendo riemergere resti e relitti, arriva a insozzare le stesse Brillo Box o a tendere una trappola a un orso bianco che cerca d’incedere su di un blocco di ghiaccio inesorabilmente destinato a sciogliersi nella celebre Composizione in bianco. È lo stesso orso che troviamo serrato in una gabbia arrugginita in Polar Bear, simbolo dell’essere umano che cerca continuamente di soggiogare la natura violentando e devastando tutto ciò che incontra. Non c’è però compiacimento: per quanta lordura si possa incontrare nelle opere di Bertozzi & Casoni, siamo lontani dall’arte del disgusto di cui ha parlato Jean Clair nel suo pamphlet De immundo.

E non ci sono neppure condanna, tanto meno moralismo: c’è semmai la sensazione di scivolare su altri livelli semantici e di elevarsi sopra altri piani spirituali. Una funzione dalla quale però l’essere umano sembra essere escluso (il suo ruolo parrebbe essere al più quello dello spettatore dello sfacelo e della distruzione), e di cui vengono investiti attori che vengono per lo più dal mondo animale: pappagalli, coccinelle, farfalle. Persino la warholiana sedia elettrica, simbolo della più immensa e abietta delle miserie umane, ovvero la tendenza a voler prevaricare fino al punto di decidere di togliere per legge la vita a un altro essere umano, viene avvolta da un volo di farfalle, a voler dire che per quanto profondo possa essere il degrado, a tal segno da spingere qualcuno a compiere le azioni più riprovevoli, c’è comunque una parte di lui ch’è in grado di salvarsi. Il bello vive assieme all’abominevole: parlando di Regeneration, opera del 2012 che vede un gorilla, simbolo della capacità d’ascolto e della possibilità di cambiamento, seduto con in grembo un capriolo su di una pila di materassi insudiciati da sporcizie varie, lo storico dell’arte Franco Bertoni ha colto questa compresenza di “degrado e bellezza, piccolo e grande, religione e mondo animale” che “si accavallano producendo una miscela esplosiva di rimandi simbolici, cruda realtà e visionaria immaginazione”.

Bertozzi & Casoni, Architettura Design (2016; ceramica policroma, 42 x 66 x 45 cm; Sassuolo, Museo Bertozzi & Casoni)
Bertozzi & Casoni, Architettura Design (2016; ceramica policroma, 42 x 66 x 45 cm; Sassuolo, Museo Bertozzi & Casoni)
Bertozzi & Casoni, Grottesca con fenicottero (2014; ceramica policroma, 84 x 90 x 86 cm)
Bertozzi & Casoni, Grottesca con fenicottero (2014; ceramica policroma, 84 x 90 x 86 cm)
Bertozzi & Casoni, Pensieri (2019; ceramica policroma, 64 x 55 x 51 cm)
Bertozzi & Casoni, Pensieri (2019; ceramica policroma, 64 x 55 x 51 cm)
Bertozzi & Casoni, Terra (2019; ceramica)
Bertozzi & Casoni, Terra (2019; ceramica policroma)
Bertozzi & Casoni, Brillo box con pappagalli (2016; ceramica policroma, 240 x 190 x 220 cm)
Bertozzi & Casoni, Brillo box con pappagalli (2016; ceramica policroma, 240 x 190 x 220 cm)
Bertozzi & Casoni, Composizione in bianco (2007; ceramica policroma e bronzo, 150 x 600 x 300 cm)
Bertozzi & Casoni, Composizione in bianco (2007; ceramica policroma e bronzo, 150 x 600 x 300 cm)
Bertozzi & Casoni, Polar Bear (2016; ceramica policroma, 196 x 222 x 116 cm; Sassuolo, Museo Bertozzi & Casoni)
Bertozzi & Casoni, Polar Bear (2016; ceramica policroma, 196 x 222 x 116 cm; Sassuolo, Museo Bertozzi & Casoni)
Bertozzi & Casoni, Sedia elettrica con farfalle (2011; ceramica policroma, 165 x 118 x 85 cm; Sassuolo, Museo Bertozzi & Casoni)
Bertozzi & Casoni, Sedia elettrica con farfalle (2011; ceramica policroma, 165 x 118 x 85 cm; Sassuolo, Museo Bertozzi & Casoni)
Bertozzi & Casoni, Regeneration (2012; ceramica policroma, 160 x 213 x 190 cm)
Bertozzi & Casoni, Regeneration (2012; ceramica policroma, 160 x 213 x 190 cm; Sassuolo, Museo Bertozzi & Casoni)

Naturale cogliere poi, in questi avanzi del tempo, il riferimento alla fugacità delle nostre esistenze: la vanitas è un’altra delle colonne del lavoro di Bertozzi & Casoni, forse la più longeva (“nessun dubbio che l’opera di Bertozzi & Casoni sia un ininterrotto memento mori”, ha sentenziato Vittorio Sgarbi), e giunta senz’alcun tramite dal lavoro, artistico e scientifico, del ceramista francese Bernard Palissy, uno dei primi europei ad aver intuito l’origine organica dei fossili, nonché inventore d’una ceramica “rustica” che prevedeva l’imitazione, direttamente sopra i piatti, degli animali (serpenti, pesci, lucertole, gamberi, salamandre, farfalle) che l’artista vedeva nelle paludi della Saintonge, la sua terra natia. Palissy aveva compreso che i fossili erano tracce, resti d’un’antica esistenza, e aveva preso a utilizzare la tecnica del calco in gesso non solo per ottenere immagini le più verisimiglianti possibili, ma forse anche per imitare, in certa misura, il naturale processo di fossilizzazione: conservando nelle opere d’arte l’aspetto del reale, e rendendolo perciò incorruttibile, affermava, attraverso un evidente paradosso, la condizione effimera delle creature che popolavano i suoi piatti di ceramica. Bertozzi & Casoni hanno cercato di rinnovare la tradizione della vanitas, guardando segnatamente all’arte del Seicento e non solo a quella di Palissy, “portando al suo interno le contemplazioni del nostro presente”, come loro stessi hanno dichiarato: “disastro e bellezza è quello che cerchiamo di mettere in scena”.

La precarietà della condizione umana emerge dagli avanzi del vortice consumistico che risucchia la nostra società, la mastica, ed espelle scarti corrotti e coloratissimi, che nel serbare l’involucro di ciò che sono stati ricordano al riguardante quel che era e quel che sarà. I rifiuti di Bertozzi & Casoni conservano la traccia di tutta la stanchezza del mondo. I loro resti sono gravati dalla presenza simultanea di passato, presente e futuro, e nella loro consapevole epica dello scarto, sempre ammantata d’un velo d’ironia, assurgono a segno forse più sincero delle intenzioni dell’essere umano, e diventano quindi da un lato oggetti dallo straordinario potenziale estetico (“la scatoletta di tonno abbandonata”, dice Giampaolo Bertozzi, “è un oggetto ammirabile, di grande qualità artistica, di una grande sensibilità di colori, di variazioni di toni, dalla ruggine allo scolorimento dell‘etichetta”), e dall’altro simbolo potente ed eloquente di caducità, dove la bellezza non è mai del tutto oscurata, ma è anzi elemento ineludibile perché suggerisce un’alternativa, un dopo e un altrove.

Bertozzi & Casoni, Cielo (2018; ceramica policroma, 15 x 58 x 48 cm)
Bertozzi & Casoni, Cielo (2018; ceramica policroma, 15 x 58 x 48 cm)
Bertozzi & Casoni, Il budino del vicino (2015; ceramica policroma, 26,5 x 41,5 x 37 cm)
Bertozzi & Casoni, Il budino del vicino (2015; ceramica policroma, 26,5 x 41,5 x 37 cm)
Bertozzi & Casoni, Resistenza 2 (2018; ceramica policroma, 300 x 214 cm; Sassuolo, Museo Bertozzi & Casoni)
Bertozzi & Casoni, Resistenza 2 (2018; ceramica policroma, 300 x 214 cm; Sassuolo, Museo Bertozzi & Casoni

S’aggiunga poi che questo senso di precarietà è ulteriormente suggerito dal mezzo espressivo che Bertozzi & Casoni hanno scelto, la ceramica, assieme eterna e fragile, investita financo d’una certa sacralità proprio in virtù della sua natura, che porta il riguardante ad ammirarla con rispetto, quasi con deferenza, e di conseguenza a ispirare quella dimensione contemplativa che Giampaolo Bertozzi e Stefano Dal Monte Casoni hanno sempre cercato, fino ad arrivare a coniare la definizione di “contemplazioni sul presente” per i loro accumuli. Contemplazioni che hanno aggiunto alla storia della ceramica un capitolo estremamente significativo: con un linguaggio originale e lontano da qualsiasi derivazione epigonale, Bertozzi & Casoni hanno ravvivato la tradizione d’un’arte che, specialmente in Italia, è stata spesso considerata secondaria, nonostante una felicissima stagione negli anni Sessanta, quando osservare opere in ceramica in contesti importanti significava aggiornarsi sulle novità di Lucio Fontana (quelle che avrebbero anticipato le Attese: senza le infinite possibilità della ceramica, probabilmente la strada percorsa da Fontana avrebbe conosciuto altre deviazioni), su quelle di Leoncillo, di Fausto Melotti, di Mario Ceroli, di Arturo Martini, di Nino Caruso, e un interessante revival negli ultimi venti-trent’anni, coi nomi di Luigi Ontani, di Giuseppe Ducrot, di Luigi Mainolfi e di altri che ne hanno sondato ulteriori possibilità. Possibilità che, Bertozzi & Casoni, si traducono in somma abilità tecnica non per essere più reali del reale: non è questo il fine, benché si possa tranquillamente riferirsi a loro come maestri senza il timore di adoperare quello che appare sempre più come un appellativo di cortesia, e dunque senza il timore di ricavarne un certo imbarazzo. Bertozzi e Casoni padroneggiano davvero la tecnica, ne conoscono davvero i segreti più reconditi, e dietro le mostre di successo nei contesti più autorevoli c’è tutta la polvere sollevata nel lungo cammino partito dai forni della provincia emiliana, dalla scuola, dall’Istituto Statale della Ceramica di Faenza, passato attraverso le collaborazioni con l’Accademia di Bologna, con le cooperative dei ceramisti del territorio, continuato con gli esordî nel mondo del design in un periodo, gli anni Ottanta, in cui la ceramica era di nuovo uscita dalle orbite dei linguaggi più attuali (e, si badi, non occorrerà parlare di mode: Bertozzi & Casoni non le hanno mai seguite), fino a pervenire all’esplorazione di quegli orizzonti nuovi, quasi rivoluzionarî si potrebbe dire senza tema d’esagerazioni (chiunque s’avvicinerà alla ceramica non potrà metterne in discussione lo status raggiunto dopo Bertozzi & Casoni), verso i quali la loro arte seguita a guardare.

Nessun virtuosismo che aspira soltanto al mero sbigottimento o che, ancor peggio, si crogiola nell’autolatria: le opere di Bertozzi & Casoni nascono per esser sondate in profondità, i loro assemblaggi serbano una tensione, sincera e disinvolta, che li porta a connettere la grande storia dell’arte con le questioni più urgenti e con quelle più eterne, e sono avvolti da un’ambiguità pungente e affascinante che ingaggia una sfida continua contro le nostre certezze e le nostre convinzioni, e che induce il riguardante, senz’alcun pregiudizio, a indagare il mistero che attorciglia le nostre esistenze. Franco Bertoni ha giustamente ricordato che Bertozzi & Casoni sono “maestri del dubbio” e che la loro arte solleva incertezza e inquietudine: “Raramente, prima di loro, l’arte, in questo caso con la ceramica, aveva raggiunto livelli tanto alti di ipnotica perfezione esecutiva e proprio alle loro inattaccabili opere va il merito di avere fatto giustizia di antiche e recenti incomprensioni nei confronti di un mezzo considerato marginale e invece dotato di una singolare e insostituibile capacità di linguaggio”. È singolare, e in un qualche modo anche toccante, pensare che Bertozzi & Casoni ancora lavorino con tecniche antiche, non riproducibili con mezzi meccanizzati, in un processo lento, meticoloso, spesso ripetitivo, nel quale subentrano spesso, inevitabilmente, anche la noia e la solitudine. Ma del resto è forse vero che non si è veri artisti se non si è sperimentata una qualche forma di solitudine.


La consultazione di questo articolo è e rimarrà sempre gratuita. Se ti è piaciuto o lo hai ritenuto interessante, iscriviti alla nostra newsletter gratuita!
Niente spam, una sola uscita la domenica, più eventuali extra, per aggiornarti su tutte le nostre novità!

La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER

Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






Commenta l'articolo che hai appena letto



Commenta come:      
Spunta questa casella se vuoi essere avvisato via mail di nuovi commenti





Torna indietro



MAGAZINE
primo numero
NUMERO 1

SFOGLIA ONLINE

MAR-APR-MAG 2019
secondo numero
NUMERO 2

SFOGLIA ONLINE

GIU-LUG-AGO 2019
terzo numero
NUMERO 3

SFOGLIA ONLINE

SET-OTT-NOV 2019
quarto numero
NUMERO 4

SFOGLIA ONLINE

DIC-GEN-FEB 2019/2020
Finestre sull'Arte