Il duo artistico Bertozzi & Casoni, composto da Giampaolo Bertozzi (Borgo Tossignano, 1957) e Stefano Dal Monte Casoni (Lugo, 1961), è uno dei più importanti nomi della ceramica contemporanea internazionale. Caratteristica fondamentale della loro arte è la capacità di legarsi alla tradizione per affrontare temi eterni dell’arte (come quelli del tempo e della caducità della vita) in forme molto attuali. Con Giampaolo Bertozzi, siamo partiti dalla loro mostra più recente, intitolata proprio Tempo (a cura di Mauro Daniele Lucchesi e Alessandro Romanini, al complesso di Sant’Agostino di Pietrasanta fino al 7 febbraio 2021), per parlare della loro arte anche in relazione agli ultimi eventi d’attualità. L’intervista è a cura di Federico Giannini.
Allestimento della mostra Tempo a Pietrasanta |
FG. Cominciamo dalla mostra di Pietrasanta, che ha un titolo molto appropriato per la situazione che stiamo vivendo, dato che si chiama Tempo. Il tempo è non solo quello che la mostra non ha avuto, visto che dopo due settimane il governo ha chiuso tutti i luoghi della cultura (e speriamo dunque che vengano riaperti al più presto affinché si possa andare a vedere la mostra), ma è anche la dimensione sulla quale gli eventi degli ultimi mesi ci hanno spinto per forza di cose a ragionare. Ma al di là delle contingenze, cosa vi ha spinto a dedicare una mostra al tempo?
GB. Su questa scelta ha influito la sede della mostra, la chiesa di Sant’Agostino, la quale ci ha avvicinato ad alcuni temi presenti fin dagli esordi nel nostro operare artistico, ma non solo, ci ha fatto anche pensare all’Ecclesiaste con una serie di considerazioni sul “tempo” che in qualche misura rafforzano i temi che abbiamo inserito nelle nostre composizioni. Argomenti che abitualmente introduciamo nel nostro lavoro, riferimenti alla tradizione dell’arte come i memento mori e le vanitas, che hanno rappresentato una costante del nostro operare artistico. L’essere legati al tempo che passa, a ciò che l’uomo lascia dietro di sé dopo il suo passaggio nel tempo in cui vive, conscio dell’intangibilità del “tempo”, è stato per noi da sempre un tema molto importante. Una dimensione, il “tempo”, alla quale noi umani abbiamo dato una sorta di ordine, che però, a ben vedere, è un concetto imprendibile, quasi un dogma al pari della fede. La Chiesa si è occupata così tanto di questi temi, in tutte le epoche, che risultava quasi naturale dedicare una mostra al “tempo” e, cosa più importante, in una chiesa che, anche se chiusa al culto, ancora in terra consacrata.
Avete, appunto, lavorato spesso sul tema dell’effimero: anche a Pietrasanta vediamo diverse vostre vanitas moderne, ma che affondano le radici nella storia dell’arte (e su questo peraltro mi piacerebbe tornare più avanti). Il tema della caducità della vita ha spesso animato il vostro lavoro: quello della nostra finitezza è un argomento che sembra essere uscito dai nostri radar, dato che oggi viviamo come proiettati in un continuo presente e ci preoccupiamo poco di quello che accadrà anche molto tempo dopo di noi. Ed è un po’ quello che sembra trasparire dalle vostre opere.
Sì, come artisti registriamo questo fatto, il trionfo dell’esteriorità, del qui e ora, del corpo perfetto, di tutto quello che sembra imperituro ma che in realtà non lo è. Fin dai primi anni Ottanta, quindi dall’inizio del nostro percorso, abbiamo sempre ragionato in questo senso, sul senso della caducità. Forse questa attitudine risale alla nostra formazione scolastica, che avviene sul finire degli anni Settanta a Faenza, all’Istituto Statale d’Arte per la Ceramica, allora una scuola di grande livello formativo. Ricordo che molti studenti stranieri (giapponesi, americani, tedeschi) finivano o affinavano il loro percorso scolastico a Faenza e si era creato un clima molto interessante e stimolante da un punto di vista di scambi culturali. La scuola aveva accanto l’attuale Museo Internazionale delle Ceramiche, uno dei più importanti musei al mondo sulla ceramica, dove potevamo studiare sul “campo” sia la storia della ceramica sia quella dell’arte. Risale a questo periodo scolastico la mia conoscenza dell’artista Bernard Palissy, nato nei primi anni del Cinquecento e autore di una piccola rivoluzione nella ceramica. Egli cominciò a fare i primi calchi su piccoli anfibi e rettili, conferendo alle sue composizioni un’apparenza così reale che in quegli anni risultava quasi un’alchimia. Il nostro interesse nasce quindi guardando e rivisitando tutto quello che è la tradizione della storia della ceramica, e le composizioni di Palissy portavano proprio a riflettere sulla caducità e sulla finitezza della vita, temi ripresi dalla storia dall’Arte nel secolo successivo con i memento mori e le vanitas.
Abbiamo citato Bernard Palissy ma la vostra opera è piena di riferimenti, a Pietrasanta per esempio ci sono dei teschi con il naso di Pinocchio, su cui si posano dei pappagalli, che fanno pensare a De Dominicis, e poi Andy Warhol, Arcimboldo, le nature morte del Seicento... qual è il vostro rapporto con la storia dell’arte?
Pensiamo che tutto quello che si possa rinnovare nell’arte, ovvero la strada maestra per rinnovarsi nell’arte, passi dal solco della tradizione, ma non solo. Noi siamo osservatori, come tutti gli artisti, e guardandoci intorno abbiamo privilegiato quello che ci circonda, senza andare troppo lontano o fare voli pindarici. Ci guardiamo intorno e in questo guardarci intorno c’è anche la storia dell’arte, che filtriamo attraverso la nostra sensibilità. Abbiamo fatto un omaggio a Morandi, ma abbiamo rivisitato anche altri artisti come Van Gogh o Gauguin, per esempio: ci piace avvicinarci alla grande tradizione dell’arte, anche perché c’è tutto un sapere al quale rivolgere la nostra attenzione che ci sembra, per il nostro modo di sentire, molto stimolante.
Bertozzi & Casoni, Pensieri (2019; ceramica policroma, 64 x 55 x 51 cm) |
Bertozzi & Casoni, Per Morandi (2019; ceramica policroma, 36 x 20 x 18 cm) |
Bertozzi & Casoni, Estate (2015; ceramica policroma, 74 x 65 x 40 cm) |
Bertozzi & Casoni, Brillo box con pappagalli (2016; ceramica policroma, 240 x 190 x 220 cm) |
Bertozzi & Casoni, Nulla è come appare, dettaglio (2018; ceramica policroma, bronzo argentato, acciaio, 100 x 50 x 50 cm) |
C’è poi l’argomento del rapporto tra l’uomo e la natura che nelle vostre opere è un rapporto spesso tutt’altro che armonioso: diciamo che tra rifiuti, sprechi di cibo e quindi di risorse, animali in gabbia, la natura non ne esce bene, anzi ne esce molto segnata. Che cosa volete far emergere?
Siamo molto chiari, non è arte ecologica, anche se siamo sensibili al problema. Noi guardiamo la discarica con occhi d’artista: la scatoletta di tonno abbandonata è un oggetto ammirabile, di grande qualità artistica, di una grande sensibilità di colori, di variazioni di toni, dalla ruggine allo scolorimento dell’etichetta, e quindi noi la prendiamo come esempio plastico e pittorico. Ci piace fare le nostre composizioni pensando a questo aspetto, pensando di dare una seconda vita a questo mondo che ha assolto una sua prima funzione, ordinando gli oggetti in una composizione. Nel nostro lavoro non appare mai l’uomo ma appare quello che l’uomo lascia dietro di sé, le sue tracce. Io stesso mi circondo di oggetti comuni che però hanno un loro fascino di costruzione, forma, colore. Già Duchamp, nel 1912, quando si recò a visitare l’Esposizione dell’aviazione di Parigi e vide la grande elica, rimase colpito da quest’oggetto, che era un prodotto dell’essere umano, non per la sua valenza artistica, ma per la tecnica che aveva permesso all’uomo di realizzarlo. In realtà la sua era, in sostanza, un’osservazione di quello che l’uomo fa. Ricordo di aver ascoltato Restany molti anni fa: parlava della ruota della bicicletta dicendo che il segno della ruota è un segno intramontabile (un cerchio) e che Duchamp la scelse non per parlare di chissà cosa, ma perché è una forma che rimarrà eterna e sempre contemporanea.
E questa attenzione per la qualità estetica e concettuale degli oggetti anche più semplici spiega anche il vostro interesse per le Brillo Box di Andy Warhol. E voi, esattamente come faceva Andy Warhol con le Brillo Box, non inserite objet trouvé nelle vostre opere, ma ricostruite gli oggetti. Accade soprattutto negli accumuli con i singoli oggetti descritti con una minuzia meticolosissima, che destano sempre grande curiosità in chi le osserva: qual è il processo che porta alla nascita di una vostra opera?
È un procedimento molto lungo, che unisce arte e tecnica, cose che per noi sono molto vicine: “tecnica” per noi significa mettere insieme gli strumenti per dare forma alle idee. Il procedimento parte dall’oggetto trovato, dopodiché noi lo ricostruiamo interamente in studio e facciamo un modello, poi uno stampo, spesso sono stampi in silicone fatti in modo che possano restituirci l’oggetto perfettamente identico, oppure leggermente cambiato ma in modo che non sia troppo diverso. Ogni piccolo oggetto che viene messo in questi accumuli nasce da un processo di modello e stampatura (che può essere manuale o per colaggio o un misto delle due tecniche), poi si passa alla cottura (anch’essa di diversi tipi, perché non tutti gli oggetti si cuociono alla stessa temperatura e soprattutto i colori sono da differenziare nelle cotture): alcune tecniche sono di derivazione industriale, anche perché tutto quello che si trova sul mercato viene studiato per la grande produzione. Il nostro lavoro ha conosciuto due fasi, la prima era legata alla tradizionale della maiolica, nella seconda fase abbiamo sentito l’esigenza di raffreddare il nostro lavoro portandolo ad essere più oggettivo.
Bertozzi & Casoni, Vassoio (2009; ceramica policroma, 19 x 37,5 x 60 cm) |
Bertozzi & Casoni, Intervallo Oggi (2008; ceramica policroma, 70 x 77 x 50 cm) |
Bertozzi & Casoni, Regeneration (2012; ceramica policroma, 160 x 213 x 190 cm) |
Tornando a parlare della mostra, l’idea del progetto è quella di trasmettere all’osservatore la percezione che l’arte possa, in qualche modo, riscattarci. Al termine della visita, leggo nel testo del curatore “lo spettatore esce con la percezione che, nonostante i tempi difficili in cui viviamo, l’arte e la bellezza ancora una volta ci salveranno o almeno riscatteranno la nostra dimensione effimera”. Cosa significa questo per voi?
L’arte non dà mai risposte, pone sempre domande, fa riflettere su temi che sono da sempre i temi dell’uomo. Può aiutare il fatto che l’arte sia una di quelle cose che, se non c’è, manca all’essere umano. Poi diciamo che il bello ci salverà, ma in realtà è qualcosa di più, che io non saprei neppure definire: so per esempio di amici che hanno lavorato in zone di guerra, i quali mi hanno detto che la cosa che più mancava in quei contesti era l’arte, pur non essendo loro degli artisti. L’arte è qualcosa che travalica la nostra vita comune di tutti i giorni, e alle volte può essere un rifugio, un’oasi di ristoro rispetto alla quotidianità. A mio avviso, l’arte (un libro, un film, un documentario, un quadro, una scultura) è un’oasi di pace, uno spazio di libertà in cui l’uomo si trova bene, non so per quale motivo, forse i filosofi lo saprebbero spiegare meglio di me: io so che sto bene e mi ritempro se guardo un film, se leggo una poesia o un libro. Penso sia questo il senso.
Un’ultima domanda: il vostro è un linguaggio molto originale, innovativo, attuale. In che modo la pandemia ha inciso sul vostro lavoro? E secondo voi ne emergeranno nuove realtà, nuove tendenze?
Sul nostro lavoro, come sul lavoro di tutti, incide tutto, perché tutte le esperienze che sulla Terra arrivano all’uomo, in qualche modo ci segnano, vengono introiettate. Magari i risultati non saranno subito visibili e dietro l’angolo, però credo che tutto quello che arriva in qualche modo ci aiuti e ci dia degli input a fare qualcosa di nuovo. E anche questi ultimi eventi influiranno sull’arte, sugli artisti e sul loro prodotto, come è stato per tutto: penso alle grandi masse che si stanno spostando sul pianeta, tanti artisti hanno lavorato e lavorano su queste tematiche, e continueranno a farlo. Ci sono artisti che registrano di più il contemporaneo e artisti che invece lo registrano in modo più particolare, non parlando direttamente di quel problema ma comunque affrontandolo. Perché è anche vero che spesso nulla è come appare. A volte si vede un’opera che, al di là delle apparenze, dentro di sé porta quello che c’è e quello che verrà.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).