Il 2021 è stato un anno fortunato per il processo di riscoperta critica dell’arte toscana del XVIII secolo. Vera protagonista è stata la grande mostra Giovanni Antonio Cybei e il suo tempo che si è tenuta a Carrara da luglio ad agosto 2021 e che ha riconsegnato alla storia dell’arte uno dei suoi autori più importanti in terra toscana, con analisi del contesto in cui Cybei si mosse, i suoi maestri, le frequentazioni, gli allievi e i pittori del suo tempo. Ma gli amanti del Settecento hanno di che essere felici, perché oltre alla magistrale mostra carrarese un’altra tappa è stata aggiunta al percorso di valorizzazione e comprensione dell’arte di questo secolo. Si tratta dell’importante restauro che ha interessato il monumento in marmo dedicato al Granduca Pietro Leopoldo di Livorno, che è stato salvato dall’incuria che lo attanagliava da decenni e dal forte stato di degrado che ne impediva la corretta lettura.
Fino ad oggi ben poco interesse era stato tributato al monumento, sia da parte della comunità che degli studiosi, tant’è che nel corso della sua storia recente è stato più volte vandalizzato, oltraggiato e sminuito, nonostante l’opera vanti più di un motivo di interesse. In primis, come ricordava lo storico annalista livornese Giuseppe Vivoli, il monumento scultoreo di Livorno fu l’unico che il monarca lorenese ebbe in vita; la scultura è, fra la statuaria del potere granducale in terra livornese, la seconda per antichità, preceduta solamente dal più celebre monumento del secolo precedente dedicato a Ferdinando I, meglio conosciuto come il monumento dei Quattro mori; infine è una delle poche vestigia ancora esistenti del lazzaretto di San Leopoldo.
La statua e il suo complesso vennero infatti progettate per adornare il lazzaretto, che in una città di porto aveva una funzione strategica di primo piano per contenere i terribili morbi che si diffondevano attraverso le imbarcazioni mercantili, permettendo agli equipaggi e alle merci di osservare la quarantena sulla terra ferma e non in mare. In particolare, il lazzaretto di San Leopoldo inserendosi nell’età dei lumi poté avvantaggiarsi delle nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche per perseguire la salubrità.
Certo è che la sua importanza non sfuggì ad un sovrano lungimirante come Pietro Leopoldo, che si prodigò nella sua buona riuscita, affidando nel 1768 il progetto all’architetto militare Innocenzo Fazzi di Portoferraio. Nel cantiere, attenzione fu data anche al lato meramente estetico commissionando cicli di affreschi all’artista Giuseppe Maria Terreni, e nel 1773 si decise di collocare al suo interno anche un’effige marmorea del sovrano. L’architetto Fazzi presentò al governatore di Livorno e al granduca Pietro Leopoldo il disegno della nicchia che avrebbe ospitato il monumento e anche “un delineamento in lapis” della statua che uno scultore selezionato tramite un concorso artistico avrebbe dovuto tradurre in marmo.
Attraverso degli intermediari, presero parte al concorso tre artisti: il giovane scultore belga Gilles-Lambert Godecharle (Bruxelles, 1750 – 1835), “sussidiato dalla munificenza di S.A.R. il Duca Carlo di Lorena, Governatore della Fiandra austriaca”, grazie a cui esercitava nell’Accademia di Scultura di Carrara e giunto in Italia “per eseguire in marmo una statua per la reale Corte di Francia”; l’abate Giovanni Antonio Cybei (Carrara, 1706 – 1784), primo direttore dell’Accademia delle Belle Arti di Carrara, dal 1769 fino alla morte; e Domenico Andrea Pelliccia, appartenente a una conosciuta famiglia di artisti carraresi, ma dalla biografia oggi ancora lacunosa. I tre artisti fecero pervenire a Livorno i loro modelli che, recapitati in casse, vennero ispezionati dal Fazzi. L’opera di Godecharle, scultore neoclassico che in futuro avrebbe ottenuto prestigiose commissioni perfino da Napoleone, venne rigettata poiché il belga non si attenne alla commissione, realizzando un’opera vistosa e brillante, ma giudicata caricaturale in alcune parti. Il modello di Cybei, che già aveva lavorato a Livorno nella chiesa di San Ferdinando al seguito di Giovanni Baratta e a Montenero, venne anch’esso scartato. A trionfare fu invece il modello di Domenico Andrea Pelliccia, che seppe più dei rivali attenersi al disegno di Fazzi. Oltre alle ragioni artistiche, concorsero probabilmente anche motivazioni economiche: Pelliccia presentò infatti un preventivo decisamente più conveniente rispetto ai concorrenti.
Con qualche ritardo l’opera realizzata da Pelliccia arrivò tramite imbarcazione a Livorno, dove ricorrendo al lavoro degli schiavi residenti nel Bagno dei Forzati, venne infine issata nella sua nicchia nel 1776. Qui, all’interno degli spazi del lazzeretto rimase per oltre un secolo fino a quando la struttura non mutò funzioni, per ospitare in seguito la neonata Accademia Navale. Nel XIX secolo, la statua e la sua nicchia vennero ricollocate nella piazza di San Jacopo dove sono tutt’oggi.
Purtroppo, l’opera collocata a pochi passi dal mare è esposta alle intemperie e all’incessante logorio del salmastro, provocando una situazione di forte degrado che ne pregiudica la lettura. Fortunatamente, il provvidenziale operato di benemeriti cittadini costituiti nel comitato “Il gioiello dimenticato” ha raccolto tramite sottoscrizione circa 20.000 euro per sostenere le spese di restauro. Così l’importante cantiere che si è concluso nei primi mesi del 2021 ha riportato la statua e il suo complesso a un discreto livello di lettura grazie a un certosino lavoro di pulitura che ha rimosso le incrostazioni saline e le stuccature dei precedente interventi, e ha integrato le numerose lacune che ne compromettevano la componente figurativa.
Il restauro è stato accompagnato anche da una snella pubblicazione, La statua di Pietro Leopoldo a Livorno - Il significato di un restauro, promosso dalla Fondazione Livorno e curato da Stefania Fraddanni con i saggi di Lucia Niccolini, della restauratrice Irene Giovacchini e un contributo dell’autore di questo articolo. Con questo strumento è stato posto un primo tassello al processo di riscoperta di questa importante opera e del suo autore, Domenico Andrea Pelliccia, di cui fino a questo momento gli studi erano stati assolutamente parchi, se si escludono alcune rare pagine scritte dalla studiosa Roberta Roani con alcune attribuzioni al carrarese. Nel volume sono state anche raccolte alcune felici intuizioni di Andrea Fusani, massimo esperto di Antonio Cybei, per la cui mostra ha curato anche l’appendice dedicata proprio a Domenico Andrea Pelliccia, di cui sono stati esposti alcuni busti attribuitagli riportandolo nell’alveo di Cybei, con cui forse Pelliccia si formò o collaborò in diversi contesti e di cui non fu unicamente un antagonista nel concorso livornese. Nella mostra di Carrara furono inoltre esposte due opere in terracotta che probabilmente hanno una diretta relazione con il monumento livornese: una figura intera e un busto, entrambe raffiguranti il granduca Pietro Leopoldo che si conservano nella Certosa di Calci, nei pressi di Pisa.
Fu Roberta Roani a individuare le due opere, attribuendole a Pelliccia, pur scartando l’ipotesi che la figura intera del sovrano potesse essere il bozzetto del monumento livornese, di cui differisce in parte nella posa e nella scelta delle vesti. A Fusani si deve invece l’intuizione che il busto in terracotta potesse essere il saggio offerto da Pelliccia arrivato a Livorno per riparare il busto recapito rotto all’architetto Fazzi, mentre per la piccola terracotta a figura intera lo studioso ha preferito proporre l’attribuzione al belga Godecharle.
Riconsegnato a una propria dignità, oggi il monumento del granduca può essere nuovamente apprezzato nella sua ritrovata leggibilità grazie alla quale è possibile ammirare il trattamento virtuosistico riservato alle vesti del sovrano da parte dell’artista. Proprio nelle vesti si cela una delle peculiarità della scultura: contrariamente alle soluzioni che si prediligevano nella ritrattistica pittorica e numismatica del granduca, dove è eternato con abiti che lo qualificano come sovrano o condottiero, sfoggiando con gran risalto il Toson d’Oro, simbolo dell’antichissimo ordine cavalleresco, nella statua livornese Pietro Leopoldo è abbigliato da Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano, riconoscibile dalla croce a otto punte istoriata sul petto.
Si tratta di un ente dinastico territoriale di diritto pontificio, fondato dal granduca Cosimo I de’ Medici e approvato nel 1561 con bolla Pontificia dal papa Pio IV. Un ordine “di corona”, il cui magistero spetta al Granduca di Toscana e che a lungo assunse la funzione di marina militare toscana, con impegni nella lotta alla pirateria. La soluzione di rappresentare il Granduca in tal guisa doveva perciò rispondere a criteri funzionali.
Senz’altro, sia l’artista che realizzò la scultura, che i committenti dovevano aver ben in mente l’altro monumento granducale presente a Livorno, il celebre complesso scultoreo dei Quattro Mori. Qui, Ferdinando I celebra il suo governo e il suo impegno nella lotta alla pirateria che flagellava le coste toscane, facendosi effigiare da Giovanni Bandini proprio con la veste del Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano, sfoggiando sul petto la croce. La collocazione stessa sulla vecchia darsena rispondeva alla necessità di ostensione del potere granducale e di celebrazione di tali successi, in un luogo particolarmente strategico, poiché interessato dal continuo via vai di avventori, mercanti e marinai di tutte le nazionalità.
La statua di Pietro Leopoldo, si pone in continuità con il monumento dei Quattro Mori: sia perché in entrambi si opta per rappresentare il sovrano in qualità di comandante dell’Ordine, sia perché si decide di farlo con collocazioni nei pressi del mare, dove tale Ordine trovava la sua ragione primaria di attività, inoltre si sceglievano punti interessati da traffici commerciali e portuali e quindi attraversati da frequentatori italiani e internazionali. Pietro Leopoldo si fa eternare in un luogo di passaggio, ma anche di sosta, dove infatti alcuni viaggiatori erano costretti a passare molto tempo per sottostare alle normative igieniche e le procedure di quarantena, e dove avrebbero potuto ammirare tutta la grande munificenza del granduca, che aveva permesso la costruzione di un luogo simbolo di grande progresso come il lazzeretto, dotato di norme igieniche avanzate, di comfort e di una non minore attenzione al lato estetico. Per lo stesso motivo si era deciso di intitolare tale costruzione a san Leopoldo, omonimo del granduca.
Ma forse insistevano anche altre motivazioni: forse la statua doveva celebrare anche qualche avvenimento particolare, oltre l’erezione del lazzeretto. Non è ben chiaro, infatti, se la scultura del granduca stringa con la mano destra il bastone del comando, oppure una pergamena, proprio come nella statua di Ferdinando I. Se si trattasse di quest’ultima, potrebbe forse avere a che fare con la riforma dell’Ordine di Santo Stefano portata avanti proprio in quegli anni da Pietro Leopoldo, a partire dal motuproprio del 20 agosto 1775, per trasformare l’Ordine esautorato dalla sua funzione militare, in un’istituzione per la formazione della classe dirigente. E forse il monumento di San Jacopo rispondeva proprio in quest’ottica a valorizzare le nuove politiche del sovrano.
Del resto a Livorno, il governo granducale aveva da sempre legato i suoi interessi di propaganda al magistero dell’Ordine di Santo Stefano, tanto strategico nella sua politica. Ne è un’ulteriore dimostrazione il disegno ottocentesco conservato nella Biblioteca Labronica dello scultore Paolo Emilio Demi raffigurante il monumento in onore del granduca Leopoldo II da ergersi in Piazza della Repubblica, poi realizzato in forma diversa, in cui il sovrano è vestito proprio con l’abito di Gran Maestro dell’Ordine, come i suoi predecessori Ferdinando I e Pietro Leopoldo.
L'autore di questo articolo: Jacopo Suggi
Nato a Livorno nel 1989, dopo gli studi in storia dell'arte prima a Pisa e poi a Bologna ho avuto svariate esperienze in musei e mostre, dall'arte contemporanea, alle grandi tele di Fattori, passando per le stampe giapponesi e toccando fossili e minerali, cercando sempre la maniera migliore di comunicare il nostro straordinario patrimonio.