C’è stato un momento della storia d’Italia in cui fare l’albero di Natale era usanza guardata con sospetto: erano gli anni Trenta, e il fascismo si preoccupò di disincentivare quella ch’è oggi forse la più amata decorazione natalizia, per il fatto che si tratta d’un costume importato dai paesi nordici. Così, nell’autunno del 1933, i prefetti inviarono circolari ai podestà (i sindaci, come si chiamarono durante l’epoca del regime) per chiedere alle amministrazioni locali di “interessarsi affinché in occasione delle prossime feste natalizie e della Befana enti ed istituzioni benefiche cittadine non adoperino alberi per adornare sale o per appendervi giocattoli, pacchi ecc.” (così una circolare della prefettura di Parma del 25 novembre 1933): “Com’è noto”, si spiegava, “il Fascismo è contrario all’Albero di Natale perché derivato da una usanza nordica, introdotta nel nostro paese per un male inteso spirito di imitazione, sostituendolo al ‘Presepio’ che rappresenta invece una tipica tradizione italiana”. Disincentivare l’albero di Natale, favorire la diffusione del presepe: il fascismo interveniva così anche sulle decorazioni natalizie. Ed è in questo contesto che nasce uno dei presepi più interessanti del tempo, il Presepe umbro di Enrico Cagianelli (Perugia, 1886 – Gubbio, 1938), opera che venne presentata nel 1934 all’Esposizione Internazionale di Arte Sacra di Roma dove fu premiato con medaglia d’oro e 1500 Lire, e di cui oggi il Centro Cagianelli per il ‘900 di Pisa conserva alcune statue ed esemplari della tiratura dei calchi originali realizzati tra gli anni Cinquanta e Sessanta nella bottega del ceramista eugubino Leo Grilli, oltre che diverso materiale documentario.
La mostra del 1934 era la seconda edizione d’una manifestazione che si poneva l’obiettivo di far rifiorire l’arte sacra in Italia e, al contempo, di mettere sotto i riflettori i piccoli centri d’artigianato italiani: la mostra aveva anche una sezione, posta sotto l’egida dell’ENAPI, l’Ente Nazionale per l’Artigianato e le Piccole Industrie, istituito nel 1925 con lo scopo di incoraggiare la piccola industria e l’artigianato. La prima edizione s’era tenuta a Padova l’anno prima, e l’edizione romana era stata organizzata nelle sale di quella ch’è oggi la Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Si trattava d’un evento particolarmente sentito, e vi presero parte diversi tra i più grandi artisti del tempo: basterà pensare che in quella edizione venne presentato un capolavoro di Adolfo Wildt quale il Pio XI, ma scorrendo il catalogo dei partecipanti è possibile trovarvi i nomi di Felice Carena, Ardengo Soffici, Pietro Gaudenzi e altri, artisti legati soprattutto a soggetti tradizionali ma comunque in contatto con le avanguardie del loro tempo, tanto che un critico che recensì la mostra su Emporium, Renato Pacini, poteva lamentare che “per molti la voluta deformazione è ancora l’ideale dell’ispirazione, e questo concetto che può essere più o meno fallace nel campo dell’arte profana è addirittura deleterio nel campo dell’arte sacra […]. Se oggi la tendenza moderna è di allontanarsi dalle forme tradizionalistiche per un’arte che sia carattere del nostro tempo, non credo si possa nel limite dell’arte sacra risolvere il problema dipingendo futuristicamente dei santi e delle Madonne, portando cioè a valore d’arte quello che è moda e che magari può essere arte – non secondo il mio concetto – in un campo assolutamente diverso da quello delle immagini innanzi a cui si deve volgere l’animo a Dio”. Fortunatamente per Cagianelli, la giuria della mostra, composta da sei artisti, ovvero Baccio Maria Bacci, Eugenio Baroni, Ferruccio Ferrazzi, Pietro Gaudenzi, Giovanni Guerrini e Attilio Selva, aveva vedute più ampie rispetto a quelle di Pacini e non ebbe problemi a premiare un’opera, come il Presepe umbro dello scultore perugino, che s’apriva a più fonti, antiche e contemporanee.
Lo stesso Cagianelli, del resto, era artista difficile da includere in una categoria. Ne avevano contezza persino i suoi contemporanei. Così ne parlava Gerardo Dottori: “Futurista? Passatista? Non si può con precisione classificarlo. Se lo si tentasse si avrebbero delle strane sorprese. Certo, come ha detto di lui Marinetti, è uno scultore-nato che possiede una indiscutibile personalità. È vario, indisciplinato, volubile nella sua arte. Si lascia portare alla deriva dalla corrente calma o impetuosa delle sue sensazioni. Non si è mai preoccupato di cercare la sua strada. Scorazza nei campi, scamiciato, inebriandosi della sua libertà”. Un artista libero, insomma. Come libero è il Presepe umbro con cui si presentò alla sezione ENAPI della Mostra d’Arte Sacra del 1934: l’ente aveva infatti organizzato, all’interno della sua sezione, tre concorsi destinati all’artigianato italiano, e riservati agli organi di piccole chiese, alle rilegature di libri sacri e, appunto, ai presepi. L’idea alla base della sezione organizzata dall’ente era quella di promuovere “nuove forme stilistiche pur rispettando la tradizione e i canoni liturgici”, come si legge sulle pagine di una rivista del tempo, Artista moderno, che attestava anche il successo di quell’esposizione, dacché s’era dimostrato che la produzione di presepi artigianali non era esclusivo appannaggio dei centri tradizionali come Napoli, l’Alto Adige o Lecce, ma si stava diffondendo negli atelier di tutto il paese. Cagianelli era tra i trenta partecipanti alla mostra, anche se soltanto otto presepi vennero ammessi a esporre nelle sale della Reale Galleria: il suo, e quelli del gardenese Vinzenz Peristi, del bolognese Arrigo Righini, del fiorentino Dante Sernesi e del romano Cavallari. Un’altra rivista, Illustrazione Toscana e dell’Etruria, dà conto d’un nome che curiosamente non compare nel resoconto di Artista moderno, quello della bolzanina Maria Delago, scultrice peraltro molto prolifica.
Cagianelli si presentò alla mostra con un presepe che guardava alla statuaria medievale, soprattutto all’arte romanica per la quale si nutriva forte interesse all’epoca (e non soltanto in ambito nazionale), ma s’apriva anche a suggestioni tratte dalle avanguardie, secondo una diversità d’indirizzi che riflette anche i molteplici interessi dello scultore umbro, capace di guardare al futurismo e al cubismo così come alla tradizione storico-artistica delle sue terre. Lo sguardo rivolto verso l’arte medievale non era, ovviamente, frutto di accondiscendenza verso i desiderata dei critici di regime, tutt’altro: Francesca Cagianelli, discendente dell’artista e sua studiosa, ha rilevato come il Presepe e, in generale, le opere che l’artista realizzava all’epoca s’inserivano pienamente in un contesto figurativo europeo sostanziato da un’accentuata vena primitivista che rese possibili esperienze come quelle di Émile-Antoine Bourdelle e Ivan Meštrović, cui si potrebbero aggiungere nomi come quelli di Aristide Maillol, Jacob Epstein, oppure anche il Jacques Lipchitz degli anni Trenta. Nei personaggi del presepe, realizzati originariamente in pietra bianca del Furlo, una scaglia bianco-rosa estratta nelle Marche, lo scultore perugino, ha scritto Francesca Cagianelli nella monografia dedicata a Enrico, ripropone, in una “cornice forse meno popolaresca anche in virtù dei materiali prescelti”, il “paradigma linguistico esemplificato dalla cadenza drammatica delle varie stazioni della Via Crucis realizzate tra il 1934 e il 1936 per la chiesa di Sant’Agata di Perugia, ripercorse sull’onda del linguaggio due-trecentesco, mai come in quest’occasione rivissuto in rapporto alla spiritualità del suo contenuto religioso”.
Una delle particolarità del Presepe umbro di Cagianelli sono i personaggi che accompagnano la Sacra Famiglia: sono queste le statuine in cui l’artista sperimenta di più, cimentandosi con la rappresentazione degli umili, dei lavoratori della terra che poteva eventualmente studiare anche dal vero nell’Umbria di quegli anni. Alcuni personaggi, come i pastori che s’avvicinano appoggiati ai bastoni o col carico di fascine sulle spalle, si possono inserire nel solco delle esperienze espressioniste contemporanee, e un personaggio come il Suonatore di fisarmonica del 1930 (la genesi del Presepe umbro risale infatti a qualche tempo prima del 1934), rileva Francesca Cagianelli, può esser considerato una “sorta di rilettura […] dei suonatori in terracotta di Jean e Joel Martel, anche se con l’aggiunta di un fremito coloristico e di una sensibilità artigiana che rivelano la spiritualità umbra”. La tendenza alla scomposizione in forme (la si osserva soprattutto negli angeli e in certi pastori dalle posture del tutto innaturali) è invece evidente riflesso degl’interessi di Cagianelli per il linguaggio cubista, a cui la sua arte s’era già da tempo accostata. Più tradizionali, invece, le raffigurazioni dei personaggi principali, dalla Sacra Famiglia ai re magi che invece mostrano legami più stretti con la statuaria romanica, palesando un certo debito nei riguardi della scultura lignea duecentesca dell’Umbria.
Lo storico dell’arte Enzo Storelli, citato nella monografia di Francesca Cagianelli, evidenziò che il Presepe ebbe un certo successo: dopo la mostra venne esposto a Gubbio, ne furono tratti calchi nella bottega del ceramista Leo Grilli, e ispirandosi all’opera di Enrico Cagianelli nel 1938 lo scultore e ceramista Bruno Arzilli e il pittore Alessandro Bruschetti, che assieme a Gerardo Dottori si potrebbero considerare due punte di diamante dell’arte umbra dell’epoca, realizzarono un presepe simile per la parrocchiale di Monte Petrisco, vicino a Perugia. “Come molti scultori della sua epoca”, avrebbe detto Storelli, “[Cagianelli] dà molto di sé, del suo talento in opere di piccola e media dimensione – in cui esprime un arcaismo contenuto e contemplativo”. Per vedere il Presepe di Enrico Cagianelli, oggi ci si può recare al Centro Cagianelli per il ‘900 di Pisa, dove sono esposti tre personaggi in gesso del 1929-1930 (il Suonatore di fisarmonica, il Portatore di legna e il Pastore) oltre ad alcuni esemplari della tiratura dei calchi originali.
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