È l’alba d’un mattino sereno nelle campagne attorno a Firenze, e nella calma che avvolge le colline attorno alla città, un pittore si ferma davanti a un piccolo rivo solitario per fissare velocemente la scena che vede davanti a sé: una coppia di mucche, una bianca e una scura, che s’avvicinano guardinghe all’acqua per abbeverarsi. L’artista è un livornese di trentaquattro anni, Serafino De Tivoli, e da quella passeggiata nella campagna fiorentina nascerà una delle opere che la critica ha sempre situato alle origini della pittura macchiaiola: nota come Un pascolo o Una pastura, viene dipinta dall’artista nel suo studio nel 1859, e oggi la si ammira alla Galleria d’Arte Moderna di Firenze.
All’epoca in cui De Tivoli dipinse le sue mucche al pascolo, era un habitué del Caffè Michelangelo di Firenze, il bar dove un gruppo di giovani artisti si ritrovava da qualche anno con l’intento di sovvertire le sorti della pittura: tra di loro c’erano Cristiano Banti, Odoardo Borrani, Adriano Cecioni, Raffaello Sernesi, Telemaco Signorini, e più tardi di sarebbero aggiunti altri come Giovanni Fattori, oppure pittori che venivano da fuori Toscana, come il veneto Vincenzo Cabianca o il campano Giuseppe Abbati. Alcuni s’erano appassionati al tema della pittura di storia, e volevano cambiare radicalmente l’arte celebrativa o aneddotica dell’accademia. Altri invece, come De Tivoli, s’erano dimostrati sensibili alla novità della pittura en plein air e, sull’esempio dei francesi di Barbizon, avevano cominciato a frequentare i boschi e le colline nei dintorni di Firenze in cerca d’ispirazione.
Era un qualcosa d’inedito per l’arte italiana. De Tivoli aveva studiato a Firenze assieme a suo fratello Felice seguendo le lezioni d’uno dei maggiori paesaggisti del tempo, l’ungherese Károly Markó che dal 1832 s’era trasferito in Italia (e non l’avrebbe più lasciata), e poi, nel 1853, proprio sul modello della Scuola di Barbizon, aveva contribuito a formare uno sparuto gruppo d’artisti che perlustravano in lungo e in largo le campagne senesi con l’intento di lasciarsi trascinare dal vero, per dipingere vedute prive di quei toni aulici, elegiaci, bucolici che ancora a metà Ottocento trasformavano ogni scorcio di paesaggio in una sorta d’idillio pastorale. De Tivoli, suo fratello Felice, e altri trentenni come loro, perlopiù amici e compagni di studi (erano Carlo Ademollo, Lorenzo Gelati, Francesco Saverio Altamura, Alessandro La Volpe, e i due figli di Károly Markó, ovvero Károly il Giovane e Andreas), avevano fondato quella che sarebbe passata alla storia come la “Scuola di Staggia”, dal nome del borgo dove facevano base per le loro sortite.
Forse non s’insiste mai abbastanza su quanto sia stata fondamentale la Scuola di Staggia per l’avvio dell’esperienza dei macchiaioli. Eppure, con tutta probabilità la pittura di macchia non sarebbe mai nata senza il vivifico impulso di Serafino De Tivoli e colleghi. Anche loro, nei primi anni Cinquanta, avrebbero raggiunto gli stessi risultati che Nino Costa, in via indipendente, otteneva in quello stesso periodo sul litorale laziale (lui stesso poi si sarebbe trasferito in Toscana a dialogare con loro e coi futuri macchiaioli), anche loro stavano riformando la pittura di paesaggio, anche loro debbono esser visti come pionieri italiani della veduta moderna. Tanti elementi hanno pesato sulla loro scarsa fortuna: il fatto che siano poco rappresentati nei musei, la dispersione delle loro opere nei mille rivoli del collezionismo, la brevissima durata della loro esperienza e il fatto che sia stata in qualche modo travolta dalle novità ancor più radicali dei macchiaioli. Eppure, il carattere innovativo della loro pittura rimane lì a testimoniare la portata tutt’altro che secondaria della loro attività, e il Pascolo di Serafino De Tivoli è uno dei prodotti che meglio lo possono dimostrare.
Un quadro ch’è “un poco più grande di un cristallo da finestra”, e che “consiste in un gruppetto d’alberi a sinistra di chi guarda: una collina forma l’orizzonte, un prato sul davanti, con due vacche a pascere”: a descriverlo così, nel 1884, è Adriano Cecioni, che definisce il Pascolo di Serafino De Tivoli un dipinto dal soggetto che “non poteva essere più semplice né più modestamente trattato” e che “rappresenta uno dei primi saggi d’un arte nascente”, opera d’un artista “dotato di buone qualità ma non eminenti”, eppure in grado di far sembrare quella veduta “un pezzo di vero visto dalla finestra piuttostochè dipinto sulla tela”. Cecioni non riconosceva a De Tivoli il carattere di profondo innovatore, ma lo riteneva comunque un validissimo artista, e soprattutto, affermando sicuro che quella pastura di vacche potrebbe esser tranquillamente un “pezzo di vero visto dalla finestra”, non poteva fare al collega livornese un complimento migliore. Perché era proprio questo il risultato che De Tivoli andava cercando: dipingere un paesaggio credibile, un paesaggio vero.
Ed è quello che osserviamo nel silenzio di questa campagna, sotto un cielo che comincia a esser schiarito dalle prime luci del sole, coi i toni rosati all’orizzonte che colorano ancora le nuvole ma cominciano a cedere sotto un’onda d’azzurro. Naturalmente De Tivoli non manca di rivelarsi per un pittore che, più o meno consapevolmente, anche nella ricerca d’un paesaggio vero non può non sottostare ad alcune regole di costruzione: ecco dunque gli alberi sulla sinistra che fanno da quinta e contribuiscono a inquadrare la scena, ecco le mucche che si prendono il centro esatto della composizione, l’elemento celeste e quello terrestre a occupare le due metà esatte della tela, le diagonali delle ombre che dialogano con le linee verticali delle piante e degli arbusti e con quelle orizzontali delle colline e del ruscello (e si noti la perfetta inquadratura che assumono le mucche entro questo schema equilibratissimo). Tutto c’induce a riflettere su quanto l’artista abbia ragionato per bilanciare correttamente e con eleganza la sua composizione. C’è ancora, ha scritto Francesca Dini, una “solennità antica” ad ammantare questo dipinto, eppure la novità si coglie ovunque, non soltanto nell’anima di questo paesaggio, ma financo in alcuni dettagli, a partire dallo stesso movimento degli animali, dacché l’artista, scrive ancora Dini, riesce a cogliere “con naturalezza il volgersi di uno di loro verso destra, disturbato forse da un rumore inatteso o dalla percezione della presenza del pittore poco distante”.
Uscire dallo studio e dipingere quel che si vede: questa la lezione che Serafino De Tivoli e la Scuola di Staggia vollero impartire ai pittori del tempo. Questo Pascolo non mancò di sollevare discussioni: venne esposto alla Promotrice Fiorentina del 1859, fu molto lodato, alimentò i dibattiti sulla nuova pittura di paesaggio. Non si parla probabilmente d’un capolavoro, anche perché De Tivoli non aveva fatto altro che portare in Italia suggestioni francesi, dipingendo una veduta non dissimile rispetto a quella di Constant Troyon o di Rosa Bonheur, tutt’al più immersa nella luce calda della campagna toscana. Era però una novità, e avrebbe aperto la strada alle ricerche dei macchiaioli, che di Serafino De Tivoli apprezzavano il colorito sobrio, le invenzioni semplici, la felicità d’esecuzione. Lo stesso Costa riconosceva a De Tivoli il merito d’aver diffuso in Toscana le idee francesi. Signorini, che in quello stesso 1859 sperimentava per la prima volta la nuova pittura, lo considerava il padre della macchia. E gli veniva poi riconosciuta una passione sconfinata, come avrebbe scritto anche Cecioni: e allora De Tivoli non si segnalò forse “per tendenze speciali accentuate”, ma di sicuro ebbe a distinguersi “per avere amato l’arte sinceramente”.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).