Nel 1919, un Giorgio De Chirico trentunenne pubblicava su Valori Plastici un ferocissimo resoconto d’una sua visita a quella che è oggi la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Per il giovane pittore si trattò probabilmente d’un’esperienza angosciante e masochistica, una sorta di viaggio in una galleria degli orrori (o meglio: una “bolgia dell’imbecillità pittorica”, per adoperar la sua espressione) il cui solo ricordo gli procurava ancora spasmi gastroenterici, almeno a giudicare dagli stimoli fisici che dichiarava di dover reprimere nel metter mano all’articolo. Certo, il giudizio di De Chirico, e specialmente del polemico, suscettibile e volubile De Chirico che scriveva all’epoca su Valori Plastici, è da prender con tutte le dovute cautele, ma è comunque interessante scorrere rapidamente quell’articolo per comprendere i suoi orientamenti a quel tempo e, se si è amanti del genere, per divertirsi a leggere le sonore, brutali frustate, spesso pure gratuite, che l’artista riservava ai suoi colleghi.
Ecco dunque che Le tre età della donna di Klimt sono un “parto satanico” visto nella sala dei “cialtroni forestieri”, un “pelago delle oscenità” colmo di opere di “cretini francesi, inglesi, tedeschi, russi o americani”. L’Oreste di Franz von Stuck “fa pensare a qualche réclame per pneumatici Pirelli”. Ignacio Zuloaga è uno spagnolo “falso e cattivo”. Tra gli italiani, bastonate sonore a pittori come Vittorio Corcos, Giulio Bargellini, Stefano Ussi. Ma c’era anche chi si salvava dalle violente sferzate: Fattori per esempio, o Camuccini, ma anche artisti oggi per lo più dimenticati, per esempio Pietro Gagliardi, pittore accademico di soggetti sacri, o Armando Spadini, una specie di Renoir italiano molto attardato che pure De Chirico, appena un anno prima, aveva definito “un impressionista fesso, di quelli proprio scadenti e inutili”. Ad ogni modo, tra i pochi dipinti che si salvano dal bombardamento dechirichiano figura uno dei testi fondanti del paesaggio italiano moderno: è un quadro di Nino Costa, Donne che imbarcano legna nel porto di Anzio.
Nino Costa, Donne che imbarcano legna nel porto di Anzio (1852; olio su tela, 73 x 147 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, inv. 1232) |
“Bellissimo”, per De Chirico: “composizione pregna di soavissima poesia , mantenuta sopra una tonalità grigia d’una morbidezza indefinibile; il terreno dipinto con sapienza di geologo; le donne atteggiate in belle pose classiche”. E con un’ulteriore nota magistrale nella “barca ormeggiata e circondata dall’acque più chiare presso il lido”. Si tratta d’una dell’opere più note dell’artista romano, la più importante della fase giovanile della sua carriera: la dipinse che aveva appena ventisei anni, dopo aver compiuto diversi studî dal vero sul litorale romano.
Dal 1849, Nino Costa risiedeva a Tivoli, dove, volendo seguire ciò che lui stesso racconta, aveva preso a frequentare una cospicua compagnia di pittori, tutti all’incirca suoi coetanei. Nomi oggi che ai più dicon pochissimo: Enrico Gamba, Raffaele Casnedi, Alessandro Castellani e altri. Ci son buone probabilità che nello stesso periodo Costa abbia conosciuto anche Arnold Böcklin, che s’era trasferito a Roma nel 1850 e che sarebbe poi diventato suo amico. E poi ancora gl’inglesi, come Frederic Leighton, George Howard, Charles Coleman, l’americano Elihu Vedder. Da quest’incontri Costa sviluppò quella sensibilità che l’avrebbe poi portato a diventare il padre italiano del paysage-état de l’âme: una sensibilità che s’apprezza in nuce già in questo dipinto, a metà tra lo studio del naturale (e Costa da sempre coltivò una forte passione per il naturale, oltre che per la natura) e la suggestione classica e mitologica, con evidenti richiami al repertorio antico e con la mediazione del sentimento dell’artista, autonomo e finalmente libero di recarsi per campi e boschi, per citare John Ruskin, alla cui conoscenza Costa fu sicuramente introdotto in quell’ambiente così gravido d’idee nuove.
Il mare di Anzio, argenteo, calmo nella bonaccia, s’estende oltre una duna punteggiata qua e là da qualche arbusto tipico della macchia e dalla quale, al centro, spunta un teschio di bufalo, nascosto per metà nella sabbia, nota di bianco tra i toni terrosi dell’arenile, e rimando ai bucranî delle decorazioni antiche. Sulla destra, riposano alcune caprette sonnacchiose. Al centro, la barca ormeggiata che tanto piaceva a De Chirico. Sulla sinistra, i protagonisti: tre donne che raccolgono la legna portata dal mare e un uomo che le aiuta nell’ingrato compito. Una di loro s’è un attimo seduta sulla duna per togliersi qualcosa dalle scarpe, citazione dello Spinario capitolino, mentre le altre procedono a testa bassa, appesantite dalle fascine che tengono sollevate sopra il capo. Le stanno portando verso l’imbarcazione poco distante dalla riva. Il ragazzo, dietro di loro, si fa carico d’un tronco più pesante, e le osserva quasi trasognato, sotto un cielo grigio d’intenso effetto atmosferico.
“Andai a Porto d’Anzio”, avrebbe ricordato più tardi Nino Costa, “dove feci il bozzetto del quadro che tuttora conservo della ‘manaide’, che sta nel centro di questo quadro. Dopo una nottata piovosa, alla mattina, mentre si apriva il cielo, vidi delle donne che avevano sulla testa strani fardelli, che poi conobbi essere radiche di alberi, delle quali caricavano una barca. Ne ebbi una grande impressione; e principiai il quadro che fu compiuto nel 1852”. L’artista, nei suoi scritti, indicava le Donne che imbarcano legna nel porto di Anzio come dipinto esemplificativo della sua pratica, che consisteva nel fare prima un “bozzetto di impressione” dal vero, che fosse il più rapido possibile, e sempre dal vero fare al contempo studî di particolari. E infine definire la composizione nello studio, senza mai togliere gli occhi “dall’eterno bozzetto, lo chiamo ‘eterno’ perché ispirato dall’eterno vero”. L’“eterno vero”, dunque, da contrapporre alle narrazioni, pur realistiche ma non “vere”, della pittura di storia: i propositi di Costa, per l’Italia, erano un fatto nuovo, originalissimo, desunto dall’esperienze d’Oltralpe di Corot, ma aggiornato secondo le suggestioni sentimentaliste provenienti dall’Inghilterra. Le donne di Anzio sono tra i primi soggetti umili e tratti dal vero che popolano la pittura italiana dell’Ottocento, e allo studio dal vero s’aggiungeva la lettura che il sentimento suggeriva al pittore: per l’arte italiana del tempo era un proposito inedito, che Costa avrebbe poi ripreso con convinzione e con approccio ancor più moderno negli anni Settanta, decennio cui risalgono alcuni dei suoi più importanti “paesaggi stati d’animo”.
Non è un caso se Costa fu sempre molto legato a questo dipinto. Lo tenne a lungo nel suo studio, lo espose in diverse mostre, lo portò nel 1863 al Salon di Parigi, e fu solo nel 1903, dopo la sua scomparsa, che fu venduto, dopo una sua esposizione alla Biennale di Venezia di quell’anno. Lo stesso Nino Costa raccontava che Giovanni Fattori, visitando lo studio del collega romano e avendo ammirato le Donne che imbarcano legna nel porto di Anzio, ne rimase impressionato. L’esperienza di Costa, compreso più in Toscana che nella Roma natia, fu del resto fondamentale per i macchiaioli: la studiosa Silvestra Bietoletti scrive che questo dipinto è l’esempio d’un “modo assolutamente originale di rendere pittoricamente il variare delle tonalità luministiche e cromatiche di un paesaggio nella luce del sole, infondendovi il tono pacato e solenne del classicismo”. E fu tra le opere che sollevarono l’interesse sperimentale dei toscani per una pittura che “trascuvava il contenuto a favore della resa formale”. E pensare che quelle donne, così gravate dal loro carico di legname, non s’erano neppure accorte che stavano scrivendo uno dei capitoli fondamentali della storia dell’arte italiana.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).