L’opera di cui parliamo in questo articolo si può ammirare alla mostra Blake e la sua epoca. Viaggi nel tempo del sogno, a cura di Alice Insley, alla Reggia di Venaria Reale, Torino, fino al 2 febbraio 2025. Per maggiori info leggi qui.
“Eccolo che arriva! Con la sua lingua impaziente che gli esce dalla bocca, una coppa in mano per contenere il sangue, e coperto da una pelle squamosa d’oro e di verde”: è così che William Blake (Londra, 1757 – 1827) avrebbe descritto uno dei personaggi più noti del suo repertorio artistico, Il fantasma di una pulce, protagonista d’una sua celebre miniatura realizzata verso il 1819-1820. Così, almeno, ne parlava stando al racconto di John Varley (Hackney, 1778 – Londra, 1842), astrologo, pittore, amico di Blake per il quale l’artista londinese aveva dipinto una serie di Teste visionarie che, secondo Varley, erano frutto di visioni dirette da parte dell’artista, nel senso che il giovane pittore era veramente convinto che questi personaggi si palesassero dinnanzi a Blake, ispirando la sua arte.
Varley e Blake si erano incontrati per la prima volta nel 1818, e subito il giovane era rimasto affascinato dalla personalità del collega: pare che avesse confidato a Blake di essere fermamente convinto che i fantasmi esistano, ma di essere insoddisfatto dal fatto che non riuscisse a vederli. Blake, a quel tempo, sosteneva di aver avuto delle visioni paranormali, e per questa ragione Varley fu immediatamente interessato ai suoi racconti. Non passò molto tempo perché i due cominciassero a organizzare sedute spiritiche, improvvisate in notturna, a casa di Varley. Era proprio durante queste “sedute” che Blake dava forma alle proprie Teste visionarie, e in un’occasione il pittore londinese avrebbe avuto la visione del fantasma di una pulce, apparizione che gli avrebbe provocato molta più eccitazione del solito, poiché la riteneva un qualcosa di meraviglioso. La prima volta che ebbe questa visione, racconta Varley, Blake non riuscì a raffigurare il fantasma, ma la volta successiva non si lasciò trovare impreparato. Così Varley parlò di quella serata: “Poiché ero ansioso di fare l’indagine più accurata che potessi sulla verità di queste visioni, la prima volta che ho sentito parlare di questa apparizione spirituale di una pulce, gli ho chiesto se poteva disegnare per me un’immagine di ciò che aveva visto. E lui ha detto immediatamente: ‘Lo vedo ora davanti a me’. Gli ho quindi dato carta e una matita con cui ha disegnato il ritratto... Mi sono sentito convinto dal suo modo di procedere: mi sembrava che avesse un’immagine reale davanti a sé, perché a un certo punto smise di fare quello che stava facendo, dopodiché cominciò, su un’altra parte del foglio, a fare un disegno separato della bocca della pulce, bocca che il fantasma aveva aperto, circostanza che gli impediva di procedere con il primo schizzo... finché non la chiuse”.
È probabile che il disegno menzionato da Varley sia un foglio, disegnato a matita e oggi conservato alla Tate di Londra, dove si vede una testa mostruosa e, separata, una bocca che pare quella di un rettile, molto pronunciata e allungata, con i denti appuntiti e una lingua molto lunga: ricorda quella dello xenomorfo di Alien, volendo trovare un paragone contemporaneo (non peregrino, dal momento che è nota l’influenza dell’immaginario di William Blake sul cinema di Ridley Scott). Il dipinto, una tempera su tavoletta di mogano anch’essa conservata alla Tate, raffigura invece il fantasma a figura intera: è uno spirito antropomorfo, dal corpo nerboruto (i fasci muscolari appaiono in tutta la loro evidenza), raffigurato mentre avanza stringendo nella mano destra una cesta. Il volto mostruoso è fermo sopra a un collo taurino: sopra alle orecchie spuntano delle ali, gli occhi sono grandi e sgranati, la testa tonda, piccola rispetto al resto del corpo, e contorta in una smorfia d’ira, con una lunghissima lingua che gli esce dalla bocca e che si avvicina verso il contenuto del recipiente, ovvero il sangue del quale la pulce si nutre, secondo il racconto dello stesso Blake. La pelle, scura, si presenta squamosa, il fantasma ha due trecce che ricadono sul collo, e le mani terminano con lunghe dita, simili ad artigli. Il fantasma della pulce incede su di una specie di palco, con tanto di sipario aperto sopra una scenografia stellata (non sappiamo perché ci siano queste stelle, inclusa una cometa: forse, Blake volle omaggiare così gli interessi astrologici dell’amico).
Perché Blake era entusiasta dinnanzi alla visione del fantasma di una pulce? Quasi tutto quello che sappiamo su questa fascinazione, vera o presunta che fosse, lo dobbiamo a quanto riportato dallo stesso Varley. Occorre dunque considerare il particolare status che l’artista, secondo l’amico, attribuiva al minuscolo parassita. Secondo Blake, le pulci erano possedute dalle anime degli uomini morti che, in vita, erano stati smodatamente assetati di sangue. Lo studioso Gerald Bentley, in un suo libro su Blake, riporta tuttavia un’altra fonte, anonima, che riporterebbe una discussione alla quale avrebbe partecipato lo stesso Blake, il quale avrebbe raccontato una leggenda per cui la pulce, quando venne creata, si lamentò delle proprie dimensioni: “All’inizio sarei dovuta essere grande come un bue”, disse la pulce, “ma poi, quando ci si accorse che ero così armata e così forte che, in proporzione alla mia mole, sarei stata una distruttrice troppo potente, venne deciso di non farmi più grande di quella che sono”.
La questione interessante è: Blake aveva davvero le visioni che diceva di avere? È probabile, ha scritto la studiosa Alice Insley, che “Blake stava illudendo il suo giovane amico con apparizioni immaginarie”. Va detto comunque che il biografo Alexander Gilchrist riporta di una visione di un fantasma (descritto come una figura “orribile e sinistra, squamosa, maculata, molto spaventosa”), che Blake avrebbe avuto nel 1790, quindi molto prima di conoscere Varley. Di sicuro, Il fantasma della pulce non può essere frutto di mera immaginazione visionaria: è probabile che Blake avesse ben presenti alcune precise fonti iconografiche che possono avergli suggerito il suo spirito della pulce. La studiosa Sibylle Erle, per esempio, ha messo in relazione questo lavoro di Blake con la Fisiognomica dell’uomo di Giovanni Battista della Porta e con i successivi studi fisiognomici di Charles Le Brun che, al pari di quelli dello scienziato napoletano, mettevano a confronto i connotati di alcuni tipi umani con i musi di diversi animali. Sono lavori che potrebbero aver impattato sulle analogie tra esseri umani e animali che, del resto, fanno parte del vocabolario di Blake. Forse con una precisa finalità, sostiene Erle: “Il motivo per cui ha dato voce alla pulce”, a suo avviso, “è che voleva far riflettere i fisionomisti e gli astrologi sulle conseguenze delle letture dei caratteri per l’identità di qualsiasi essere. La pulce di Blake, in altre parole, non può mai essere catturata. Resiste sia al suo creatore che ai suoi interpreti”.
Altre fonti potrebbero essere state L’incubo di Johann Heinrich Füssli, o ancora immagini di pipistrelli e vampiri come Il vampiro o lo spettro di Guiana che lo scrittore e militare olandese John Gabriel Stedam include nel suo libro The Narrative of a Five Years Expedition against the Revolted Negroes of Surinam, pubblicato a Londra nel 1796 (peraltro non è da escludere che, sulla descrizione della pulce come un’anima assetata di sangue, possa aver avuto un qualche effetto tutto l’immaginario folklorico legato ai vampiri: la letteratura sul vampirismo, all’epoca, era ai suoi albori). Non mancavano inoltre le raffigurazioni di pulci al microscopio, pubblicate fin dal Seicento: ne è un esempio quella inserita nella Micrographia di Robert Hooke del 1665 (il primo trattato della storia a illustrare oggetti osservati al microscopio: è qui, peraltro, che viene usato per la prima volta il termine “cellula”, anche se con un’accezione diversa rispetto a quella odierna).
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