Quando Donatello e Masaccio concordavano a Pisa la rivoluzione del Rinascimento


Il Museo Nazionale di San Matteo a Pisa è l’unico dove si possono vedere un’opera di Donatello e un’opera di Masaccio, ovvero il padre della scultura e il padre della pittura del Rinascimento: il busto reliquiario di san Rossore e il san Paolo. E a Pisa forse i due si confrontarono mettendo a punto la loro rivoluzione.

Il Museo Nazionale di San Matteo a Pisa detiene un primato tutto particolare: è l’unico museo al mondo dove, nello stesso edificio, è possibile vedere un’opera di Donatello e un’opera di Masaccio, ovvero del padre della scultura del Rinascimento e del padre della pittura del Rinascimento. Il Busto reliquiario di san Rossore di Donatello e il San Paolo di Masaccio sono conservati qui, dialogano a breve distanza l’uno dall’altro, offrono al pubblico la possibilità d’ammirare due dei primi prodotti del nuovo linguaggio che da Firenze si sarebbe diffuso in tutta Italia e in tutta Europa. Due opere profondamente legate a Pisa, dal momento che il santo di Masaccio è parte del polittico che l’artista dipinse nel 1426 per il notaio Giuliano di Colino degli Scarsi e ch’era destinato alla chiesa del Carmine di Pisa, mentre il busto reliquiario, pur essendo stato realizzato per una chiesa fiorentina, la chiesa di Ognissanti, doveva ospitare la reliquia d’un santo il cui culto è fortemente radicato a Pisa, e cioè san Lussorio: per i pisani, san Rossore.

Delle due, il Busto reliquiario di san Rossore è sicuramente l’opera meno nota, non foss’altro per il fatto che di Masaccio rimane meno rispetto a quanto ci è dato vedere di Donatello (anche perché Masaccio, scomparso a soli ventisette anni, non ebbe molte occasioni di dimostrare il proprio talento), e per il fatto che Donatello è celebre, almeno presso il grande pubblico, soprattutto per le sue opere monumentali. Il busto conservato al Museo Nazionale di San Matteo è però sicuramente uno dei suoi lavori più raffinati, opera in cui le fattezze del santo vengono delineate con un naturalismo sorprendente e acutissimo, che s’esprime soprattutto nell’espressione accigliata, negli occhi che guardano verso il basso (era stato infatti pensato per essere esposto in posizione elevata), nel movimento dei muscoli facciali, nelle pieghe delle vesti, nelle decorazioni della corazza, persino nelle ciocche dei capelli un po’ arruffati o nei baffi e nel pizzetto: più che un reliquiario pare un ritratto, certo idealizzato, ma animato da evidenti propositi di credibilità.

Donatello, Reliquiario di san Rossore (1422-1425 circa; bronzo dorato e argentato, 55 x 58 x 42 cm; Pisa, Museo Nazionale di San Matteo)
Donatello, Reliquiario di san Rossore (1422-1425 circa; bronzo dorato e argentato, 55 x 58 x 42 cm; Pisa, Museo Nazionale di San Matteo)
Masaccio, San Paolo, dal Polittico del Carmine (1426; tempera e foglia d’oro su tavola, 62 × 34,5 cm; Pisa, Museo Nazionale di San Matteo, inv. 1720)
Masaccio, San Paolo, dal Polittico del Carmine o Polittico di Pisa (1426; tempera e foglia d’oro su tavola, 62 × 34,5 cm; Pisa, Museo Nazionale di San Matteo, inv. 1720)

Gli era stato commissionato nel 1422 dai frati umiliati di Firenze, per la chiesa di Ognissanti: erano entrati in possesso di una reliquia che fino a quel momento era conservata proprio a Pisa, ovvero il cranio di san Lussorio, e desideravano un contenitore che potesse accogliere degnamente quel preziosissimo reperto. La storia di san Lussorio si perde nella Roma di Diocleziano, al tempo delle persecuzioni contro i cristiani: sappiamo da un testo che lo riguarda, ovvero la Passio sancti Luxorii martyris, scritto forse nell’VIII secolo ma il cui codice più antico risale ad almeno quattro secoli più tardi, che Lussorio doveva essere un soldato di origini sarde, profondamente colpito dai salmi a un certo momento della sua vita, al punto da convertirsi al cristianesimo. Il racconto agiografico segue poi lo schema di quello di tanti altri martiri cristiani del tempo: denunciato in quanto adoratore del Dio dei cristiani, venne arrestato, processato e posto dinnanzi alla scelta tra il sacrificio agli dèi pagani e la pena capitale, e dinnanzi alla sua ferma volontà di seguitare nel proprio credo, Lussorio venne messo a morte, nel suo caso per decapitazione. Il motivo della forte venerazione di Lussorio a Pisa, dove il suo nome è stato storpiato in “Rossore” per effetto del rotacismo del suo nome latino (da Luxorius a Ruxorius), si deve agli antichi rapporti tra la città e la Sardegna: in epoca medievale gran parte dell’isola era possedimento della Repubblica di Pisa, e tradizione vuole che le reliquie del santo siano state trasportate nel 1088 dalla Sardegna alla Cattedrale pisana. E già nell’XI secolo a Pisa era presente una chiesa dedicata a san Lussorio, al quale venne poi annesso un monastero e dove per lungo tempo fu conservata la reliquia del cranio: il sito però venne abbandonato già nel Duecento in quanto soggetto a frequenti piene dell’Arno, motivo per cui le reliquie furono trasferite. Il cenobio di San Rossore venne annesso al convento di San Torpè, che era dei frati umiliati, i quali decisero per qualche ragione di trasferire a Firenze la reliquia a Firenze nel 1422. Il cranio di san Rossore venne quindi custodito a Firenze fino al 1570, anno in cui passò ai Cavalieri di Santo Stefano che, nel 1591, lo riportarono a Pisa, nella chiesa di Santo Stefano dei Cavalieri, assieme al reliquiario che lo conteneva. L’opera di Donatello rimase nella chiesa fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, epoca in cui, per ragioni di sicurezza (era già stato rubato una volta, e poi ritrovato, nel 1977), venne trasferita al Museo Nazionale di San Matteo, dove fu anche restaurata, nel 1984.

Anche se il Busto reliquiario di san Rossore non è, come detto, forse una delle opere più note di Donatello, questo non significa che non sia tra i suoi lavori più rilevanti. Oltre a essere uno straordinario capolavoro di oreficeria (è in bronzo dorato e argentato), l’opera conservata al Museo Nazionale di San Matteo può essere anche considerata il primo esempio di reliquiario moderno, un pezzo sontuoso che sanciva uno spartiacque nei riguardi del tradizionale reliquiario medievale, e non soltanto verso quel tipo di reliquiario che assumeva spesso la forma di un cofanetto, quando non era una piccola architettura in miniatura. L’opera di Donatello dava avvio al reliquiario rinascimentale in forma di busto-ritratto, rinnovando la tradizione dei busti reliquiarî, dei reliquiarî antropomorfi d’epoca medievale: l’esempio più noto è probabilmente il Busto di sant’Orsola che oggi si conserva alla Pinacoteca Comunale di Castiglion Fiorentino, altro straordinario pezzo, opera d’una manifattura renana, probabilmente del terzo decennio del Trecento. Donatello introduce diverse innovazioni per rinverdire questa tradizione nella quale è profondamente radicato, anche al di là delle fattezze realistiche d’un busto che, per affinità stilistiche, è forse più vicino ai ritratti romani che ai reliquiarî medievali: il suo Busto reliquiario di san Rossore, per esempio, è gettato in bronzo (primo caso nella storia per un reliquiario) e non è realizzato in lamina metallica lavorata a sbalzo (come il reliquiario di Castiglion Fiorentino, che è in lamina d’argento). I busti reliquiarî medievali, ha scritto la studiosa Anita Moskowitz, avevano spesso “gli occhi spalancati e connotati immobili”, come si nota in quello che secondo la storica dell’arte potrebbe esser stato l’esempio che Donatello, per ragioni di accessibilità, aveva in mente, ovvero il busto di san Zanobi, opera trecentesca che conservava le reliquie del santo fiorentino. E si trattava poi di busti tipizzati, mentre l’opera di Donatello è fortemente individualizzata: l’artista, secondo Moskowitz, potrebbe essersi ispirato (oltre che a suo avviso all’immagine di se stesso, e quindi il busto potrebbe contenere anche elementi di autoritrattistica) a certi ritratti romani che si potevano osservare nella Firenze del tempo (l’esempio è un busto di Cesare oggi nelle raccolte degli Uffizi).

Dettaglio
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Non solo: anche se il Busto reliquiario di san Rossore raffigura un personaggio il cui volto non era noto, e Donatello lavorò pertanto alla sua opera un po’ come si potrebbe lavorare al ritratto d’un personaggio di fantasia, senza quindi avere a disposizione un modello vero a cui riferirsi, l’opera di Pisa di fatto apre la ritrattistica rinascimentale in scultura, dato che l’intento di Donatello è quello di dare al riguardante l’impressione di trovarsi dinnanzi a una persona vera: Irving Lavin ha notato che il san Lussorio di Donatello funziona al contempo come ritratto e come oggetto, e quest’ultima caratteristica veniva resa evidente soltanto da un unico elemento (perché, vedendo il busto senza indugiare troppo sui dettagli da vicino, non si direbbe che la calotta del santo si apre per accogliere la reliquia). Si tratta di una finezza che in effetti non tutti notano, o quanto meno non la considerano sotto questo punto di vista: parliamo cioè del mantello del santo che, invece di cadere lungo il corpo come farebbe normalmente se quello fosse il busto di una persona, descrive al contrario delle pieghe orizzontali sul piano d’appoggio. E lo stesso vale per le frange della corazza che si piegano in maniera innaturale se pensiamo a un soggetto in piedi, ma realistico se osserviamo il reliquiario per quello che è in realtà. È come se Donatello, con questo escamotage, ci stia dicendo che quello non è un vero ritratto: è semplicemente un contenitore, un oggetto che ha sembianze umane.

Quanto agli aspetti materiali, il precedente più immediato è il San Ludovico di Tolosa che Donatello realizzò, con la stessa tecnica che avrebbe poi adoperato per il busto reliquiario, per la Parte Guelfa di Firenze, che aveva chiesto allo scultore una statua del proprio patrono, risolta nello stesso modo con cui l’artista avrebbe risolto il busto reliquiario: “entrambe le sculture”, ha scritto la studiosa Laura Cavazzini, “sono fuse in più pezzi e interamente rivestite d’oro; tanto il volto giovanile e solo lievemente turbato del santo francescano quanto quello maturo e intimamente inquieto del martire guerriero, poi, emergono dai viluppi delle stoffe tormentate dei rispetti mantelli, sollecitando un dialogo emotivo con lo spettatore”. Già nel 1993 Artur Rosenauer aveva comunque notato l’affinità col San Ludovico di Tolosa, osservando peraltro che “l’incisività del cesello mostra un certo parallelismo con il Banchetto di Erode del fonte battesimale di Siena, pulito e cesellato fra il 1425 e il 1427”: l’opera di Pisa si colloca dunque in un momento particolarmente fecondo della carriera di Donatello, un momento in cui l’artista, che non aveva ancora compiuto i quarant’anni d’età, non aveva smesso d’innovare, di sperimentare soluzioni mai viste prima, di risolvere ogni commissione con entusiasmante originalità.

Artista renano, Busto reliquiario di sant'Orsola (1320-1330 circa; argento, pasta vitrea, perle, smalto, pietre dure, 42 x 32,5 x 16 cm; Castiglion Fiorentino, Pinacoteca Comunale)
Artista renano, Busto reliquiario di sant’Orsola (1320-1330 circa; argento, pasta vitrea, perle, smalto, pietre dure, 42 x 32,5 x 16 cm; Castiglion Fiorentino, Pinacoteca Comunale)
Donatello, San Ludovico di Tolosa (1418-1425; bronzo dorato; argento, bronzo dorato, smalti e cristalli di rocca, 285 x 101 x 78 cm; Firenze, Santa Croce)
Donatello, San Ludovico di Tolosa (1418-1425; bronzo dorato; argento, bronzo dorato, smalti e cristalli di rocca, 285 x 101 x 78 cm; Firenze, Santa Croce)

Possiamo immaginare che anche Masaccio dovette guardare con ammirazione il prodotto delle mani del suo collega. Quel che è certo, è che i due si conoscevano: esiste infatti una nota nel quaderno del notaio Giuliano di Colino degli Scarsi che, ricordiamo, aveva commissionato a Masaccio l’opera poi passata alla storia come il Polittico di Pisa, dalla quale veniamo a sapere che una rata del pagamento dovuto al pittore per l’opera venne versata direttamente a Donatello, che probabilmente vantava un credito nei riguardi di Masaccio. Entrambi, del resto, lavoravano a Firenze, ma non solo: entrambi, nel 1426, s’erano trovati a Pisa, dal momento che Donatello s’era trasferito qui, quell’anno, per lavorare assieme a Michelozzo a una delle sue opere più ambiziose, il monumento funebre del cardinale Brancaccio che era destinato alla chiesa di Sant’Angelo a Nilo a Napoli, dove tuttora lo si può ammirare. E nel dipingere il suo santo, forse Masaccio s’era ricordato delle opere dello scultore: “La complessa consistenza plastica del mantello dell’apostolo, di un delicato rosa pallido che spicca sul giallo zafferano della veste sottostante”, scrive ancora Cavazzini, “basterebbe da sola a giustificare l’affermazione di Vasari secondo cui Masaccio – ancorché pittore – avrebbe messo a punto il suo linguaggio prospettico e intensamente naturale prendendo a modello le opere di Donatello”. Si potrebbe poi avanzare un parallelo con l’opera precedente: “La superficie smottante delle stoffe dipinte da Masaccio, l’incidenza studiatissima della luce, che si rifrange sugli abiti petrosi dell’apostolo in mobili riverberi, il lento ruotare su se stessa della figura, la cui sagoma emerge prepotentemente dall’oro del fondo, paiono studiati direttamente sul San Ludovico della Parte Guelfa”.

Eccoli, dunque, Masaccio e Donatello, assieme a inaugurare la modernità. Forse i due si confrontarono con una certa consapevolezza, e forse proprio lì, a Pisa, non lontano da dove oggi ammiriamo il Busto reliquiario di san Rossore e il San Paolo. Alessandro Parronchi riteneva probabile l’idea “che durante il 1426 in Pisa si concordasse tra Donatello e Masaccio un programma comune. E forse fu quella occasionale consuetudine a fare scoprire a Masaccio il modo di entrare nel mondo donatelliano, che prima poteva anche averlo intimidito per la sua vastità”. Donatello, in altri termini, fu il primo scultore a intuire che gli artisti avrebbero dovuto affrontare il tema della realtà naturale, della realtà concreta, del tangibile. E Masaccio, avendo l’opportunità di frequentarlo a Pisa, forse per suo tramite dovette giungere alle stesse conclusioni cercando un contatto con la realtà ch’era inedito per la pittura, e che si sarebbe espresso di lì a poco soprattutto nella Trinità di Santa Maria Novella. A Pisa, pensava Parronchi, i due concordavano su di una ricerca basata “sul senso della visione speculare su cui si fonda la scoperta brunelleschiana”, inaugurando “un’arte che attraverso la definizione dell’individuo attinge l’universale”. Anche da Pisa passa la rivoluzione del Rinascimento.


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