Non si può dire d’aver conosciuto l’Umbria senz’aver visto la pittura umbra. E allo stesso modo è difficile avvicinarsi alla pittura umbra senza esser mai stati nella regione: sono forse poche le zone d’Italia in cui il rapporto tra gli abitanti e il loro patrimonio è così stretto, intenso, viscerale. Opere di maestri anonimi punteggiano tutto il territorio, si nascondono dentro chiesette perse tra i campi, popolano musei di cui probabilmente mai s’era sentito parlare, si mostrano dietro le porte d’un palazzo signorile, e tante altre sono ricoverate nei laboratori della soprintendenza o nel deposito di Santo Chiodo a Spoleto, quello che accoglie le opere recuperate dagli edifici crollati dopo il sisma del 2016. Deposito che apre di buon grado le porte ai residenti che vogliono vedere le loro opere, perché non riescono a stare senza di loro: sono punti di riferimento imprescindibili per le comunità della zona.
Carlo Gamba, in un suo saggio sulla pittura del Raffaello umbro (ma il discorso può benissimo applicarsi alla pittura umbra di tutti i tempi), diceva che l’arte umbra procede da quei paesaggi che Carducci cantò nelle Fonti del Clitunno, sotto alle nubi che fumano sugli Appennini, all’ombra dei boschi di frassino che coprono le colline, tra i “campi del lavoro umano”, seguendo il corso del sacro Tevere: in questa regione non c’è soluzione di continuità tra arte e natura, e certi dipinti, se possono sembrare “insopportabili in serie in una galleria”, al contrario “appariscono deliziosi e commoventi in una chiesa di campagna”, diceva Gamba. È una pittura “intonata in verde e in azzurro”, che riflette la bellezza, la tranquillità, la serenità dell’Umbria, e “concorre ad ispirare sentimenti di serena misticità contemplativa”. Ed è poi una pittura sostanzialmente anonima, specie se si pensa a quella dell’Umbria medievale, e ancor più nello specifico a quella che si sviluppò alla sinistra del Tevere, volendo adoperare la demarcazione di Giovanni Previtali: un ruolo propulsore fu quello della città di Spoleto dove, ha scritto Andrea de Marchi, si radicò una “schiera di pittori e di scultori, forse anzi di pittori-scultori” ch’ebbero un ruolo di primo piano nel “forgiare un paesaggio artistico del tutto particolare, connotato anche da tipi ben specifici nella struttura dei manufatti, nell’orchestrazione di cicli pittorici, singole immagini votive, croci dipinte e crocifissi lignei, tabernacoli misti di intaglio per il centro iconico e pittura per le ante narrative”.
E neppure Spoleto, nel primo Trecento, poté esimersi dal confronto con quanto s’andava producendo nei cantieri assisiati: Giotto fu una sorta di spartiacque, cui tutta la pittura umbra rispose, o adeguandosi al nuovo linguaggio, interpretandolo e adattandolo alla sensibilità propria di questa terra, oppure rispondendo alle complesse scenografie giottesche con un’arte ora minimale, ora segnica e gestuale, ora colma d’accenti quasi espressionistici.
Spoletino era anche il Maestro di Fossa, allievo d’un altro grande anonimo, il Maestro della Croce di Trevi (all’epoca non ci si firmava: l’individualità dell’artista era in forte subordine rispetto al risultato), nonché artista che si può porre all’estremo cronologico più recente dei pittori che vollero misurarsi con le pitture d’Assisi: il cosiddetto name-piece, ovvero l’opera che convenzionalmente gli ha dato il nome, è un’elegante Madonna col Bambino scolpita in legno, inserita in un tabernacolo dipinto, e proveniente dall’abbazia di Fossa in Abruzzo (oggi è al Museo Nazionale dell’Aquila). Fu Roberto Longhi, durante il suo corso universitario sulla pittura umbra del Trecento nell’anno accademico 1953-1954, il primo a identificare la personalità del Maestro di Fossa, che fu attivo tra l’Umbria e l’Abruzzo come scultore e come pittore. L’artista fu poi a lungo studiato da molti altri studiosi, è stato riconosciuto come uno dei maggiori capiscuola della Spoleto trecentesca (“il più importante e bel pittore del Trecento a Spoleto”, lo ha definito Alessandro Delpriori in occasione della grande mostra sui capolavori del Trecento umbro che s’è tenuta nel 2018), e tra le opere che gli si assegnano figura un grande affresco del Convento di Santa Croce di Trevi, oggi conservato nel locale Museo di San Francesco: è una sorprendente Crocifissione con, ai lati, una Madonna col Bambino in trono e un’Annunciazione.
Maestro di Fossa, Crocifissione, Annunciazione e Madonna col Bambino in trono (1330-1333 circa; affresco staccato, 350 x 475 cm; Trevi, Raccolta d’Arte di San Francesco) |
È un’opera che ha subito le offese del tempo, e si presenta pertanto in uno stato di leggibilità piuttosto precario: la superficie è compromessa da graffi, abrasioni, cadute di colore, lacune, tanto che già nel 1872 l’opera era stata descritta come “ridotta per cattivi restauri” dal pittore Mariano Guardabassi. L’affresco fu poi strappato negli anni Sessanta per esser dapprima collocato nella chiesa della Madonna delle Lacrime e poi, dal 1996, nel museo. L’opera non è però così mal ridotta da evitare che traspaia la grandezza del Maestro di Fossa, riconosciuto come autore della Crocifissione e delle due scene laterali da Corrado Fratini nel 1986.
Il Cristo crocifisso è al centro, e al suo fianco compaiono i quattro angeli che, come da consueta iconografia, accorrono con le coppe per raccogliere il sangue che sgorga a fiotti dalle sue ferite. Sotto, alla sinistra di Cristo, ecco le figure di san Giovanni e di Maria Maddalena, mentre sul lato opposto la Vergine sta svenendo e viene assistita dalle altre due Marie. Le altre due scene, quelle con la Madonna col Bambino in trono e con l’Annunciazione, si pongono rispettivamente sul lato sinistro e sul lato destro. Questa la semplice, quasi schematica disposizione delle figure nella composizione del Maestro di Fossa, che nell’impaginare la sua scena non s’allontana molto dalla Crocifissione dipinta da Giotto e collaboratori nella basilica inferiore di Assisi (ma ancor più giottesca è semmai la scena dell’Annunciazione, che ha luogo sotto una casa che richiama le strutture di Giotto degli affreschi francescani): tant’è che fino agli anni Quaranta fu creduta opera di scuola giottesca. E per le conoscenze dell’epoca era comprensibile, ma col progresso degli studî non si poté non apprezzare la singolarità del temperamento dell’autore.
Il Maestro di Fossa è un pittore delicato, forse il più internazionale degli spoletini (un altro dei capolavori che gli vengono assegnati, la Madonna col Bambino del Duomo di Spoleto, palesa tutte le affinità con la scultura francese del tempo), è un artista che sembra tradurre sui volti dolci delle sue figure la bellezza del paesaggio umbro e la spiritualità d’una terra dove, tra Due e Trecento, sorsero alcuni dei movimenti religiosi più attivi del tempo. I preziosismi gotici del Maestro di Fossa denotano la sua conoscenza di Simone Martini, mentre la morbidezza dei volti lo collega a Puccio Capanna: entrambi pittori che il Maestro aveva potuto apprezzare proprio ad Assisi. E alcuni tratti sono tipici della personalità del Maestro di Fossa: i volti leggermente allungati con le sopracciglia che descrivono archi pressoché perfetti, la vividezza delle espressioni, gli occhi leggermente a mandorla, i trapassi chiaroscurali lievi, figure soavi e sempre caratterizzate da un certo grado d’eterea purezza. C’è poi una dolcezza straordinaria in certi umanissimi passaggi, come la mano della Maria con la tunica dorata che accarezza il volto d’una Vergine che non riesce a sostenere la vista del figlio in croce, e la mano dell’altra che tiene la Madonna per una spalla: è forse uno dei momenti più toccanti di tutta la pittura umbra del Trecento.
Il Maestro di Fossa è, come s’è anticipato, anche l’ultimo grande pittore della scuola trecentesca di Spoleto, probabilmente perché operò negli anni in cui ad Assisi si concludevano i lavori e i cicli che gli artisti potevano ammirare poco più a nord avevano già cominciato a perdere la loro forza propulsiva. Non sarebbe però venuta meno la forza d’un’arte ch’è legata al suo territorio con vincoli forti, indissolubili.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).