di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 05/10/2018
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Arte medievale - Trecento - Arte antica - Umbria - Spoleto
Recensione della mostra 'Capolavori del Trecento. Il cantiere di Giotto, Spoleto e l'Appennino', a Spoleto, Trevi, Montefalco e Scheggino dal 24 giugno al 4 novembre 2018.
È difficile comprendere appieno la pittura umbra se non s’è mai stati in Umbria: non c’è storico dell’arte che non abbia rimarcato come l’arte dei pittori che furono attivi in questa porzione d’Italia sia saldamente fondata su strette connessioni col suo territorio. Carlo Gamba, per esempio, negli anni Quaranta ricordava che l’arte umbra procede da quei soavi profili che Carducci cantò nelle Fonti del Clitunno, che le opere degli artisti umbri, come accadeva per i senesi, si fondono con la natura e che per tal ragione “non hanno vita se non vedute nel loro ambiente”, e ancora che la pittura di questi luoghi “ha una sua propria espressione emanante dalla fisionomia peculiare al paesaggio umbro dalle dolci linee montane ‘degradanti in cerchio’ intorno al corso medio del Tevere e al Trasimeno, cosparse di verdi boschi fiorenti di coltivazioni, circonfuse di atmosfera azzurrina, che emana dalle umide linfe del piano”. Gamba introduceva un importante studio sulla pittura del Raffaello umbro, ma è sotteso che i ragionamenti di cui sopra s’applicano alla pittura umbra d’ogni tempo, segnatamente a quella che la regione fu in grado di produrre nel Trecento quando, sulla scorta della rivoluzione che andava compiendosi in Assisi, centri come Perugia, Spoleto, Trevi, Montefalco e dintorni elaborarono uno stile pittorico che quasi pareva descrivere la regione stessa: talora dolce come le sue campagne ed elegante come le vie più belle delle sue città, talaltra aspro e vigoroso come il suo Appennino di boschi e pietre. Caratteristiche sempre in armoniosa coabitazione.
Ma lo sviluppo dell’arte umbra (o meglio: dell’arte umbra alla sinistra del Tevere, per utilizzare l’efficace demarcazione inventata da Giovanni Previtali) ebbe inizio ben prima che i più grandi artisti d’inizio Trecento si trovassero a convergere sulla città di san Francesco. Si pensi a Spoleto, luogo dove, all’incirca tra il 1260 e il 1320, si radicò “una schiera di pittori e di scultori, forse anzi di pittori-scultori”, che contribuirono “a forgiare un paesaggio artistico del tutto particolare, connotato anche da tipi ben specifici nella struttura dei manufatti, nell’orchestrazione di cicli pittorici, singole immagini votive, croci dipinte e crocifissi lignei, tabernacoli misti di intaglio per il centro iconico e pittura per le ante narrative” (Andrea De Marchi). Spoleto fu centro in grado di conferire un significativo impulso al resto della regione, e fu città in cui si sviluppò una scuola autonoma che, al pari di quelle di Rimini o del Veneto, elaborò in maniera originale gli spunti giotteschi, e che anzi seppe innestarli su di una base già forte e su di una tradizione già consolidata. Le vicende di Spoleto e dintorni sono ora protagoniste d’una mostra, Capolavori del Trecento. Il cantiere di Giotto, Spoleto e l’Appennino, che in quattro città umbre (Spoleto, Trevi, Montefalco e Scheggino) pone in atto il tentativo di ricucire una storia che da svariati decennî a questa parte ha destato l’interesse di molti dei maggiori storici dell’arte che l’Italia abbia conosciuto. Una mostra che parte da uno studio recente (di appena tre anni fa), ch’è stato compiuto da Alessandro Delpriori, curatore dell’esposizione assieme a Vittoria Garibaldi e Bernardino Sperandio, e noto alle cronache anche come coraggioso sindaco di Matelica prodigatosi in prima persona per salvare quante più opere possibile all’indomani del sisma che colpì l’Italia centrale nel 2016. E il suo studio, intitolato La scuola di Spoleto e pubblicato appena un anno prima del disastroso evento, è stato estremamente prezioso anche perché ha consentito di censire quanto ha rischiato d’andar perduto.
Un lavoro che, peraltro, si colloca nel solco d’una tradizione illustre: quando si parla della scuola spoletina e dell’arte umbra alla sinistra del Tevere si ricordano Roberto Longhi che alla pittura umbra del Trecento dedicò un suo studio (e che fu forse il primo a interessarsi in maniera sistematica all’argomento, oggetto d’un suo celebre corso universitario del 1953-54), o il summenzionato Giovanni Previtali che attese allo studio della scultura lignea arrivando a ipotizzare che spesso i pittori fossero anche intagliatori, per continuare con Carlo Volpe e Miklós Boskovits che nutrirono l’idea d’un ulteriore studio sulla pittura umbra trecentesca, cui non avrebbe mai fatto seguito una concretizzazione. E se La scuola di Spoleto cercava di delineare le vicende dei tanti singoli maestri umbri di fine Duecento e inizio Trecento nell’ambito d’un quadro unitario e complesso, l’attuale mostra costituisce la naturale prosecuzione “dal vero” delle suggestioni che quello studio (nuovo sì, ma già cardinale) ha fornito. Una rassegna dove il pubblico non troverà grandi nomi. Anzi: non troverà nomi tout court, dacché gli artisti che la mostra indaga, pur avendo personalità ben distinguibili, differenti e ognuna contraddistinta da proprî tratti d’originalità, non sono identificabili sulla base di documenti che ci abbiano tramandato i loro dati anagrafici. Sono pertanto tutti anonimi e quindi individuati, com’è consuetudine in questi casi, a partire dalla loro opera più significativa, o dal luogo che conserva il più alto numero di lavori a loro riconducibili.
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Sala della mostra Capolavori del Trecento, sede di Trevi
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Sala della mostra Capolavori del Trecento, sede di Spoleto
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Il percorso delle opere, disposte nelle tre sedi di Spoleto, Trevi e Montefalco (a Scheggino si trova infatti uno spazio di documentazione sugl’itinerarî che i visitatori possono intraprendere tra chiese e conventi del territorio per estendere quanto la mostra propone), può prendere avvio dalla sezione allestita presso la Rocca albornoziana di Spoleto, dove s’indagano le tre personalità del Maestro delle Palazze, del Maestro di Sant’Alò e del Maestro del Farneto, tre artisti che con le loro opere, all’incirca tra gli anni Novanta del Duecento e gli anni Dieci del Trecento, marcarono il passaggio da una pittura ancora cimabuesca a una che, al contrario, già guardava al giovane Giotto. Uno dei passaggi salienti dell’esposizione si consuma proprio attorno al Maestro delle Palazze, pittore di transizione, osservando le cui opere s’ha quasi la sensazione, suggerisce Delpriori, di trovarsi dinnanzi a un rappresentante di “una schiera di artisti di mezza terra, nati dentro il Duecento ed entusiasti di Cimabue ma non così giovani da poter carpire le novità alla moda di Giotto che aveva sperimentato la concorrenza con la spazialità di stampo nordico”: a Spoleto è infatti esposto, nella sua sede abituale (il Museo Nazionale del Ducato di Spoleto accolto nella Rocca albornoziana), ciò che rimane in Umbria degli affreschi che il pittore eseguì per il monastero delle Palazze a Perugia (da cui il nome con cui l’artista è stato identificato), cui s’aggiunge un’ipotesi di ricostruzione formulata in occasione della rassegna. Artista che, già negli anni Settanta, Bruno Toscano mise in relazione a Cimabue, il Maestro delle Palazze si distingue per la sua pittura espressiva, caratterizzata da una spiccata vivacità narrativa (la si coglie bene osservando la Derisione di Cristo), che rilegge con sapida originalità l’arte cimabuesca, stemperandone le punte più magniloquenti.
E sempre Bruno Toscano fu il primo a studiare con dovizia la sorprendente croce astile opistografa (dipinta, cioè, su entrambi i lati) che fa da stauroteca, ovvero da reliquiario atto a contenere frammenti della croce di Cristo: alla base, la stauroteca, capolavoro del Maestro di Sant’Alò, è arricchita con due tavolette recanti figure di santi preziosamente abbigliati e decorati con quella finezza lineare che connota molta pittura spoletina del Duecento. La vividezza di questi personaggi caratterizzati individualmente (si osservino i loro sguardi intensi) lascia trapelare una certa vicinanza al Maestro delle Palazze, ma ci sono caratteri squisitamente assisiati che invece sono assenti nell’opera del meno aggiornato collega (anche se occorre tuttavia considerare che la stauroteca, che peraltro conserva ancora alcune reliquie, è databile al primo decennio del Trecento, mentre gli affreschi delle Palazze vengono posti nell’ultimo del Duecento), come certe analogie in alcune figure (Delpriori ha individuato alcuni personaggi, nella schiera dei santi, che appaiono affatto simili agli apostoli che s’incontrano nella cappella di San Nicola ad Assisi) oltre ad alcuni tratti stilistici (ad esempio i tocchi di luce bianca sotto i panneggi per evidenziare le sporgenze). Prosegue su quest’onda assisiate anche il grande Crocifisso di quasi due metri dove “la presenza fisica dei personaggi, il bordino bianco che muove tutte le vesti e lo sforzo naturalistico che rende il volto di Cristo come vivo e reale, con lo scorcio della narice, discendono proprio dagli affreschi della Basilica Superiore”.
Tra i primi artisti che seguirono Giotto figura il Maestro del Farneto, artista la cui personalità fu tracciata per la prima volta da Roberto Longhi, e che in mostra è presente con il cosiddetto Dossale del Farneto, in prestito dalla Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia. Si tratta d’un artista che probabilmente si formò su esperienze precedenti (a cominciare dallo stesso Cimabue) ma che, nel gruppo della Madonna col Bambino che appare al centro della composizione, fulcro tra le scene della Passione (da notare come la religiosità popolare umbra abbia letteralmente cavato gli occhi ai carnefici di Cristo in segno di disprezzo: non è raro, da queste parti, trovare opere dove i personaggi malvagi appaiono menomati in questo modo), separate tra loro da interessanti colonnine classiche, s’ispirò direttamente alla Madonna col Bambino che Giotto affrescò nella cappella di San Nicola nella Basilica Inferiore: identica la posa dei due personaggi, simile la resa degli affetti, mutuato dal pittore toscano il gesto del Bambino che infila la manina nello scollo della Vergine. Non solo: nello studio del 2015, Delpriori aveva tracciato interessanti paralleli tra il Dossale del Farneto, la Maestà affrescata probabilmente dallo stesso maestro nella Basilica di San Gregorio Maggiore a Spoleto e la Natività del Maestro della Cattura ad Assisi, spingendosi a sollevare l’affascinante ipotesi che prevede “di unire i due artisti in un unico percorso di una personalità che inizierebbe la sua attività sui ponteggi di Assisi con l’esperienza di Cimabue per poi continuare fino a diventare il responsabile del dossale ora a Perugia”. Ipotesi nuova, rilanciata in occasione dell’attuale mostra e pertanto tutta da approfondire.
Sempre a Spoleto, ma spostandosi presso la basilica di Sant’Eufemia, altra sede della mostra, è possibile fare un passo indietro per apprezzare le opere del Maestro di San Felice di Giano, attivo verso la metà del tredicesimo secolo: la tavola con Cristo benedicente e storie della Passione di san Felice di Massa Martana, un paliotto d’altare dove le figure sono caratterizzate da un accentuato linearismo, è esemplificativa di quella sua pittura “fatta di vivaci contrasti cromatici, eleganti figure allungate e disegnate da linee di contorno, illuminate da minute lumeggiature che definiscono anatomie e panneggi” (Vittoria Garibaldi) e che, si potrebbe aggiungere, non tralascia particolari crudi, come avviene nella scena del martirio di san Felice di Massa Martana, che osserviamo in basso a destra. Attribuibile al Maestro di San Felice di Giano è anche il giuntesco crocifisso proveniente dal monastero della Stella di Spoleto, opera centrale nella discussione sull’estensione della lezione di Giunta Pisano in Umbria, e in mostra da porre in una relazione “da manuale” con il Christus triumphans del Maestro di Cesi, artista il cui vivo naturalismo deriva da un’attenta osservazione degli affreschi assisiati. Del Maestro di Cesi è esposto anche il trittico ad ante mobili oggi a Parigi, al Musée Marmottan: anch’esso in origine nel monastero della Stella, si ricongiunge al Christus triumphans per la prima volta dall’Ottocento.
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Maestro delle Palazze, Derisione di Cristo (1290-1300 circa; affresco staccato, 307 x 200 cm; Spoleto, Museo Nazionale del Ducato di Spoleto)
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I lacerti degli affreschi del Maestro delle Palazze |
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La sala con la ricostruzione degli affreschi del Maestro delle Palazze |
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Maestro di Sant’Alò, Croce astile opistografa-stauroteca, verso (1300-1310 circa; tempera e oro su tavola, 45 x 28,3 cm; Spoleto, Museo Nazionale del Ducato di Spoleto)
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Maestro di Sant’Alò, Croce astile opistografa-stauroteca con le due tavolette coi santi
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Maestro di Sant’Alò, Crocifisso (1290-1295 circa; tempera su tavola, 190 x 129 cm; Trevi, Raccolta d’Arte di San Francesco) |
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Maestro del Farneto, Dossale del Farneto (1295-1300 circa; tempera su tavola, 58,5 x 207,5 cm; Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria)
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Maestro del Farneto, Dossale del Farneto, dettaglio
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Maestro di San Felice di Giano, Cristo benedicente e storie della passione di san Felice di Massa Martana (1250 circa; tempera su tavola, 104 x 176 cm; Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria)
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Maestro di San Felice di Giano, Crocifisso (1270-1280 circa; tempera e oro su tavola, 140 x 98 cm; Spoleto, Museo Nazionale del Ducato di Spoleto). Ph. Credit Matteo Passerini
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Maestro di Cesi, Christus Triumphans (1295-1300 circa; tempera e oro su tavola, 245 x 158 cm; Spoleto, Rocca Albornoz - Museo Nazionale del Ducato di Spoleto) |
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Maestro di Cesi, Assunzione della Vergine e Storie della morte della Vergine (1295-1300 circa; tempera e oro su tavola, 186 x 91 cm il pannello centrale, 177 x 46 cm e 177 x 44 cm le ante laterali; Parigi, Museo Marmottan Monet) |
Tra le chiavi di lettura della sezione di Trevi, allestita presso il Museo di San Francesco, possiamo annoverare quella dei riflessi che la cultura spoletina, aggiornata su Assisi, riuscì a emanare nel corso del Trecento: nello specifico, abbiamo modo di seguirli indagando da vicino il rapporto tra un maestro e il suo allievo, rispettivamente il Maestro della Croce di Trevi e il Maestro di Fossa. Nei puntuali pannelli che accompagnano il pubblico tra le sale della mostra, il Maestro della Croce di Trevi viene definito “il più bello” tra i pittori che operarono nella valle di Spoleto nei primi decennî del secolo quattordicesimo. Le ragioni d’una tale “bellezza” si spiegano sulla base dei contatti che il maestro trevano ebbe con la scuola senese, coi preziosismi di Simone Martini e con le raffinatezze di Pietro Lorenzetti, che arricchirono uno stile a sua volta debitore nei confronti dell’ascendente giottesco. La sezione s’apre con un elegantissimo dittico in prestito dalla Galleria di Palazzo Cini a Venezia, databile a un periodo compreso all’incirca tra il 1325 e il 1330: sull’anta destra il pittore ha raffigurato una composta Crocifissione, mentre la sinistra è divisa tra una Derisione di Cristo in alto e una Flagellazione nel registro inferiore. Opera lirica e “melanconica” (a detta di Boskovits, che nel 1965 utilizzò quest’aggettivo per descrivere il piccolo gruppo), il dittico veneziano guarda anch’esso agli affreschi d’Assisi, ma si sofferma, come anticipato, sui pittori senesi: l’elegante soldato a cavallo richiama il Simone Martini della cappella di San Martino, mentre il miliziano sulla destra pare tratto dall’identico personaggio che figura, nella stessa posizione, nell’Andata al calvario di Pietro Lorenzetti, anch’essa nella Basilica Inferiore. Dal Museo Poldi Pezzoli di Milano arrivano invece due tavolette, anticamente parte d’un dittico, sulle quali il Maestro della Croce di Trevi ha raffigurato a sinistra un’Annunciazione e una Madonna in trono con santi, e a destra una Crocifissione, con le scene sormontate da due piccole cuspidi recanti a sinistra le Stimmate di san Francesco e a destra la Flagellazione. Si tratta di un’opera dove le figure “esibiscono un linguaggio maturo, declinato verso ritmi più gotici e più svolti” (Virginia Caramico in catalogo), sempre nel segno della pittura senese: la più incerta disposizione dei personaggi nello spazio lascerebbe tuttavia supporre che si tratti d’una prova precedente rispetto al dittico veneziano.
I grandi pannelli blu che scandiscono il percorso della sezione di Trevi conducono verso le opere del Maestro di Fossa. Occupa tutta una parete il grande affresco con la Crocifissione affiancata dall’Annunciazione e dalla Madonna col Bambino in trono, proveniente dal convento di Santa Croce a Trevi e oggi custodita nel Museo di San Francesco. Opera che già Longhi studiò nel succitato corso del 1953-1954, dimostra tutti i caratteri dell’artista, uno dei più aggiornati del Trecento spoletino: i suoi personaggi raffinati e allungati lasciano trasparire legami col Maestro della Croce di Trevi (tant’è che s’è ipotizzato un suo alunnato presso la bottega del più anziano pittore trevano), ma il segno di quest’ultimo risulta mitigato tramite una pittura che si fa più delicata, dolce e aggraziata. Per accorgersene, il riguardante può soffermarsi sui volti delle tre Marie, attraversate da un moto di composta mestizia, e colte nel cercare di confortarsi a vicenda in un momento d’estremo dolore (particolarmente toccante è il gesto di una delle Marie che accarezza il viso della Vergine). Parimenti elegante è inoltre il San Pietro martire, che presenta un incarnato smunto e delicato, ulteriore prova della morbidezza della pittura del Maestro di Fossa. Artista che, come spesso soleva accadere nell’Umbria del Trecento, era anche scultore oltre che pittore: suo è un gruppo ligneo della Natività in arrivo da Tolentino, che introduce a quello che Delpriori definisce “uno dei grandi temi di tutta l’arte a Spoleto e il Valnerina all’inizio del Trecento”, ovvero il rapporto tra pittura e scultura, una delle colonne portanti dell’esposizione (colonna sulla quale, tuttavia, in questa sede s’è voluto soprassedere per ragioni di spazio). Conclude la sezione di Trevi l’opera eponima del Maestro della Croce di Trevi, il grande crocifisso ligneo di San Francesco, altra evidente testimonianza di come il pittore trevano si fosse aggiornato sui moderni esiti della pittura di Giotto.
Infine, la sezione di Montefalco ospita sole cinque opere, due delle quali sono però importanti “restituzioni”: si tratta, infatti, di opere concesse in prestito dai Musei Vaticani, che tornano nella loro città d’origine a due secoli di distanza dalle spoliazioni napoleoniche (il Polittico della Passione del Maestro di Fossa, inventariato durante l’occupazione francese e poi finito non si sa come a Roma) e a circa novant’anni dalla cessione al Vaticano (il dossale a sette scomparti del Primo Maestro della Beata Chiara, venduto nel 1925 dalle monache di Santa Chiara per far fronte a difficoltà economiche). L’opera del Maestro di Fossa, in particolare, torna dopo duecento anni nel luogo per il quale fu concepita, la chiesa di San Francesco a Montefalco: è stata restaurata proprio in occasione della mostra e l’intervento ha consentito di riassemblare le cinque tavole del polittico secondo l’ordine originale e di far riemergere un’iscrizione che ne attesta la data di realizzazione (1336) e il nome del committente (Jean d’Amiel, importante esponente del clero francese, già rettore del Ducato di Spoleto e successivamente divenuto vescovo di Spoleto, nel 1348). È un’opera di capitale importanza: Adele Breda rileva che “la raffinatezza dello stile e l’accuratezza miniaturistica dell’esecuzione pittorica del dipinto permettono di riconoscere il polittico quale produzione del particolarissimo ambiente artistico francesizzante del Ducato di Spoleto, in un periodo in cui sono documentati continuativi scambi culturali tra Francia e centro Italia”.
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Maestro della Croce di Trevi, Dittico con Derisione, Flagellazione e Crocifissione di Cristo (1325-1330 circa; tempera e oro su tavola, 45,5 x 58 cm; Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Galleria di Palazzo Cini) |
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Maestro della Croce di Trevi, Annunciazione e la Madonna in trono con Bambino, i santi Pietro martire, Domenico, due sante martiri (tempera e oro su tavola, 23,3 x 17,8cm), Crocifissione (tempera e oro su tavola, 23 x 18 cm), Stimmate di san Francesco (tempera e oro su tavola, 7,8 x 8,2 cm), Flagellazione (tempera e oro su tavola, 8 x 8,8 cm). 1320 circa; Milano, Museo Poldi Pezzoli |
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Maestro di Fossa, Crocifissione, Annunciazione e Madonna col Bambino in trono (1330-1333 circa; affresco staccato, 350 x 475 cm; Trevi, Raccolta d’Arte di San Francesco) |
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Maestro di Fossa, Crocifissione, Annunciazione e Madonna col Bambino in trono, dettaglio delle tre Marie |
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Maestro di Fossa, San Pietro martire (1335-1340 circa; tempera e oro su tavola, 189 x 99 cm; Spoleto, chiesa di San Domenico, cappella del Sacramento)
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Maestro di Fossa, Natività (1340 circa; legno intagliato e dipinto, la Madonna 61 x 135 x 27 cm, san Giuseppe 115 x 50 x 40 cm, Gesù Bambino 22,5 x 62 x 14 cm; Tolentino, Museo del Santuario di San Nicola da Tolentino)
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Maestro di Fossa, Natività, dettaglio della Madonna col Bambino
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Maestro della Croce di Trevi, Crocifisso di San Francesco (1320-1325 circa; tempera e oro su tavola, 353 x 229,5 cm; Trevi, Raccolta d’Arte di San Francesco) |
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Maestro di Fossa, Crocifissione e storie della Passione (1336; tempera, oro e argento su tavola, 166 x 280 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani)
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Occorre sottolineare che il percorso che qui s’è voluto tracciare non è che uno dei tanti che i visitatori possono intraprendere tra le sedi della mostra, e i temi cui s’è accennato sono soltanto alcuni di quelli che emergono dalla rassegna. Capolavori del Trecento è un’intelligente esposizione di ricerca, che si pone in netta antitesi rispetto a quell’odierno modello molto in voga per le mostre d’arte antica, tutto teso a puntare soprattutto sui nomi dei singoli, spesso accuratamente selezionati al fine di far la maggior presa possibile sul pubblico. In Capolavori del Trecento non c’è alcun cedimento né compromesso: è, in sostanza, una mostra pura che, ricostruendo le trame dell’arte a Spoleto e nella Valnerina nel corso del Trecento (un’arte, sarà opportuno ribadire, poco nota), raccoglie il frutto d’anni di studî e ricerche, dei quali rappresenta il risultato più tangibile e concreto agli occhi del pubblico.
È poi necessario riscontrare che la mostra trae valore dall’essere disposta su quattro sedi, per il fatto che la dislocazione diffusa delle circa settanta opere d’arte selezionate dai tre curatori disegna quasi, a grandi linee, una mappa della diffusione della scuola spoletina: un territorio che non corrisponde ad alcuna odierna suddivisione amministrativa (tanto che gl’itinerarî proposti a Scheggino spaziano anche al di fuori dei confini regionali), un territorio spesso martoriato dagli eventi naturali (gran parte dell’area nella quale si sviluppò la scuola spoletina ricade nel cratere del sisma del 2016), e per il quale occasioni come quella rappresentata da Capolavori del Trecento divengono motivo di sfida, per dimostrare al mondo che un territorio ferito ma forte è comunque in grado di reagire, di rialzarsi con rapidità e prontezza. Un territorio nel quale è necessario immergersi, come ha rammentato a più riprese Alessandro Delpriori, se si vuole “studiare l’arte a Spoleto e in Valnerina del Trecento”, attività che richiede “pazienza ed entusiasmo” onde lanciarsi in una ricognizione capace di riservare alla fine sorprese tanto allo studioso quanto all’appassionato. E la mostra risulterà tanto più suggestiva se si pensa che due sedi, le chiese dedicate a san Francesco a Trevi e a Montefalco, furono in antico centri dai quali irradiò quell’arte nuova che la rassegna porta all’attenzione del pubblico: le opere tornano dunque per qualche mese nella loro sede antica (in Umbria non è raro imbattersi in chiese trasformate in musei o luoghi espositivi), così che la loro portata, la loro carica, il loro “spirito mistico e terreno del vero francescanesimo diffuso dalla basilica di Assisi” (Vittoria Garibaldi) si possano apprezzare in quegli stessi luoghi nei quali avrebbero dovuto parlare agli umbri di sette secoli fa. Lo stesso Carlo Gamba che s’è citato in apertura, del resto, era profondamente convinto del fatto che “certi dipinti” risultano “insopportabili in serie in una Galleria” e, al contrario, “appariscono deliziosi e commoventi in una chiesa di campagna”. Forse è questa la formula migliore per riassumere una mostra d’altissimo profilo ch’è legata in maniera indissolubile al proprio territorio, senza il quale non avrebbe neppure ragione d’esistere.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).