Moltissimi artisti si sono cimentati, nella storia dell’arte, sul tema del Battesimo di Cristo, ma forse nessun dipinto con questo soggetto è singolare quanto quello del Verrocchio (Andrea di Michele di Francesco di Cione; Firenze, 1435 - Venezia, 1488) e di Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 - Amboise, 1519) che si trova oggi a Firenze, presso la Galleria degli Uffizi. Un dipinto tra i più studiati del Rinascimento, un dipinto problematico, un dipinto che affascina perché dà modo d’osservare il rapporto tra il maestro e il giovanissimo allievo, il quasi quarantenne Verrocchio e un Leonardo all’incirca ventenne. Si tratta, intanto, di uno dei rarissimi dipinti ch’è possibile assegnare con certezza all’attività della bottega del Verrocchio, un artista del quale è meglio nota l’attività da scultore, mentre su quella da pittore pendono ancora molti interrogativi. Il primo a dar notizia della collaborazione tra Verrocchio e Leonardo da Vinci fu Francesco Albertini, che nel suo Memoriale di molte statue e pitture nella città di Firenze del 1510 menzionò “in Sancto Salvi tavole bellissime et uno Angelo di Leonardo Vinci”, ma la descrizione antica più famosa è probabilmente quella di Giorgio Vasari, che citò il dipinto nelle sue Vite, sia in quella dedicata al Verrocchio, sia in quella su Leonardo: “Dipinse ancora a’ Frati di Valle Ombrosa una tavola a San Salvi fuor della Porta alla Croce, nella quale è quando San Giovanni batteza Cristo”, scrive lo storiografo nel capitolo sul Verrocchio, “e Lionardo da Vinci suo discepolo, che allora era giovanetto, vi colorì uno Angelo di sua mano, il quale era molto meglio che le altre cose”.
L’iconografia è quella tipica del Battesimo di Cristo. Sulle rive del fiume Giordano, Gesù sta ricevendo il sacramento del battesimo da Giovanni Battista, secondo il racconto dei Vangeli. Con le gambe in leggero contrapposto, Cristo è al centro esatto della scena, inserito entro uno schema compositivo triangolare, ha le mani giunte e china il capo per ricevere l’acqua dal Battista che sta versando il contenuto della scodella sui suoi capelli: il figlio di Elisabetta e Zaccaria è colto mentre si sporge in avanti con le spalle, in equilibrio sulla gamba destra saldamente ferma su un sasso e la sinistra in diagonale poggiata sulla pianta del piede, con il braccio sinistro che tiene ferma la croce da cui pende il cartiglio con la scritta che annuncia la nascita di Gesù (“Ecce agnus Dei qui tollit peccata mundi”, dal Vangelo di Giovanni), e il destro sollevato sopra la testa di Gesù, sulla quale già aleggia, immancabilmente, la colomba dello Spirito Santo. Più in alto ecco invece le mani di Dio: la Trinità occupa tutto l’asse verticale della composizione e divide in due parti uguali la scena. Sia Gesù che il Battista sono due uomini maturi, dai volti scavati, dalle proporzioni scultoree, ritratti con connotati realistici e con vigore di disegno anche se, come si vedrà più sotto, l’intervento di Leonardo ha ammorbidito le fattezze di Cristo. Più delicati i due angeli che notiamo sulla sinistra, e che assistono alla scena, uno più attento, quello che rivolge lo sguardo ai due protagonisti e tiene tra le mani la tunica di Gesù, e l’altro che sembra invece più distratto e distoglie gli occhi dall’evento, ma in realtà ricopre un ruolo molto rilevante: il gruppo degli angeli infatti ha lo scopo di catturare l’attenzione del riguardante e convogliarla verso Cristo e Giovanni Battista. Il tutto ha luogo in un paesaggio roccioso, sotto un cielo terso, illuminato da una luce cristallina, e con poche presenze vegetali: il boschetto sulla rupe, verso il quale s’avvicina un falco (interpretato come simbolo del male, in contrapposizione alla colomba: lo vediamo allontanarsi dalla scena), e una schematica palma, simbolo della vittoria di Cristo sulla morte, sulla sinistra, inserto di una mano terza rispetto a Verrocchio e a Leonardo da Vinci, forse la stessa che fu responsabile degli elementi di minor qualità nel dipinto (le mani del Padreterno, la colomba dello Spirito Santo, le rocce dietro al Battista).
Nel capitolo delle Vite dedicato al vinciano, Vasari torna sull’argomento Battesimo di Cristo, offrendo al lettore qualche informazione in più rispetto alla scarna nota nella vita del Verrocchio: pare che Leonardo, nonostante la giovanissima età, avesse eseguito l’angelo, quello di sinistra, “in tal maniera che molto meglio de le figure d’Andrea stava l’Angelo di Lionardo: il che fu cagione ch’Andrea mai più non volle toccare colori, sdegnatosi che un fanciullo ne sapesse più di lui”. Come nel più classico dei cliché, in sostanza, l’allievo avrebbe superato il maestro, ma in questo caso lo avrebbe fatto in maniera tale da indispettire il maestro fino a fargli decidere di non mettere più mano ai pennelli. Naturalmente non abbiamo riscontri che possano acclarare l’aneddoto vasariano, che va semmai considerato come un espediente narrativo più che come un episodio realmente avvenuto (è infatti estremamente inverosimile che uno dei più grandi maestri del tempo intendesse abbandonare un filone della sua produzione per essersi sentito sconfitto da quello che potremmo considerare un apprendista), ma è comunque certo che, in questo dipinto, possiamo osservare il contatto tra due diverse attitudini alla composizione.
È intanto sicuro che si tratti di un’opera eseguita in diversi tempi: le indagini diagnostiche, eseguite per la prima volta nel 1954 e poi condotte in maniera più approfondita in occasione del restauro del 1998, hanno infatti rivelato la sovrapposizione di strati dipinti a olio su livelli precedentemente eseguiti a tempera. In particolare, è stato scoperto che furono eseguiti a tempera il cielo, le mani di Gesù e il suo perizoma, la colomba e il falco, la roccia sulla destra con relativo bosco, l’intera figura del Battista, l’angelo di destra, la veste di Gesù tenuta dall’angelo di sinistra, la palma e i ciottoli che vediamo sulla sinistra, mentre invece sono condotti a olio su tempera il paesaggio sul fondo, l’acqua vicino ai piedi dei personaggi, l’angelo di sinistra e il corpo di Gesù. Inoltre, tramite riflettografia, è stato scoperto un paesaggio inizialmente impostato diversamente rispetto a come lo vediamo oggi e che, secondo lo storico dell’arte Andrea De Marchi, somigliava a quello che compare nel Cristo crocifisso fra san Girolamo e sant’Antonio abate (dipinto che si trovava nella chiesa di Santa Maria ad Argiano, nel territorio comunale di San Casciano in Val di Pesa nei pressi di Firenze, e che fu rubato nel 1970), ma per il quale è possibile anche, sempre secondo lo stesso studioso, stabilire un confronto con l’Assunta che Domenico del Ghirlandaio affrescò nella sagrestia di San Niccolò Oltrarno. Leonardo da Vinci, nel dipinto oggi agli Uffizi, non si occupò soltanto dell’angelo biondo citato da Albertini e Vasari: le marcate differenze riscontrabili nei diversi elementi della composizione hanno infatti portato gli studiosi ad assegnargli altre parti del dipinto, e una di queste è proprio il paesaggio. Leonardo, scrive De Marchi, “dipinse il greto del fiume, sovrapponendo velature a olio ora brunastre, perché il resinato di rame ha virato; le trasparenze verde acqua, con giochi di onde e cascatelle spumeggianti, ricoprirono in maniera sovrabbondante e non canonica financo i piedi del Battista”. Nel 2019, la direttrice del Museo Leonardiano di Vinci, Roberta Barsanti, ha peraltro ipotizzato che la più antica opera datata di Leonardo, il Paesaggio del 1473 conservato al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, possa essere ricondotta a un possibile suo intervento nel paesaggio del Battesimo di Cristo. La veduta sullo sfondo si presenta molto realistica (si osservino i profili delle montagne e il corso del fiume), con sottili velature che la coprono anche d’una leggera foschia.
Ancora, è possibile individuare la mano di Leonardo anche nei riflessi dell’acqua attorno ai piedi di Gesù: il piede sinistro, in particolare, fu lasciato in uno stato di voluta incompiutezza per meglio suggerire all’osservatore le trasparenze dell’acqua in cui è immerso. Poi, Leonardo intervenne in maniera massiccia anche sul corpo di Cristo, ammorbidendo in maniera significativa la sua figura: De Marchi propone d’individuare la sua mano anche nel volto di Gesù, che si presenta con “stesure grasse e sensibili, animate di intensi riverberi nella parte in luce”. Infine, Leonardo si occupò anche della parte sinistra dell’opera, quella dove adesso vediamo la palma e nella quale ammiriamo il suo angelo biondo. Abbiamo infatti una certezza sul Battesimo di Cristo, come ha scritto la storica dell’arte Gigetta Dalli Regoli: “la presenza di una stesura primitiva fondata sulla simmetria, e dunque su una rispondenza fra due masse di rocce stratificate situate ai lati: una tuttora esistente a destra, mentre l’altra è stata cancellata da un intervento di Leonardo che ha ricoperto la stesura già tracciata modificando la parte di sinistra del dipinto; l’aggressività dell’intervento vinciano è attestata dal celebre Angelo citato dal Vasari, che viene proposto in una insolita versione di spalle, e che sottrae spazio al suo remissivo compagno”. L’angelo di destra potrebbe trovare corrispondenza in un disegno del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, la Testa di giovinetto, data al Verrocchio, catalogata con il numero d’inventario 130 E. Alcuni studiosi, in effetti (per primo Carlo Ludovico Ragghianti nel 1954), non hanno escluso un ruolo di Sandro Botticelli (Firenze, 1445 - 1510) nel Battesimo di Cristo, fino a questo momento comunque ancora poco dibattuto: è del resto noto che i due si conoscessero, che Leonardo da Vinci nutrisse per il collega più anziana una certa stima, e soprattutto che i due frequentarono la bottega del Verrocchio.
L’ipotesi di un Sandro Botticelli che probabilmente mise mano al dipinto è stata di recente ripresa dal direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, che in una guida agli Uffizi pubblicata nel 2022 si è detto “totalmente d’accordo” con l’ipotesi di Ragghianti (“in questi anni”, ha scritto Schmidt, “mi sono fermato centinaia di volte ad ammirare il volto di questo angelo e ne sono sempre più convinto. Ne sono una prova gli occhi, il naso e la bocca, identici a quelli di altri dipinti di Botticelli. Chi visiterà questa sala ci faccia caso: osservate l’angioletto di destra e poi tornate nelle sale del Botticelli. Non vi rimarrà alcun dubbio”). A Ragghianti si deve del resto una precisa analisi stilistica del dipinto: il grande storico dell’arte lucchese riteneva che al Verrocchio vada ascritta l’impostazione di base a tempera, che qualcuno dei suoi collaboratori (forse Francesco Botticini) si sarebbe occupato delle rocce sui lati, che a quest’ultimo sarebbe poi subentrato Botticelli, e infine che il tutto sia stato armonizzato da Leonardo da Vinci, intervenuto dapprima per eliminare, come s’è visto sopra, la parete di roccia di sinistra (qualche elemento della stesura primitiva affiora sotto all’ultimo strato pittorico) e per completare le figure. È comunque del tutto plausibile immaginare che al dipinto abbiano messo mano più autori: sarà utile ricordare anche la presenza, sul retro del dipinto, di alcuni disegni, veloci abbozzi che non sono apparentemente riconducibili a nessuno degli autori intervenuti sulla parte dipinta, e che potrebbero appartenere, secondo Antonio Natali, a un artista della bottega del Verrocchio affascinato dal dinamismo delle figure di Piero del Pollaiolo, al quale questi schizzi sembrano guardare con una certa insistenza.
È comunque proprio l’angelo biondo l’elemento del dipinto che offre la possibilità di paragonare direttamente la pittura di Leonardo da Vinci a quella del pittore che s’occupò dell’altro angelo, quindi probabilmente Botticelli. L’angelo di sinistra è infatti dipinto con una luce diffusa riscontrabile solo in questa figura, con una delle prime applicazioni note dello sfumato leonardesco (il sottile passaggio da una gradazione di luce e colore a un’altra, coi contorni della figura che si confondono nell’atmosfera e non sono più marcati in maniera più o meno netta come avveniva in precedenza), e con “un tocco quasi impressionistico”, ha scritto lo studioso Martin Kemp, che non “scolpisce letteralmente le forme”, ma mira semmai a “enfatizzare la luminosità, la rifrazione e i riflessi”. Le divergenze si notano bene se si osservano i capelli dei due angeli: mentre quelli dell’angelo di destra sono definiti con la precisione tipica di un orafo, Leonardo utilizza i riflessi di luce per dare vita alla chioma dell’angelo (“quando Leonardo intervenne con le velature ad olio per ricoprire le superfici delle acque in primo piano e sullo sfondo del Battesimo”, ha sottolineato Kemp, “le rese con un misto di vitalità ottica e vita intrinseca delle forme. Nessun soggetto, statico o in movimento, rimaneva inerte sotto il tocco del suo pennello o della sua penna”). È facile osservare quanto brillino i capelli dell’angelo biondo, e quanto pieno di vita sia il suo volto, a confronto con l’angelo dai capelli castani castano, che seppur più espressivo non ha la stessa morbidezza del compagno dipinto da Leonardo da Vinci. Ma si possono notare anche differenze evidenti tra Gesù e il Battista, col primo che si presenta modellato più morbidamente rispetto al secondo.
L’angelo di Leonardo rappresenta poi una straripante novità anche sul piano iconografico. Con il suo angelo, Leonardo dimostrò, ha scritto Gigetta Dalli Regoli, “come si possa, con decisione ma anche con garbo, scardinare un’iconografia consolidata da lunga tradizione: privo di ali (lo imponeva l’impostazione statica del soggetto), e forse all’origine anche di aureola, un incantevole adolescente androgino entra in scena volgendo le spalle al pubblico, ma subito ne cattura l’attenzione torcendosi, mostrando insieme il volto bellissimo e la capigliatura lucente, con la conseguenza di offuscare irrimediabilmente il suo compagno”. E ancora, la studiosa, in un testo in corso di stampa, torna sull’argomento dell’iconografia dell’angelo ribadendo che questa invenzione così innovativa poteva essere indotto soltanto da “un impulso fortemente critico” e da “una scelta ragionata”, per giungere a quella “posa scomoda, palesemente artificiosa, ma nel contempo una soluzione che pretende una forte visibilità”.
Il dipinto conobbe un largo apprezzamento, tanto che fu molto copiato: la versione derivata più nota, in quanto fedele testimone dell’impianto iniziale del dipinto di Verrocchio e Leonardo, è probabilmente quella conservata in San Domenico a Fiesole, una delle più antiche che si conoscano, realizzata da Lorenzo di Credi oltre vent’anni dopo la tavola degli Uffizi. Esiste poi anche una singolare traduzione in ceramica, opera di Giovanni della Robbia, che più volte utilizzò l’opera di Verrocchio e Leonardo da Vinci come fonte d’ispirazione: si veda, per esempio, la formella del fonte battesimale della chiesa di San Pietro a San Piero a Sieve, che ne rappresenta la trasposizione più fedele.
Dopo decenni di studi, sono state avanzate anche ipotesi sulla possibile storia del dipinto: sarebbe stato commissionato al Verrocchio attorno al 1468 o forse anche qualche tempo prima, anche se questo potrebbe essere il più probabile terminus a quo, ovvero il punto di riferimento iniziale, dal momento che proprio nel 1468 il fratello del Verrocchio, Simone di Michele, era diventato abate del monastero di San Salvi, dove l’opera si trovava in antico, e potrebbe dunque averla allogata al maestro. Non abbiamo comunque certezze sul fatto che l’opera sia stata commissionata proprio per San Salvi, malgrado l’ipotesi sia plausibile. Il Verrocchio avrebbe comunque cominciato il dipinto per poi affidarlo ai suoi numerosi collaboratori, alcuni stabili, altri temporanei: al momento della ripresa del lavoro, probabilmente verso il 1475, il maestro avrebbe affidato al giovane Leonardo da Vinci l’incarico di completare le parti mancanti e di uniformare poi il tutto una volta terminato il lavoro.
Infine, se da decenni gli studiosi s’interrogano su chi abbia fatto che cosa all’interno del dipinto (quesito che comunque, come s’è visto, ormai ha risposte pressoché assodate), più recenti sono invece i tentativi di lettura iconologica del dipinto. Il primo a ipotizzare che dietro il Battesimo di Cristo ci sia un committente di solida cultura teologica è stato Antonio Natali, che in un’ipotesi formulata in suo saggio del 1998, e poi sostanzialmente confermata nel 2013 dallo studioso Giorgio Antonioli Ferranti, ha legato alcuni motivi del dipinto alla Catena aurea di san Tommaso d’Aquino, il commento ai Vangeli del dottore della Chiesa che fu stampato per la prima volta, a Roma, proprio nel periodo in cui l’opera del Verrocchio e di Leonardo forse cominciava a prendere forma, ovvero nel 1470. Leonardo sicuramente conosceva l’opera dell’aquinate (il titolo “Catena aurea” si trova anche in uno dei fogli del Codice Arundel), e nel dipinto si troverebbero diversi riferimenti al commento di san Tommaso, in particolare quelli che sottendono la partecipazione della Trinità al Battesimo (le mani di Dio, inoltre, rappresentano un concetto agostiniano ribadito da san Tommaso d’Aquino: la definitiva apertura dei cieli, che s’erano chiusi per via del peccato originale, dopo il fondamentale evento del battesimo), il falco in fuga, le pietre che simboleggiano invece la Chiesa. Per Tommaso d’Aquino, la colomba, animale “simplex et laetum”, è uccello pacifico perché non ha artigli che lacerano, esattamente come i santi che amano la concordia, e al contrario degli eretici che invece lacerano la dottrina: ecco il perché della presenza del rapace. E ancora, si legge ancora nella Catena aurea che nel momento del battesimo, lo Spirito Santo stesso cala sulla Chiesa per preparare i futuri battezzati ad accoglierlo: la colomba e le pietre del fiume sono quindi strettamente legate. Infine, Natali proponeva d’identificare nella figura dell’angelo di destra l’arcangelo Michele, cui veniva attribuita una funzione psicagogica, essendo a lui demandato il compito di accompagnare le anime in Paradiso, almeno secondo gli scritti apocrifi.
Oltre alle ipotesi di Natali e di Antonioli Ferranti, non ci sono stati altri tentativi di lettura iconologica. Leonardo da Vinci era del resto artista sì credente, ma anche fortemente innovativo, e torna dunque difficile immaginarlo mentre segue in maniera pedissequa una tradizione iconografica, o mentre riporta fedelmente per immagini il testo di un dottore della Chiesa: al contrario, il vinciano, pur muovendosi entro gli schemi del proprio tempo, si dimostrò un forte innovatore delle consuetudini iconografiche della sua epoca. Basti pensare al dialogo di gesti e di sguardi che anima la Vergine delle rocce, o all’elemento ricorrente del dito puntato verso l’alto che non è ancora stato del tutto chiarito e che compare, per esempio, nel Battista del Louvre e nella sant’Anna della National Gallery di Londra. Non fa eccezione, per esempio, l’angelo di spalle, che proprio nella posa, come s’è visto, trova il suo elemento più innovativo.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo