Un “dramma di isteria intellettuale” in cui si sommano un complesso intrico di simboli, giochi di incastri formali, astrazione ideativa e astrazione cromatica: così Andrea Emiliani definiva l’Allegoria del Bronzino (Agnolo di Cosimo Tori; Firenze, 1503 - 1572), forse il più famoso capolavoro dell’artista fiorentino. L’opera, oggi conservata alla National Gallery di Londra, è anche una delle opere che più hanno affascinato gli studiosi e gli storici dell’arte nel corso dei secoli, perché la sensualità dei due protagonisti, la dea Venere e suo figlio Cupido, l’altissima cura per il dettaglio nonché alcuni elementi piuttosto inquietanti e di difficile lettura, hanno fatto scaturire appassionate discussioni sui significati che il dipinto potrebbe celare, e che ancora oggi non sono del tutto chiari.
La tavola fu dipinta forse per il re di Francia Francesco I e fu realizzata intorno al 1545: tuttavia non ci è dato sapere con certezza chi fu il committente, e alcuni studiosi ipotizzano che l’Allegoria fosse in origine un dono dell’allora duca di Firenze Cosimo I per il sovrano, mentre secondo altri potrebbe essere stata invece un omaggio commissionato da Bartolomeo Panciatichi, gentiluomo fiorentino che era stato educato in Francia, dove in seguito svolse anche attività diplomatiche per conto della corte fiorentina. Entrambe le ipotesi potrebbero essere fondate, dal momento che il Bronzino fu pittore di corte a Firenze durante gli anni di Cosimo I (si sono conservati molti suoi ritratti degli esponenti della corte medicea, come quello di Eleonora di Toledo, altro suo grande capolavoro, o quello di Bia de’ Medici), essendo egli uno dei più importanti ritrattisti del Cinquecento, ma fu anche al servizio della famiglia Panciatichi, che era una delle più insigni della Firenze del tempo: anche per loro l’artista eseguì alcuni ritratti, tra i quali quello dello stesso Bartolomeo, oggi conservato agli Uffizi. Nel 1860 l’Allegoria figurava nella raccolta del collezionista francese Edmond Beaucousin che quell’anno, in data 27 gennaio, cedette quarantasei delle sue opere alla National Gallery di Londra, dove ancora oggi la si può ammirare.
È probabile che si riferisca a questo dipinto Giorgio Vasari, quando nelle sue Vite descrive “un quadro di singolare bellezza che fu mandato in Francia al re Francesco, dentro al quale era una Venere ignuda con Cupido che la baciava, ed il Piacere da un lato e il Gioco con altri Amori, e dall’altro la Fraude, la Gelosia, ed altre passioni d’amore”. Tuttavia, a causa di alcuni particolari della descrizione che sembrano in disaccordo con quanto appare nel dipinto stesso (mancano infatti il “Piacere”, gli “Altri amori”, e non viene menzionata l’inequivocabile figura del tempo che appare in alto a destra), è ipotizzabile che Vasari si riferisse a un altro dipinto inviato a Francesco I, oppure che semplicemente non ricordasse bene la composizione: è necessario sottolineare che tra la realizzazione del quadro e la pubblicazione della seconda edizione delle Vite (l’edizione giuntina del 1568, quella in cui Vasari fa cenno ai pittori ancora in vita mentre scriveva, tra i quali figurava lo stesso Bronzino), trascorre un lasso di tempo di circa vent’anni, quindi è del tutto probabile che Giorgio Vasari non avesse bene a mente i singoli particolari della composizione. Ancora, pensando a un’ipotetica committenza per il sovrano francese, è vero che il soggetto al contempo lascivo ed erudito ben s’adattava al temperamento e ai gusti di Francesco I, di contro però andrà sottolineato che negli inventarî delle collezioni reali francesi non sembra esserci traccia della tavola.
Al centro del dipinto si trovano, come anticipato, Venere e Cupido, abbracciati mentre si scambiano un bacio molto sensuale, e ai loro lati compare un nutrito gruppo di figure: si possono osservare in alto un vecchio (il Tempo) che sovrasta la scena e che Vasari, come detto, non cita nella sua descrizione, e poi sulla sinistra due figure, una decisamente inquietante colta in atto di urlare portandosi le mani ai capelli e un’altra di profilo che tiene un telo, mentre sulla destra si nota un bambino che in mano reca alcune rose e vicino a lui una sconcertante creatura con il volto di bambina, il corpo di serpente e le zampe di leone. Completano la composizione una serie di oggetti e di gioielli descritti con altissima cura.
L’identificazione dei due protagonisti, Venere e Cupido, è facilitata dai loro attributi: la dea tiene nella mano sinistra la mela d’oro, allusione al mitologico episodio del giudizio di Paride, che avrebbe consegnato la mela alla più bella delle dee, mentre davanti a sé ha una colomba, simbolo di amore nonché animale sacro della dea dell’amore. Cupido, figlio di Venere, invece è rappresentato come un bambino alato, secondo la tipica iconografia, e sulle spalle porta una faretra all’interno della quale custodisce le frecce con le quali colpisce gli innamorati. I due, come detto, sono avvolti in un abbraccio sensuale mentre si scambiano un bacio appassionato, tanto che l’osservatore è in grado di vedere la lingua di Venere che lambisce le labbra del figlio (particolare che non sfuggì a Federico Zeri, il quale definì questo bacio come “uno dei più erotici della pittura italiana”: anzi, si tratta forse del primo bacio con la lingua raffigurato in un dipinto), e a sua volta Cupido, con una mano, accarezza il seno della dea. Venere è in completa nudità, e sebbene il suo volto sia raffigurato di profilo, il corpo invece è rappresentato di tre quarti, e questo consente a chi osserva il dipinto di apprezzare pienamente la sensualità della dea: il Bronzino non nasconde alcun particolare alla vista del riguardante.
Siamo in presenza, come scrisse ancora Federico Zeri, di un dipinto che ci dimostra “i pregi dell’amore, i momenti del godimento”, ma anche “angosce e fatti inconfessati”, e anche in questa sede ci si atterrà in buona parte all’impianto simbolico discusso da Zeri nelle conversazioni di Dietro l’immagine, nelle quali lo studioso romano fornì al pubblico una lettura completa dell’opera cercando di mediare tra tutte le interpretazioni che fino ad allora erano state date attorno al significato del dipinto, per molti versi tuttora oscuro.
Si percepisce effettivamente un senso d’inquietudine, qualcosa di strano, che mette a disagio l’osservatore. E i problemi interpretativi cominciano già dalle figure di Venere e Cupido. Notiamo che la fibbia della faretra di Cupido è decorata con una gemma preziosa, un rubino, alloggiato su di un castone che ha due estremità a forma di mostro, che par quasi formato da due diavoli. Questo elemento potrebbe simboleggiare gli istinti sessuali più bassi e animaleschi che talvolta caratterizzano il sentimento amoroso, anche in ragione del fatto che l’iconografia cristiana del diavolo trova le sue basi nei satiri della mitologia greco-romana: i satiri erano infatti rappresentati come esseri connotati da un appetito sessuale rozzo ed esagerato. Tenendo conto di questo particolare, si potrebbe quindi individuare in Cupido l’aspetto più materiale dell’amore, e in Venere, al contrario quello spirituale: si può facilmente notare come la dea stia sfilando una freccia dalla faretra di Amore, e questo gesto potrebbe essere interpretato come la vittoria del lato spirituale dell’amore su quello materiale, dal momento che Venere sta disarmando e quindi rendendo inerme Cupido. Un’altra ipotesi invece prende in esame il gesto che Cupido compie con la sua mano sinistra. Il figlio sta accarezzando la madre, ma forse sta anche sfilando il prezioso diadema dalla testa di Venere e questo elemento, visto in correlazione al gesto della dea che sottrae la freccia, potrebbe anche alludere alla natura ingannevole dell’amore: mentre i due si baciano, in realtà si stanno ingannando in quanto ambedue stanno rubando qualcosa (il motivo del furto reciproco, ha suggerito Robert Gaston, potrebbe essere di origine letteraria: compare infatti nelle Sorti di Francesco Marcolini, un libro stampato a Venezia negli anni Quaranta del Cinquecento). Il diadema di Venere è composto da perle che simboleggiano la purezza dell’amore, da uno smeraldo, pietra sacra alla dea, e da un diamante, simbolo della forza dell’amore ma anche di nobiltà. Nella rappresentazione dei gioielli e in generale degli oggetti preziosi, il Bronzino rivela una raffinatezza che non ha eguali e ch’ebbe modo di rivelarsi in tutta la sua pienezza anche nella sua attività di ritrattista di corte dei Medici: questo interesse per l’oreficeria da parte del Bronzino potrebbe essere spiegato con la vicinanza a Benvenuto Cellini, anch’egli fiorentino. Il diadema di Venere è peraltro ornato con una figura femminile, forse proprio una raffigurazione della dea dell’amore, che ricorda da vicino alcuni soluzioni celliniane: la posizione ricorda quella di una Leda che compare in una spilla di Cellini realizzata intorno al 1530 e conservata al Museo Nazionale del Bargello a Firenze, ma il diadema di Venere potrebbe essere messo in relazione anche con la famosissima saliera realizzata tra il 1540 e il 1543 e conservata presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna. È altamente probabile che il Bronzino non vide mai quest’opera dal vivo, ma è invece ipotizzabile che abbia visto i disegni di Cellini, e se si tiene conto del fatto che anche la saliera fosse destinata a Francesco I come probabilmente l’Allegoria, si potrebbe trovare una prova ulteriore del legame tra l’arte del Bronzino e quella di Benvenuto Cellini.
Non del tutto chiaro è il significato delle altre figure che compaiono nel dipinto: quello più facilmente identificabile è il vecchio in alto a destra, che è un’allegoria del Tempo, in quanto dotato dei tipici attributi iconografici, ovvero le ali e la clessidra. La figura di profilo, quella con il telo in mano, potrebbe essere interpretata come l’Oblio, che con la collaborazione del Tempo stende il suo velo per oscurare l’amore e per spegnere e far dimenticare la passione. Oppure, il Tempo sta semplicemente svelando gli inganni dell’amore cercando di impedire all’oblio di nasconderli. Un’altra ipotesi, anche se meno probabile, vuole che la figura di profilo sia l’Inganno, con metà faccia nascosta e il velo per celare le frodi e i tradimenti che spesso si nascondono dietro una relazione amorosa. Anche l’orribile figura che urla sulla sinistra è stata interpretata in più modi, anche per il fatto che il suo sesso è incerto, e non è possibile stabilire con certezza se si tratti di una figura maschile o di una figura femminile. Se femminile, potrebbe essere simbolo della Disperazione o della Gelosia oppure ancora dell’Invidia, se invece maschile potrebbe simboleggiare gli effetti dannosi della sifilide, malattia all’epoca molto diffusa nonché uno dei principali mali fisici causati a quei tempi dall’amore (ipotesi, quella della sifilide, da escludere se s’immagina una destinazione a Francesco I: un riferimento alla malattia sarebbe stato inappropriato, se non addirittura oltraggioso). Il bambino sulla destra potrebbe invece simboleggiare il Gioco d’amore oppure il Piacere: in mano ha alcune rose, la gamba sinistra è ornata con una cavigliera di sonagli e il piede destro invece poggia su alcune spine, una delle quali lo trafigge procurandogli una ferita. Le rose alludono al piacere amoroso, la cavigliera alla dimensione prettamente infantile del gioco, mentre la ferita sottolinea il fatto che l’amore non si cura dei dolori o delle ferite che talvolta può provocare. L’inquietante mostro dal volto di bambina potrebbe essere simbolo dell’Inganno: all’apparenza una bambina innocua e di bell’aspetto che in realtà nasconde una natura orripilante. Le sue mani sono invertite, e questo elemento causa anche un effetto di straniamento: una reca un favo di miele, simbolo della dolcezza dell’amore, mentre l’altra porta un serpente, allusione al dolore che l’amore può provocare. Un’altra ipotesi, meno accreditata, identifica nella strana creatura il Piacere, che ha una doppia natura in quanto provoca gioie simboleggiate dal miele e dal volto di bambina e dolori simboleggiati invece dal serpente e dal corpo di mostro. Simboli di inganno potrebbero poi essere anche le due maschere, una maschile e una femminile, che si trovano a fianco dei delicatissimi piedi di Venere.
Motivi simili si trovano in un’opera simile a quella di Londra, l’Allegoria di Budapest, animata probabilmente da intenti non così diversi rispetto a quelli della tavola di Londra, ma meno celebre rispetto al capolavoro della National Gallery. Anche qui vediamo infatti Venere che ha tolto una freccia ad Amore e sembra quasi dialogare con lui. Dietro osserviamo un vaso di rose (il fiore caro alla dea), mentre anche nel quadro di Budapest si nota nuovamente una figura mostruosa coi serpenti nei capelli (forse l’Invidia o la Gelosia), mentre i due putti in primo piano che stanno giocando con una corona di fiori alludono ancora al gioco. A fianco a loro, ecco invece comparire di nuovo il motivo delle maschere. Curiosamente, in occasione della grande mostra sul Bronzino che si tenne nel 2010 a Palazzo Strozzi, durante le indagini diagnostiche che precedettero il restauro dell’Allegoria di Budapest, si scoprì che in precedenza, nel dipinto, l’artista aveva dipinto un satiro nella porzione inferiore, e la freccia era puntata verso di lui, quasi a voler significare la preferenza, da parte di Venere, dell’amore carnale in luogo di quello spirituale. È lo stesso satiro che si trova nella terza allegoria conosciuta del Bronzino avente per protagonista Venere e Cupido, quella della Galleria Colonna di Roma, dove il satiro incarna ancora una volta le pulsioni più basse, l’istinto sessuale.
Tornando invece al dipinto della National Gallery di Londra, il significato complessivo potrebbe dunque sottendere un’allegoria dell’amore, o anche un’allegoria del piacere: non è possibile dirlo con precisione. Di recente Cristina Acidini ha proposto anche un significato completamente diverso rispetto a quelli sui quali si è più a lungo discusso, di cui val la pena dar conto proprio perché ipotesi particolarmente ardimentosa, ovvero un trionfo della verità: “Scampata alle insidie della Frode che ha gettato le tante maschere, del Piacere folle destinato a convertirsi in dolore […] e dell’Invidia emaciata e sconfitta che urla tutta la sua rabbia, chi è che può emergere nuda e trionfante alla vista, se non la Verità innocente – Innocenza veritiera, per la gioia di Amore che suggella con un bacio la sua liberazione?”. Per le colombe e il pomo, che comunque rimangono precisi attributi di Venere, Acidini prova a fornire la sua interpretazione: le colombe come simbolo di candore (e quindi di innocenza), e il pomo sempre con riferimento al giudizio di Paride, ma in questo caso “la più bella” sarebbe, appunto, la Verità. Secondo la studiosa, identificando la donna come la personificazione della Verità, invece che come Venere, si dileguerebbe “l’ombra dell’incesto su quel bacio a labbra schiuse”, e il dipinto potrebbe anche esser motivato da un’azione diplomatica volta a scagionare l’eventuale donatore da una calunnia.
Più precise potrebbero invece essere le fonti iconografiche del Bronzino: i due bellissimi protagonisti del dipinto potrebbero essere stati ispirati dal celebre cartone michelangiolesco di Venere e Amore, oggi purtroppo andato perduto e noto grazie a opere di artisti come il Pontormo o Michele di Ridolfo del Ghirlandaio: anche nel cartone di Michelangelo i due protagonisti erano abbracciati e si scambiavano un bacio, ma il Bronzino si spinge oltre rendendo le sue figure molto più sensuali, anche perché in Michelangelo il piede di Cupido copriva il pube di Venere, e allo stesso tempo il Bronzino rende il bacio molto più appassionato. Un ulteriore punto di riferimento potrebbe essere stato anche il Parmigianino, e in particolare il suo Cupido noto in diverse varianti (la più famosa è probabilmente quella conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna). C’è anche chi ha chiamato in causa la Sacra Famiglia di Francesco I di Raffaello, opera oggi al Louvre che fu inviata (in questo caso lo sappiamo per certo) al re francese dal suo alleato Lorenzo de’ Medici duca d’Urbino: diversi studiosi hanno individuato elementi visivi che il Bronzino riprenderebbe (per esempio la posizione di san Giuseppe e quella dell’angelo che sta ponendo una corona di fiori sulla testa di Maria), e una storica dell’arte, Leatrice Mendelsohn, vi ha letto una sorta di sfida che l’artista fiorentino avrebbe rivolto a distanza all’Urbinate. Di sicuro l’Allegoria della National Gallery è una di quelle composizioni in cui l’artista, come ha scritto Luisa Becherucci, rivela “una sensualità viva ma tutta filtrata in acuto intellettualismo”, come l’Allegoria di Budapest.
L’opera si distingue anche per i suoi colori freddi (spicca in particolare il blu oltremare del telo che costituisce il fondo del dipinto) per la sua superficie che appare smaltata, per la contorta posa dei personaggi che segue la linea serpentinata tipica dell’arte manierista, per l’illuminazione artificiale, diretta e abbagliante, che riduce al minimo il senso della profondità e fa brillare la pelle dei personaggi, che paiono quasi simili a sculture (per Sydney Freedberg si tratta di un effetto volutamente cercato per consentire al pittore di diventare una specie di Pigmalione alla rovescia). È un capolavoro di quell’“idealismo plastico, superbamente glaciale” di cui aveva parlato Roberto Longhi. Non c’è dubbio, osservando un dipinto simile, che anche qualora il destinatario non fosse il re di Francia, si trattava comunque di un committente di altissimo livello, che poteva permettersi un oggetto così lussuoso, o era ritenuto degno di riceverlo in dono. E soprattutto era in grado di capire il significato del dipinto, che era indiscutibilmente destinato a una élite, a una ristretta cerchia di personalità che potevano comprendere la complessa rete di simboli, rimandi, allusioni dell’Allegoria del Bronzino, opera che ancora oggi ci rimane in parte oscura, che non riusciamo a cogliere appieno, a percepire nella sua completezza. Oppure forse è esattamente ciò che voleva chi ha elaborato la complicata allegoria.
E poi, quello di cui possiamo essere relativamente certi, è che a chiunque fosse destinata, di sicuro l’opera dovette piacere, non solo perché opera di grande impatto, ma anche perché frutto dell’elegante e ingegnosa fantasia di uno dei più colti e raffinati artisti del tempo, capace di restituire un capolavoro dominato dalla figura di Venere che ricorda a tutti la bellezza e la piacevolezza dell’amore. Non si dimenticherà che il Bronzino era anche un poeta, e un dipinto così sofisticato, oltre a essere tipico della cultura del tempo, rivela anche il portato intellettuale di un artista nei cui scritti non è raro trovare riferimenti all’ambiguità e alla doppiezza dell’amore. Si prenda per esempio questo sonetto: “D’amor puro, e di fede, e pura voglia / Onesti giochi, e senza fallo, o menda / Già non par da biasmar, perch’uom si prenda, / E de’ gravi pensier la cura scioglia. / Ma questa nuova, ov’ognor par, che accoglia / Bellezza Amore, e ’l chiaro lume accenda, / Tem’io, che tanto cresca, e tanto splenda, / Che di troppo piacer li nasca doglia. / Non è sì lunge ad arrivare il tempo / Del sommo grado lor, né tu sì franco, / Ch’arder non possi ancor molti, e molti anni. / Chiudi al pentir l’entrata or, che n’hai tempo, / Né poi sospiri indarno il meglio, e al fianco / Passi l’ardor, che già t’avvampa i panni”. Forse l’opera non si deve totalmente al Bronzino, che per quanto colto potesse essere, quasi sicuramente lavorò su di un programma elaborato da un letterato della corte di Cosimo I. È comunque evidente che nell’arte del Bronzino esista una viva rispondenza tra le immagini e le parole, e non è da escludere dunque che anche l’Allegoria della National Gallery possa aver preso spunto da una qualche immagine poetica dell’artista, oppure che tra i sonetti dell’artista si nasconda una qualche lirica da interpretare come un raffinato commento al dipinto.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo