“Questo fortissimo pittore riassume in una visione quasi sempre personale, rude e sincera, tutte le preoccupazioni della pittura moderna”. A definire così Achille Funi (Ferrara, 1890 – Appiano Gentile, 1972), nel 1916, è Umberto Boccioni, che in un articolo pubblicato quell’anno sul settimanale Gli avvenimenti lodava l’estro di quel giovane pittore, allora appena ventiseienne, e che aveva però già sviluppato una poetica personale, a quell’epoca compiuta, sebbene pronta a cambiare direzione nel giro di poco. Funi aveva lasciato nel 1910 l’Accademia di Brera e aveva cominciato dunque da sei anni il proprio percorso autonomo, che in quel periodo avrebbe assunto l’indirizzo delle sperimentazioni futuriste. La mostra antologica che Ferrara ha dedicato al pittore (Achille Funi. Un maestro del Novecento tra storia e mito, a cura di Nicoletta Colombo, Serena Redaelli e Chiara Vorrasi, a Palazzo dei Diamanti dal 28 ottobre 2023 al 25 febbraio 2024) ha il merito d’aver proposto una estesa ricognizione sul Funi del “periodo futurista”, se così lo vogliamo chiamare, meno noto rispetto a quello del gruppo Novecento, al Funi del Realismo magico, o a quello dei grandi affreschi degli anni Trenta, ma di certo non meno interessante. Ne è prova quel che Boccioni pensava sul suo conto.
“Nel suo studio”, continuava Boccioni nel suo articolo, “ho visto: Uomo che scende dal tram (momento ritmico), Ciclista (Velocità), Due fanciulle + caseggiati + strada. In questi quadri la sintesi schematica che gli viene da Cézanne e dai post-impressionisti si libera dall’immobilità che lo farebbe cadere in fantocci strani ed arcaici, immobilità volgare e comune a tutti i primitivisti moderni, i quali nella ricerca della sodezza della forma e nella sintesi delle masse tornano, per amore intellettuale, all’arcaismo di tutti i tempi”. Achille Funi, al vivido ricordo degli impressionisti, associava la conoscenza “della continuità e della dinamica”. Era un artista a cui l’Accademia stava stretta e che aveva voglia di novità, frequentando la Milano dove Marinetti e colleghi avevano fortemente scosso l’ambiente con le loro novità audaci. A quelle altezze cronologiche, Funi era sostanzialmente un artista accademico, seppur talentuoso, come dimostrano le poche opere giovanili note (per esempio l’Autoritratto del 1907 conservato al Mart di Rovereto oppure quello dell’anno successivo, delizioso per naturalezza della posa e per l’idea di raffigurarsi assieme a una scultura, eseguito su carta e conservato in collezione privata). Tre anni dopo è già un artista completamente diverso: lo attesa una delle sue prime opere di questo periodo, Corso Monforte, dove la strada, gli edifici, gli elementi del paesaggio giungono a una semplificazione geometrica mai tentata in precedenza (non è dato comunque sapere se questa sia in assoluto la prima opera non accademica di Funi), e si fondono in un vortice in cui si avverte già un’esigenza di movimento che guarda fin da subito alle ricerche dei futuristi.
Occorre fare subito chiarezza sottolineando che torna difficile parlare di un “Funi futurista” (sebbene il pittore, in uno scritto del 1933, ebbe a dichiarare che “ci gettammo allo sbaraglio nel futurismo”), dato che l’artista, pur stimando il lavoro di Boccioni e colleghi, non fece mai parte del gruppo, e la sua ricerca ebbe pochi punti di tangenza con la loro. Si potrebbe però parlare di un “futurismo funiano”, come fa la mostra di Ferrara, evidenziando i punti di tangenza ma anche le divergenze che inevitabilmente separano Funi dai futuristi. Intanto, Funi, a differenza dei colleghi che firmavano i primi manifesti del movimento, sembra essere interessato anche alle novità che giungevano dalla Francia, come dimostra lo stesso Corso Monforte, per cui è fondamentale la lezione di Cézanne (oltre che, sebbene in misura minore, quella di Fernand Léger). Manca, in Funi, un’adesione al futurismo marinettiano “e ai suoi dinamismi astraenti e decostruttivi”, scrive Nicoletta Colombo, rimarcando come, rifiutando anche il “saldo monumentalismo cubista”, l’artista ferrarese “realizza piuttosto matite e guazzi, molti dei quali entrati in collezione Sarfatti, in uno stile cubofuturista caratterizzato da contrasti volumetrici inseriti in un movimento ritmico, plasticamente deformante, lodato nel 1916 dal revisionismo costruttivo di Boccioni, che ne ammira le fasciature delle forme desunte dall’esempio di Cézanne”. Nessun eccesso, dunque, ma uno sperimentalismo che cercava di superare il naturalismo dell’arte ottocentesca attraverso una sorta di mediazione tra le novità che la pittura europea stava producendo in quel periodo.
Funi, semmai, è da considerare più vicino al gruppo Nuove Tendenze, una delle punte dell’avanguardia milanese, fondato da Leonardo Dudreville nel 1913, e che si sarebbe tuttavia risolto con una sola mostra (la vicenda è stata compiutamente esplorata nella mostra che lo scorso anno la Fondazione Ragghianti di Lucca ha dedicato proprio a Dudreville). Il gruppo prendeva le mosse da una mostra organizzata quell’anno, quella dei “rifiutati” del Caffè Cova, un insieme di artisti che erano stati respinti dalla commissione della Biennale di Brera del 1912. Funi aveva esposto in quell’occasione e avrebbe esposto anche nel 1914 alla prima e unica mostra del gruppo Nuove Tendenze. Il gruppo, si legge nel programma redatto da uno dei fondatori, il critico Ugo Nebbia, intendeva “sopratutto dar modo di affermarsi e di venire a contatto diretto col pubblico a quelle espressioni d’arte, le quali, per il loro carattere di avanzata ricerca difficilmente possono farsi conoscere ed apprezzare nel loro giusto valore, nelle consuete esposizioni”. Nebbia poi aggiungeva: “Nessuna formula determinata è imposta: tutti coloro i quali, nell’opera loro sentono di avere seriamente espressa, o tentano di esprimere, una visione personale moderna ed originale, saranno bene accolti”. I novotendenti rappresentavano un gruppo molto eterogeneo, e non riuscirono a darsi un’identità né a trovare un progetto comune, neanche sul piano estetico: anche per questo l’operazione ebbe una durata brevissima. È tuttavia interessante rilevare che Funi partecipò alla mostra con l’opera che segna il suo massimo punto di vicinanza al futurismo, ovvero l’Uomo che scende dal tram, il dipinto che Boccioni avrebbe visto nello studio del pittore nel 1916.
Il dipinto, oggi conservato al Museo del Novecento di Milano, indaga la figura di un passeggero appena sceso dal tram nel suo incedere nello spazio: il mezzo di trasporto, che notiamo sulla destra, è quasi del tutto irriconoscibile perché l’attenzione di Funi si volge proprio alla figura dell’uomo, avvolto in un cappotto, caratterizzato da uno sguardo triste che pare quasi una maschera (probabilmente Funi pensava a un uomo che torna a casa stanco dal lavoro), e raffigurato entro una sorta di cerchio che avvolge con un andamento vorticoso tutto il paesaggio circostante (una città, con i suoi palazzi e le sue luci), per dare l’impressione di movimento e di velocità, così come Funi lo immagina pensando a un uomo che cammina e vede scorrere dietro di sé tutto ciò che lo circonda. L’impressione di movimento che Funi conferisce al suo personaggio è tale che l’uomo sembra quasi cadere: nessun altro dipinto della fase “futurista” del pittore ferrarese si sarebbe spinto fino a questi estremi.
Ciò nonostante, per qualche tempo Funi avrebbe seguitato a dimostrarsi vicino alle istanze futuriste, osservandole però sempre da lontano. Questo perché Funi rimaneva comunque interessato a studiare i suoi soggetti secondo istanze di “dinamismo architettonico della realtà” (così Nicoletta Colombo riprendendo un’espressione di Boccioni), di “movimento delle masse che si deformano sul ritmo delle emozioni plastiche, teorizzate nel 1914 da Boccioni”). Palesano questa sensibilità diverse opere eseguite da Funi tra il 1914 e il 1915, prima cioè della partenza dell’artista per il fronte durante la prima guerra mondiale (il ritorno dal conflitto segnerà una svolta stilistica per il giovane Funi). La Figura in scala cromatica del 1914 è quella che giunge al maggior grado d’astrazione, ed è un’altra opera da considerare in rapporto alla mostra di Nuove Tendenze. L’artista, nel catalogo dell’unica mostra del gruppo, scriveva: “Io entro nel mondo delle forme eliminando, a poco a poco, tutti gli elementi che non sono di esso”. Di conseguenza, nella Figura in scala cromatica tutto ciò che non ha a che fare con il “mondo delle forme” viene abolito, e la figura nel dipinto è solo forme e colori, per quanto si possa riconoscere comunque un volto umano (se ci concentriamo sul dipinto osservandolo da una impressione generale, e quindi senza che ci si soffermi sui dettagli, vediamo il naso, giallo e rosso, l’occhio, nero, la forma appuntita del mento, il colletto della camicia, la cravatta). Un’opera dunque non astratta, anche se debitrice nei riguardi delle idee che s’andavano elaborando nel gruppo Nuove Tendenze. Ha notato comunque la studiosa Elena Pontiggia che “l’immagine è tradotta non in una scala cromatica (come dice il titolo, forse apocrifo ma ormai canonico), quanto in un mosaico costruito per dense tessere di colore”. L’andamento, secondo Pontiggia, “può far pensare a una conoscenza di Delaunay, mediata attraverso Dudreville, che nel 1913 aveva dipinto un’opera di sole falci di colore accostate e sovrapposte (Espansione della lirica). Ma al linearismo musicale di Dudreville, affidato a colori puri e luminosi, Funi contrappone un andamento lento e bloccato, più poligonale che curvilineo, con una gamma cromatica più terrosa e calcinata”.
Esistono poi opere che evidenziano un avvicinamento di Funi ai temi del dinamismo e soprattutto della velocità, cari ai membri della compagine futurista. Molte di queste sviluppano il tema del motociclista, indagato da Funi in diverse opere su carta, su tavola e su tela, e con diverse varianti: una delle più note vede il motociclista con le mani sul manubrio del mezzo e la carena della moto che si allunga in avanti (tanto che a una prima occhiata il motociclista sembra quasi seduto... al contrario), proprio per dare l’idea del movimento. Altra variante nota è quella che sarebbe poi finita sulla copertina di Lussuria – Velocità, raccolta di poemi e poesie di Filippo Tommaso Marinetti pubblicata nel 1921. In quest’opera (la copertina è preceduta da alcune prove su carta e su tela), la motocicletta è colta nel suo correre in mezzo ai palazzi che, come nell’Uomo che scende dal tram, vengono deformati per effetto del dinamismo della moto. Rispetto al Motociclista precedente, questo secondo Motociclista appare più improntato a un linearismo che sintetizza le figure e gli elementi del paesaggio attraverso forme geometriche. La parte alta della copertina del 1921 presenta invece una figura femminile che incarna l’idea della Lussuria: è opera eseguita in un secondo momento, dal momento che qui Funi evidenzia già le caratteristiche del forte sperimentalismo cézanniano che caratterizzerà la sua produzione al ritorno dalla prima guerra mondiale.
C’è poi da sottolineare, per concludere, un Autoritratto futurista che Funi esegue nel 1913: sono passati pochi anni dai suoi primi autoritratti giovanili, ma anche alla propria immagine l’artista, ormai privo di qualunque legame con l’accademia, applica la scomposizione delle forme che contraddistingue le opere del suo periodo “futurista”. Anzi: è una delle più precoci prove del suo interesse per l’avanguardia. Boccioni, nel chiudere il suo articolo su Funi, riteneva che dinnanzi a tutte queste prove l’artista di Ferrara avesse realizzato dei lavori capaci di liberarsi “dalla copia servile”: “la scena o l’effetto che colpiscono il pittore sono lo spunto o la chiave della costruzione plastica […]. Abbiamo con ciò delle opere di una severità plastica finora sconosciuta, delle opere liberate da ogni servitù letteraria o sentimentale. Quando il pubblico se ne accorgerà, vedrà nel Funi uno dei migliori campioni della pittura italiana d’avanguardia”.
Tuttavia, la stagione avanguardista di Achille Funi, come anticipato, sarebbe durata molto poco: già dopo il 1915 si esaurisce il suo interesse per il futurismo, che Funi abbandona per avvicinarsi a Cézanne e al cubismo. E poi, dopo la guerra, nel generale clima di ritorno all’ordine, Funi subirà dapprima il fascino della metafisica dechirichiana, per poi andare in una direzione ancora più classicheggiante: il futurismo è un’esperienza ormai definitivamente archiviata, poiché Funi riscopre l’arte del Rinascimento, l’arte del Cinquecento. Nascerà così il Funi del gruppo Novecento, quello più noto al pubblico dell’arte.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERGli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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