Quattro parole, aforistiche, lapidarie ed energiche, esprimono il credo che Leonardo Dudreville avrebbe professato a partire dagli anni Venti: “idee chiare, chiaramente espresse”. Idee chiare, che respingevano con vigore le precedenti ricerche astratte. Chiaramente espresse, per accogliere la conversione a una ritrovata oggettività, nel segno d’una rappresentazione tesa a vedere le cose per quello che sono, e per la quale Dudreville, nel 1921, avrebbe utilizzato una definizione ancor più epigrafica: “realismo”. Tre anni dopo, il Dudreville rinnovato sulla via delle idee chiare e chiaramente espresse avrebbe esposto alla Biennale di Venezia, con gli altri sodali del gruppo Novecento: Ugo Nebbia, recensendo la mostra su Emporium (il pittore veneziano vi aveva portato una tela di quasi quattro metri di larghezza, Amore - Discorso primo, oggi in collezione Cariplo), riconosceva che Dudreville aveva manifestato apertamente, con quel suo dipinto così impegnativo, “le sue intenzioni di volerci tutto descrivere, anche col sacrificio della sua arte”, e vi riconosceva “le stesse sue buone qualità di pittore preciso e sicuro nel suo oggettivismo”. Il Dudreville dagli anni Venti in poi, il Dudreville novecentista, è forse quello più familiare al pubblico che frequenta le mostre dedicate all’arte del primo scorcio di XX secolo, è quello che si trova talora menzionato anche nei manuali, in qualità di membro fondatore del sodalizio che si muoveva sotto gli auspici di Margherita Sarfatti.
Il germe delle ricerche novecentiste va ricercato in quel Manifesto contro tutti i ritorni in pittura che Dudreville firmò nel 1920 assieme ad Achille Funi, Luigi Russolo e Mario Sironi, e che annunciava l’ingresso in un “periodo di costruzionismo fermo e sicuro” col fine di “fare la sintesi della deformazione analitica, con la conoscenza e la penetrazione acquistate per mezzo di tutte le nostre deformazioni analitiche”. Da qui parte la fase più studiata e più nota della sua carriera, e qui, al contrario, arriva la mostra Leonardo Dudreville e Nuove Tendenze, la rassegna curata da Francesco Parisi che la Fondazione Ragghianti di Lucca dedica all’artista, prendendo però in esame tutto quel che c’era stato prima di quel manifesto: il Dudreville divisionista degli esordi, il Dudreville che s’avvicina al futurismo, il Dudreville fondatore del gruppo Nuove Tendenze, il Dudreville avanguardista, il Dudreville sinestetico. Quindici anni d’attività, tra il 1904 e il 1919 (questo il periodo su cui la mostra si concentra), durante i quali l’artista sperimenta, intrattiene relazioni con il milieu artistico milanese, avvia progetti che mirano a porsi come alternativa all’accademia e al contempo a estinguere i debiti nei confronti del futurismo, col quale tuttavia l’esperienza di Nuove Tendenze avrebbe continuato ad avere tangenze difficili da recidere.
Quattro sezioni introdotte da un’anticamera che presenta Dudreville al pubblico e chiuse da un epilogo documentario: nel mezzo, una serie di dipinti, disegni e sculture che non soltanto ricostruiscono il multiforme itinerario artistico e culturale del Dudreville giovane, ma calano la sua esperienza in un contesto ben definito, che viene proposto in mostra con un percorso che si distingue per la sua solidità scientifica e per il carattere pionieristico del progetto, in linea con quanto si conviene a un centro di ricerca quale è la Fondazione Ragghianti. Inediti, opere rare, novità scientifiche di rilievo (inclusa la prima estesa ricognizione della mostra dei Rifiutati del Caffè Cova del 1912, cui è riservata una sezione a sé), la collaborazione con l’Archivio Dudreville per portare a Lucca lavori significativi, insoliti, difficili da vedere, affascinanti anche per chi dovesse arrivare in mostra senz’aver mai neppure sentito nominare il suo protagonista: la Fondazione Ragghianti accoglie una mostra che costituisce un indiscutibile avanzamento per gli studi sull’arte del primo Novecento, ma è anche occasione per approfondire la conoscenza d’uno degli artisti più singolari del suo tempo, anche perché la varietà dei suoi interessi consente d’osservare con sguardo piuttosto ampio le vicende delle arti italiane nel periodo precedente alla deflagrazione della prima guerra mondiale. E ne risulta di conseguenza una mostra ben godibile, oltre che scientificamente inappuntabile.
Si comincia facendo la conoscenza dell’artista, nella sezione introduttiva, coi ritratti d’un paio di colleghi (Gino Severini e Anselmo Bucci) che restituiscono con fedeltà non soltanto l’aspetto avvenente di Leonardo Dudreville (nonostante avesse perso l’occhio destro: per questo Gino Severini lo ritrae mentre si copre il volto con le mani, e per questa ragione difficilmente si vedrà un ritratto di Dudreville in cui si riesca a veder bene l’occhio menomato), ma financo il suo temperamento altero e i suoi interessi: il ritratto di Gino Severini s’intitola Ascoltando la musica, e il rapporto con la musica è funzionale anche a introdurre la prima sala della rassegna, dedicata al Dudreville divisionista, quello della prima fase, con opere che vanno dal 1905 ai primi anni Dieci. L’inizio è nel segno d’un divisionismo di stretta ascendenza segantiniana, come attestano la Primavera in Valsassina, il Paesaggio romano o il Mattino sull’Appennino: placide visioni montane dove la pennellata divisa in tratti sottili che si fondono tuttavia con pennellate più larghe e dense (col risultato che la pittura analitica di Segantini viene interpretata in chiave molto più leziosa) richiamano la lezione del grande trentino. Rievoca l’arte di Segantini anche l’approccio quasi mistico con cui Dudreville s’avvicina al paesaggio, un approccio evidente soprattutto nella Primavera in Valsassina, dove la fusione tra essere umano e natura arriva al punto che le sparute case aggrappate alla costa del monte si confondono col paesaggio e paiono quasi pareti di roccia. Le tre opere dipinte a Borgotaro, ovvero Borgotaro, Meriggio a Borgotaro e Inverno a Borgotaro (l’artista ricorderà il freddo patito sui monti per dipingere questi due quadri nelle sue memorie, che rivelano anche singolari qualità di scrittore da parte di Dudreville, ragion per la quale spesso appaiono molto romanzate e dunque poco affidabili, ma di gustosissima lettura) segnano un primo affrancamento dalla più stretta osservanza segantiniana, in favore di modi più fluidi e distesi che condurranno ad alcuni lavori come il Sottobosco (inedito), le Lucciole e la Trilogia campestre, nelle quali s’accentua la ricerca sinestetica dell’artista.
Particolarmente emblematica risulta la Trilogia campestre, di cui sono esposte la Fiera e Le voci del silenzio, rispettivamente la veduta dall’alto d’una fiera agreste e un intenso, evocativo notturno di campagna illuminato dalle bioluminescenze d’uno sciame di lucciole che punteggia, coi suoi bagliori dorati, un campo sul quale si staglia un albero solitario. Il tema centrale del trittico, scrive Francesco Parisi riprendendo Elena Pontiggia, è la musica, “una sorta di partitura che fa da sottofondo, dal brusio notturno allo stormire delle foglie dell’albero, fino al liturgico suono delle campane”: l’“ispirazione sonora” veniva a Dudreville dalla conoscenza della pittura che guardava al simbolismo, prova del fatto che già agli esordi Dudreville s’interrogava su come estendere i limiti della propria arte. Proprio in questa ricerca che portò Dudreville a eseguire dipinti così capaci di suscitare sensazioni uditive, in questo tentativo di rendere il suono per mezzo del colore, occorre trovare, sottolinea Parisi, “il viatico a un più profondo inserimento dell’artista in un contesto avanguardistico che andava favorendo l’apertura verso questa nuova modalità espressiva”. Si può così intuire una delle ragioni che portarono Dudreville ad avvicinarsi ai futuristi, dacché i futuristi negli stessi anni andavano sperimentando ricerche a metà tra arte e musica (il Manifesto dei musicisti futuristi è del 1910).
S’incontra poi una sezione spartiacque, quella dedicata alla mostra dei Rifiutati del Caffè Cova di Milano, organizzata nel 1912 da un gruppo d’artisti le cui opere non erano state dalla commissione della Biennale di Brera dello stesso anno (si calcola che più della metà di quanto venne notificato alla commissione dovette subire il rifiuto da parte di quest’ultima). Per la prima volta una mostra ricostruisce l’evento cui viene assegnata un’importanza non secondaria, dal momento che la tesi della mostra è che la mostra dei refusés braidensi costituì da un lato occasione per riunire e compattare tutta l’avanguardia milanese, e dall’altro la base per la nascita del gruppo Nuove Tendenze animato da Dudreville. I quadri selezionati per la mostra lucchese, nonostante il numero ridotto (sono otto), costituiscono un nucleo decisamente eloquente per render palese il limite principale di quella rassegna, ovvero il fatto che parlasse linguaggi troppo diversi. Si passa dunque dalla Gru elettrica di Mario Chiattone che s’avvicina al futurismo (specialmente per l’interesse al soggetto urbano) ma guarda ancora alla tradizione, al Nudo con mascherine di Siro Penagini che invece rivolge lo sguardo alla Francia di Cézanne e Gauguin, e poi ancora dal divisionismo d’un Aroldo Bonzagni interessato alla vita moderna col suo Londra sotto la pioggia (dove peraltro, nella figura maschile, s’è proposto di riconoscere lo stesso Dudreville) alle istanze secessioniste di Guido Cadorin e di Achille Funi. La rassegna si presentava con intenti incendiari, sebbene gran parte dei Rifiutati avesse in passato già esposto a Brera, e la protesta mancasse d’un indirizzo preciso: Niccolò D’Agati, che nel catalogo di Leonardo Dudreville e Nuove Tendenze ha ricostruito con dovizia la storia della mostra del Caffè Cova, scrive che “si trattò di una mostra incapace [...] di darsi una fisionomia definita non solo in termini linguistici [...] ma a livello strutturale: mancava un programma e una reale necessità della mostra”. Così, “al di fuori di un posato bollore futuristeggiante, l’avanguardia dei Rifiutati era l’avanguardia che ogni anno esponeva ai concorsi Brera”. Sembrava, anche a diversi critici che recensirono la mostra, più la risposta piccata d’un insieme variopinto d’artisti che desiderava un proprio riconsocimento in un’esposizione ufficiale, che l’avvio d’una vera esperienza alternativa. Fu però da questo humus che trasse linfa la nascitura esperienza di Nuove Tendenze.
Per arrivarci rispettando l’iter cronologico, occorre seguire un percorso un po’ tortuoso, dato il materiale della mostra e data la conformazione degli spazi espositivi della Fondazione Ragghianti: si salta la sala successiva (che ospita la sezione conclusiva: ci si ritornerà in seguito) e si raggiunge l’ammezzato, dov’è accolto il capitolo della mostra dedicato alla nascita (e alla fine, data la sua brevissima durata) del gruppo Nuove Tendenze. S’era costituito per iniziativa di Dudreville e del summenzionato Ugo Nebbia, critico d’arte, nel 1913: era un gruppo estremamente composito, eterogeneo per mezzi espressivi e soprattutto per linguaggi, sorto essenzialmente da un sostrato futurista e poi aperto ad accogliere personalità provenienti anche da esperienze del tutto diverse. Lo stesso programma, redatto da Ugo Nebbia, aveva carattere molto aperto: “Intende il gruppo Nuove Tendenze”, vi si leggeva, “sopratutto dar modo di affermarsi e di venire a contatto diretto col pubblico a quelle espressioni d’arte, le quali, per il loro carattere di avanzata ricerca difficilmente possono farsi conoscere ed apprezzare nel loro giusto valore, nelle consuete esposizioni”. E aggiungeva, in maniera esplicita: “Nessuna formula determinata è imposta: tutti coloro i quali, nell’opera loro sentono di avere seriamente espressa, o tentano di esprimere, una visione personale moderna ed originale, saranno bene accolti”. La prima (e ultima) mostra del gruppo apriva a Milano il 20 maggio del 1914, e avrebbe ricevuto un’accoglienza piuttosto fredda dalla critica. La vita di Nuove Tendenze ebbe breve durata: l’effimera eesperienza poteva dirsi già conclusa dopo quella prima mostra.
A Lucca, la sala dedicata alla mostra di Nuove Tendenze riunisce un’accurata selezione di tutto quanto il gruppo aveva proposto, tra pittura, scultura, architettura. Dudreville esponeva le Quattro stagioni (in mostra si trova l’Autunno), ciclo che si distingue, scrive Agnese Sferrazza nella scheda in catalogo, per l“equilibrio assoluto con il quale Dudreville riesce a fondere e utilizzare elementi realistici di vita quotidiana (i fiori che sbocciano, il grano e i panni stesi ad asciugare al vento, il cielo nuvoloso sopra la città, il grigiore degli alberi spogli nel viale affollato) con una struttura compositiva sostanzialmente astratta supportata dalle scelte coloristiche totalmente coerenti e paradigmatiche del soggetto raffigurato”. Dudreville si rivelava pittore aggiornato e portato alla ricerca, e aveva ottenuto consensi per il modo innovativo e radicale col quale affrontava un soggetto tradizionale (al contrario dei futuristi che invece prediligevano i temi della modernità), e lo dimostrava ulteriormente anche con quadri totalmente astratti, i “ritmi” (in mostra i Ritmi emanati da Ugo Nebbia e i Ritmi emanati da Antonio Sant’Elia), coi quali esprimeva in forma di linee, forme e colori le sensazioni psicologiche che i suoi amici gli suscitavano, sulla base dell’intenzione di voler tradurre un sentire in una “multipla potenza di forma, colore, profondità”, per adoperare le stesse parole dell’artista.
Tra gli altri artisti che avevano esposto alla mostra di Nuove Tendenze è possibile annoverare Achille Funi, presente col suo Uomo che scende dal tram, opera che segna il massimo punto di tangenza col futurismo da parte d’un artista che poco avrebbe avuto a che spartire con l’avanguardia di Boccioni e colleghi (per quanto questo stesso dipinto non possa considerarsi opera pienamente futurista, scrive Maria Letizia Paiato, “per la sua tendenza alla solidità e al ritmo dei volumi”), e ancora Adriana Bisi Fabbri, unica donna del gruppo, che alla mostra del gruppo Nuove Tendenze si presentava con La danza, che guardava invece alla pittura francese dimostrando una certa conoscenza dei fauves, dei quali tuttavia proponeva un’interpretazione più aggraziata. E poi ancora Carlo Erba: le nove opere che portò alla mostra di Nuove Tendenze oggi sono disperse, ma la rassegna della Fondazione Ragghianti sopperisce con Le trottole del sobborgo (che vanno), particolarissimo studio di movimento venato di suggestioni espressioniste. L’architettura è rappresentata dai fogli di Giulio Ulisse Arata e di Antonio Sant’Elia, mentre l’unica scultura a Lucca è la Vecia Marinela del veneto Giovanni Possamai, che declina il verismo lombardo secondo suggestioni francesi e secessioniste.
Neppure i novotendenti riuscirono a darsi un’identità, a trovare un progetto comune, a seguitare oltre i proclami forse un po’ troppo ecumenici del manifesto, a dare un’organizzazione estetica al gruppo, col risultato che poi ognuno avrebbe continuato per la propria strada. Dudreville, che pur avendo sciolto il gruppo continuò per qualche tempo a utilizzarne il nome in alcune pubblicazioni, dapprima smussò le punte più radicali del suo astrattismo, tornando a un’arte più mediata, dimostrata dalla Lirica del tramonto del 1914, dipinto in cui un paesaggio di campagna al crepuscolo viene rigorosamente suddiviso in due registri nettamente distinti e diversi tra loro: una pittura sintetica nella parte bassa, per descrivere alberi e case, e viceversa una scomposizione di forme e colori per studiare, nel registro superiore, la luce del tramonto, secondo uno schema di linee diagonali tipico del futurismo, adoperato per trasmettere un senso di poesia, come il titolo suggerisce. Si provano sensazioni simili osservando Aspirazione, in prestito dal Mart di Rovereto, uno dei dipinti più famosi di Dudreville, che avrebbe dichiarato d’averlo eseguito per esprimere “l’istintivo bisogno dell’uomo a salire e a perfezionarsi, a portare il proprio io in sfere più elevate e migliori”. L’anelito a salire di Dudreville si sostanzia in una trama d’incroci di linee, un abbagliante moto ascensionale che s’eleva al di sopra d’una partitura cupa: le forme della porzione bassa del dipinto intendono ricordare l’atmosfera caotica d’una città, simbolo della vita materiale, mentre le lame di luce che partono da un centro rosso vivo, a significare un cuore pulsante, s’alzano verso l’alto con cromie sempre più pure per trasformarsi in una sorta di colonna che prosegue idealmente oltre i limiti del quadro.
Aspirazione rappresenta il vertice della ricerca di Dudreville sugli stati d’animo e, più in generale, sull’espressione dell’interiorità per mezzo della pittura: in seguito, l’artista veneto si sarebbe dedicato in via pressoché esclusiva alla rappresentazione di fenomeni esteriori, dal paesaggio di Nel bosco di castagni completato nel 1918 (nell’ambito della mostra della Fondazione Ragghianti è stato pubblicato lo studio per il dipinto, inedito), che però non rinuncia a suggerire l’idea che anche i fenomeni naturali abbiano un ritmo, fino ad arrivare a un dipinto come Senso, un nudo femminile che, pur presentandosi con le scomposizioni tipicamente futuriste, tornava a guardare al simbolismo (si veda il modo in cui è dipinta la chioma bionda della protagonista) e soprattutto s’indirizzava verso quella realtà oggettiva che di lì a poco avrebbe rappresentato l’unico orientamento di Dudreville. Senso fu peraltro esposto alla Grande Esposizione Naziaonale Futurista del 1919, dove fu ammirato e apprezzato da Gabriele d’Annunzio. La mostra si chiude con Il caduto del 1919, opera in prestito dal Museo del Novecento di Milano, che raffigura un episodio raccontato nei minimi dettagli dallo stesso Dudreville nelle sue memorie: la caduta di un anziano, soccorso dai passanti, nel centro di Milano. Il “vecchietto magrissimo, minuto, e orribilmente cadaverico in volto”, come lo avrebbe descritto Dudreville, raffigurato in un dipinto al contempo grottesco e tragico, che probabilmente tradisce la conoscenza degli esperimenti che s’andavano conducendo all’epoca nella Germania dove sarebbe sorta la Neue Sachlichkeit, segna il punto di svolta verso il “realismo” nell’arte di Dudreville, e il punto d’arrivo della mostra di Lucca.
È del resto proprio Il caduto l’opera nella quale lo stesso Dudreville riconosceva la propria svolta: nelle sue memorie l’avrebbe descritta come piuttosto repentina, partita da quello stesso accadimento che gli aveva ispirato il dipinto, ma in realtà sappiamo essere stata decisamente più meditata e meno istintiva di quanto appaia dalla lettura del testo, malgrado Il caduto possa essere ritenuto un manifesto di questo totale e radicale cambio di paradigma. “Già negli anni precedenti”, ricorda Elena Pontiggia, che nel suo saggio in catalogo si concentra proprio sulle motivazioni di tale svolta, “l’artista aveva oscillato tra la scomposizione della forma e il progressivo emergere, in quelle scomposizioni, di frammenti di figure e cose lasciati intatti”. Senso è una delle opere più adatte a comprendere l’emergere in nuce di questo “nuovo” Dudreville. Il realismo si pone dunque come “metamorfosi espressiva che non nasce da una rivoluzione, ma dall’evoluzione di istanze presenti anche nelle opere precedenti dell’artista”: anche nelle sue ricerche d’avanguardia, difficilmente aveva rinunciato a elementi ricavati dalla tradizione.
La mostra è pertanto esemplare nel far emergere una figura complessa e dal percorso estremamente vario quale fu Leonardo Dudreville. Ma la rassegna della Fondazione Ragghianti interviene non soltanto sull’artista, che ne esce come figura tutt’altro che secondaria nel panorama delle arti degli anni Dieci, a scapito del fatto che il suo nome sia ancora poco noto al grande pubblico: la mostra fa luce anche sull’estensione del contributo che il gruppo Nuove Tendenze riuscì a fornire all’arte di quegli anni. Lungi non solo dall’essere esaltata, ma anche dall’essere collocata in uno spazio storiografico che non le si addirebbe, l’esperienza di Nuove Tendenze viene presentata al pubblico con tutti i suoi limiti, primo su tutti “l’intrinseca debolezza di un’avanguardia priva della capacità di compattarsi attorno a un progetto comune”, come scrive D’Agati nel suo contributo, ma anche come tentativo, per quanto velleitario, di proporsi come alternativa, oltre che come momento di embrionale sviluppo di linee estetiche che sarebbero in seguito sfociate nelle stesse istanze novecentiste, come nota Alessandro Botta. E non andrà poi dimenticato il ruolo “promozionale”, si passi il termine, che il gruppo attribuiva alla figura del critico d’arte (tanto che lo stesso gruppo, a fronte di sei artisti che sottoscrivevano il primo comunicato ufficiale, pubblicato nel 1913, includeva ben quattro critici, o “pubblicisti”, come loro stessi curiosamente si definivano): lo stesso Decio Buffoni, uno dei quattro, pubblicava un’entusiastica recensione sul quotidiano La Perseveranza all’indomani dell’apertura. Forse è anacronistico vedere nei critici di Nuove Tendenze degli antesignani degli odierni curators che s’arrabattano per promuovere iniziative spesso di dubbia efficacia e dubbio interesse, ma con una certa ironia si potranno notare delle originali simiglianze. Al di là delle facezie, la collocazione critica e storiografica di quell’esperienza è restituita dalla mostra in maniera estremamente rigorosa: si uscirà dunque dalla Fondazione Ragghianti ben certi d’aver visitato una mostra di spessore, sostenuta da un corposo catalogo, che ha il taglio d’una monografia (sono incluse anche riproduzioni di diversi dipinti non compresi nel percorso espositivo), colmo di novità e spunti per ulteriori approfondimenti.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).