Chi erano gli scultori che hanno scolpito le maestà, i rilievi votivi che abbondano sulle strade antiche delle Alpi Apuane? È questa la domanda alla quale intende rispondere il libro I maestri delle maestà. Protagonisti e comprimari, edito da GD Edizioni (67 pagine, 20 euro, ISBN 9791280745064). Chiunque abbia visitato la Lunigiana, la val di Magra o la Versilia storica ha di sicuro incontrato, in un vicolo di un borgo, in una mulattiera o in una strada di montagna, una maestà: erano piccoli bassorilievi devozionali, in marmo, che venivano collocati sempre sulle pareti esterne e che ebbero una grande diffusione almeno a partire dalla seconda metà del Cinquecento, dopo la fine del Concilio di Trento. Le maestà dovevano infatti ispirare fede e devozione in chi le osservava. Il fenomeno durò fino almeno alla metà del XX secolo.
A lungo studiate, oggetto di numerosi approfondimenti, sono rimaste per lo più anonime, e non ci sono stati in passato tentativi di ricostruzione dell’identità dei loro autori. Prima di arrivare al libro di GD Edizioni è stato tuttavia necessario un imponente lavoro di schedatura su iniziativa del CAI di Sarzana che si è avvalso della consulenza scientifica dello storico dell’arte Piero Donati, tra i massimi esperti in materia: il progetto, intitolato Le Maestà della Lunigiana storica, alla data del 15 marzo 2022 ha censito già più di tremila maestà (la maggior parte concentrata sul territorio di Fivizzano, dove al momento si contano 421 maestà, e di Carrara, dove ne sono state schedate 340), tutte consultabili, con buone fotografie, schede, dati tecnici e geolocalizzazione sul sito www.lemaesta.it.
“Questo tracciamento”, spiega il gruppo di lavoro composto da Pete Avenell, Franca Bologna, Liliana Bonavita, Luciano Callegari, Luciana Corsi, Fabrizio Franco e Nello Lombardi, “tutela il bene facendolo uscire dall’anonimato, dandogli identità geografica e storica ed una condizione di riconoscibilità che speriamo, da un lato, stimoli le Istituzioni ad un’opera di tutela e restauro, e dall’altro, in caso di furto, lo renda identificabile alle forze dell’ordine deputate e consenta di perseguirne la sottrazione quando ad esempio la lastra dovesse ricomparire sul mercato antiquario”. Un significativo progetto scientifico che ha consentito di valorizzare in maniera rilevante questo importantissimo patrimonio storico e artistico, e ha stimolato l’avvio di ulteriori studi e approfondimenti, dei quali I maestri delle maestà. Protagonisti e comprimari è uno dei risultati più aggiornati: senza il lavoro di schedatura non sarebbe stato infatti possibile procedere con comparazioni per “famiglie” delle maestà e individuare dunque i loro autori.
Dello studio si è occupato lo stesso Piero Donati, che ha ravvisato evidenti legami di parentela tra diverse maestà, risultanti dall’analisi stilistica di questi rilievi marmorei. Lo studioso individua alcune importanti premesse da cui partire: intanto, occorre considerare la maestà anzitutto come prodotti scultorei, che si diffondono per lo più negli strati intermedi della società, convinti che il marmo fosse il materiale più pregiato e quindi fosse una sorta di status symbol, circostanza che contribuì a fornire molto lavoro alle botteghe dei maestri che scolpivano le maestà. Inoltre, si trattava di prodotti molto diffusi, che a dorso di mulo potevano raggiungere aree molto vaste: sono attestate maestà non solo in Lunigiana e nella Versilia storica, ma anche in Garfagnana, al di là dell’Appennino fino a Castelnovo ne’ Monti, a Borgo val di Taro e nelle montagne del Parmense, e a ovest nella Val di Vara, fino addirittura a Sestri Levante. E poi, rimane il fatto che mancano attestazioni scritte sulla maestà, fatta ovviamente eccezione per le iscrizioni che spesso le accompagnano. Dunque, il fatto che non esistano fonti scritte costringe a tentare di individuare gli autori delle maestà soltanto su basi stilistiche. E soprattutto, per la stragrande maggioranza degli autori non è possibile risalire a un nome e un cognome: occorre dunque identificarli con le formule dei namepiece.
Donati rintraccia le origini delle maestà in alcuni rilievi votivi quattrocenteschi che si trovano nei borghi sui monti di Carrara: si parte dal 1466, anno in cui uno scultore, Pietro di Guido da Torano, firma un San Bernardino i cui modi verranno ripresi da un “Maestro di Miseglia” responsabile, secondo Donati, di sette lastre che si trovano tra Carrara e Fivizzano, avvicinabili ovviamente su basi stilistiche. Si tratta tuttavia di episodi sporadici: per assistere a una rapida diffusione delle maestà sarà necessario attendere la fine del Concilio di Trento: la forte crescita di queste opere si registra infatti a partire dalla fine del Cinquecento, e si tratta di opere che raggiungono una qualità neanche paragonabile a quella dei rilievi del Maestro di Miseglia, proprio perché nel XVI secolo si assiste a un importante salto di qualità nella committenza (“più informata e più esigente”, scrive Donati), e di conseguenza nell’operato dei maestri.
Nei primi decenni del Seicento nasce una vera industria delle maestà, con ciò che le produzioni seriali comportano: opere di qualità minore, ma possibilità di rintracciare i luoghi in cui lavorarono i maestri e le loro botteghe. Il primo maestro a cui è possibile dare una fisionomia precisa è quello che Donati chiama il “Maestro delle Madonne in Trono”, che risulta attivo nel 1626 e a cui si attribuiscono rilievi presenti a Massa, Avenza, Fivizzano, Monchio delle Corti e Licciana Nardi. Si tratta di un autore interessante, le cui formule furono diffuse e riprese da altri artisti più impacciati di lui e che dunque possono essere ragionevolmente identificati come suoi seguaci. Si colloca invece dopo la metà del Seicento la vicenda del “Maestro del 1659”, così identificato da una maestà presente a Castelnuovo Magra, dove si legge questa data. Si tratta secondo Donati di un artista per il quale è possibile ricostruire un corpus di almeno venti opere, collocabili in un periodo che va dal 1645 al 1668, ma che si può pensare sia molto più ampio: il maestro, scrive Donati, era anche affiancato da un “addetto alle iscrizioni”, un “abile lapicida che si distingue per la regolarità tondeggiante delle lettere, prive delle apicature e degli espedienti grafici propri della produzione epigrafica coeva”. Il Maestro del 1659, continua lo storico dell’arte, “seppe conquistare il favore della comittenza in virtù di formule espressive dalle quali sono banditi i rovelli grafici di cui si compiacevano gli eredi del ’maestro delle Madonne in Trono’; la compostezza dei gesti, la castigatezza dei panneggi, la chiarezza compositiva sono la cifra stilistica di questo maestro”. Anche questo scultore diffuse formule che sopravvissero a lungo: si possono infatti rintracciare opere derivanti dal suo linguaggio anche a fine secolo.
Il primo maestro a cui si può dare un nome è Giovanni di Fabio Carusi da Moneta, artista già noto in precedenza agli studi: originario del borgo di Moneta, sulle colline attorno alla piana del Carrione, fu autore dalla “spiccata tendenza conservatrice”, scrive Donati, che denotava “una netta preferenza per la sobrietà espressiva e per l’adozione di formule sperimentate, prima fra tutte la peculiare tendenza a far levitare le figure, come se fossero senza peso”. Infine, un ultimo “geniale anonimo” (così Donati) a cui si può dare un rilievo è l’anonimo del 1685, autore di una lastra ad Aulla commissionata da tale Jacopo di Virgilio Gili, e che si distingue per la minuzia con cui scolpisce i dettagli, in una composizione decisamente movimentata, capace di un’immagine a metà tra scultura e glittica, secondo Donati. Ci fu anche chi tentò di avvicinarsi al linguaggio di Bernini e di Algardi: è il caso del “Maestro del ramo di giglio”, autore di una maestà del 1679 in cui tenta d’accostarsi alla grande scultura barocca romana.
Risulta più difficile ricostruire personalità di artisti tra Sette e Ottocento, periodo in cui le botteghe del territorio si avviano verso una “produzione tendenzialmente impersonale, degna però di un’accurata indagine in sede iconografica”. Diverso è invece il panorama del XX secolo, epoca in cui è possibile individuare alcune mani, come quella dello scultore che fra il 1923 e il 1929 eseguì sette lastre sul tema di sant’Antonio abate. Erano le ultime battute di un’arte che ha caratterizzato il territorio apuano per quasi cinque secoli e che si sarebbe arrestata negli anni della seconda guerra mondiale.
Il lavoro di tracciatura delle maestà delle Alpi Apuane, che va avanti ormai da più di tre anni, è ben lontano dal dirsi finito, ma anche se non è stato completato, la mole di materiale sin qui raccolta ha permesso uno studio accurato come quello che ha portato a I maestri delle maestà. Protagonisti e comprimari. Un volume di grande importanza, dal momento che il saggio di Piero Donati costituisce un primo passo verso la ricostruzione della fisionomia dei maestri dalle cui botteghe uscivano quei rilievi devozionali che costituiscono una porzione rilevante del patrimonio culturale delle terre apuane. E c’è da attendersi che ulteriori risultati emergeranno in futuro.