di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 28/01/2020
Categorie: Opere e artisti / Argomenti: Arte antica - Lunigiana - Toscana
Le “maestà” sono i bassorilievi votivi in marmo che punteggiano le strade delle Apuane e della Lunigiana. Un approfondimento alla luce delle ultime ricognizioni.
“Preghiere di pietra”: così, con questa immagine d’icastica immediatezza, la studiosa Caterina Rapetti aveva ribattezzato le maestà della Lunigiana in uno studio pubblicato nel 1992, dopo un decennio di ricognizioni sul territorio, finalizzate a censire la porzione lunense di quello straordinario patrimonio d’immagini votive che punteggia le strade, i vicoli, le mulattiere d’una zona che, dalla valle del fiume Magra, s’estende verso nord scavalcando le cime dell’Appennino emiliano lungo le valli del Taro, dell’Enza e dei Cavalieri e, in direzione orientale, arriva a toccare i borghi della Versilia storica e a lambire la Garfagnana. Per “maestà” intendiamo i piccoli bassorilievi devozionali che venivano posti agli angoli delle vie, sulle facciate delle case, sui sentieri di montagna o lungo le strade di comunicazione che collegavano tra loro borghi e città di questa zona d’Italia. È sempre su di una parete esterna che troviamo una maestà, mai in un luogo chiuso: nel caso dovessimo trovarne in una chiesa o in un qualsiasi altro edificio, significa che il rilievo v’è stato condotto successivamente, e che quella non era la sua collocazione originaria. E sebbene l’uso d’esporre simulacri di tal fatta lungo le strade sia attestato fin da tempi antichissimi, è a seguito del Concilio di Trento che conobbe una diffusione su larga scala. Lo stesso termine “Maestà”, spiegava Rapetti, rammenta le radici ancestrali di questa pratica: maiestas era l’appellativo con cui, già in epoca tardo antica (a partire dal IV secolo dopo Cristo), s’identificavano i santi e, più in generale, le divinità cristiane.
S’è motivato il moltiplicarsi eccezionale delle maestà a partire dalla seconda metà del secolo XVI sulla base delle conclusioni stesse cui il Concilio era giunto: queste immagini, che rappresentavano soprattutto Madonne e santi, dovevano essere “segni di fede, elementi ispiratori di devozione” (così Davide Lambruschi), suscitare sentimenti pii in chi le osservava, diffondere i valori della fede, in accordo con le prescrizioni della Chiesa tridentina. “Le nostre maestà”, ha scritto Rapetti, “vanno collocate nel contesto delle disposizioni impartite dai vescovi a seguito del dibattito conciliare e dei principî in quella sede affermati e di lì ricevono quelle prescrizioni anche tipologiche che le caratterizzeranno per lungo tempo”. Anche queste immagini divenivano, in sostanza, mezzi per richiamare i fedeli. Anzi: il loro affiancarsi alle immagini di culto, ovvero quelle che intervenivano in una dimensione pubblica, collettiva, e di conseguenza codificata secondo precisi rituali (le maestà, al contrario, erano immagini di devozione, intese per un’adorazione privata e raccolta), era un mezzo efficace per far sì che i principî di fede stabiliti dal Concilio conoscessero una capillare propagazione. Le maestà sono dunque la più evidente testimonianza d’una cultura religiosa diversa rispetto a quella ufficiale (di questi oggetti, del resto, neppure era fatta menzione nei documenti ecclesiastici), ma da essa non separata e, anzi, complementare, si potrebbe dire: Arturo Carlo Quintavalle, nell’introduzione allo studio di Caterina Rapetti, le interpretava come prodotti che di popolare avevano soltanto la destinazione (e, naturalmente, il carattere spesso grossolano dell’esecuzione e della rilettura dell’archetipo), dal momento che i loro modelli erano quasi sempre di livello alto, se non altissimo (“niente di ‘popolare’ in questi prodotti pur rivolti alla religiosità di tutti e niente di spontaneo: tutto appare programmato ben all’interno della civiltà di immagine che ritroviamo nelle chiese e nei santuari della zona”). Si trattava, volendo trovare una sintesi, d’un “progetto globale di acculturazione religiosa”, come lo chiamava Quintavalle, una “sintesi delle culture auliche”, rivolta tanto agli abitanti delle più remote vallate lunensi quanto ai viandanti in transito da queste zone, da sempre terre di passaggio, come lo sono tuttora, collegamento tra il nord e il centro della penisola.
C’è poi un ulteriore elemento da sottolineare, utile anche per ragionare su alcuni spunti di riflessione introdotti da Piero Donati nel suo più recente saggio, Le maestà delle Apuane, pubblicato nel libro Borghi paesi e valli delle Alpi Apuane, curato da Guglielmo Bogazzi e Pietro Marchini e uscito nel 2019 per i tipi di Pacini Editore: l’adesione alle istanze controriformistiche che si rende manifesta anche attraverso il materiale con cui le maestà venivano realizzate, il marmo delle Alpi Apuane. “Il crescente favore col quale [...] i potenziali committenti [...] accolgono l’impego del marmo bianco”, scrive lo storico dell’arte, “non era scontato e presuppone un mutamento culturale non indifferente: collocando un’immagine marmorea al di fuori dei luoghi di culto (ma sempre e comunque in luoghi accessibili in permanenza alla vista) il devoto attesta la propria ortodossia e, nello stesso tempo, la propria adesione ad una gerarchia estetica che vede il marmo bianco in testa alla classifica. Si tratta quindi di una devozione razionale e dunque in linea con i canoni tridentini, nella quale l’emotività non gioca un ruolo primario”. E i committenti, d’estrazione borghese (il marmo rimaneva comunque un materiale pregiato, e non a tutti era data facoltà di spendere per un’opera, anche di piccole dimensioni, in marmo), tenevano a mettere in evidenza il loro sentimento: su buona parte delle maestà compare la formula per sua devotione, che s’accompagna al nome del committente (ci sono peraltro giunte anche maestà commissionate da donne). Se si menziona il marmo, vien naturale pensare a Carrara, che diventò il principale centro di produzione da cui le maestà partivano e si diffondevano nelle aree limitrofe, e nella stessa città è possibile incontrare alcuni significativi esempî di come la devozione popolare reinterpretasse i più alti modelli dell’arte del tempo. In via Nuova, nel centro storico, un San Michele è una traduzione pressoché letterale della celeberrima tela che Guido Reni (Bologna, 1575 - 1642) dipinse nel 1635 per la chiesa dei Cappuccini a Roma, e ancora una Presentazione al tempio si configura come una ripresa vernacolare d’un modello baroccesco e, più a monte, a Colonnata, un’Annunciazione che si trova all’ingresso di quello ch’è oggi un ristorante tipico, è probabilmente esemplata su di un’incisione di Cornelis Cort (Hoorn, 1530 - Roma, 1578), a sua volta derivata da un’invenzione di Giulio Clovio. Non mancavano, tuttavia, modelli di riferimento più antichi: nel centro di Carrara, sulla salita di Grazzano, ci s’imbatte in un’Annunciazione che ricalca fedelmente l’affresco ritenuto miracoloso che un seguace di Giotto dipinse verso la metà del Trecento e davanti al quale oggi pregano i devoti nella chiesa della Santissima Annunziata di Firenze.
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Scultore ignoto, San Michele arcangelo (XVII secolo; marmo; Carrara, via Nuova). Ph. Credit Finestre sull’Arte
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Guido Reni, San Michele arcangelo (1635; olio su tela, 295 x 202 cm; Roma, chiesa dei Cappuccini)
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Scultore ignoto, Presentazione della Vergine al Tempio (XVII secolo; marmo; Carrara, via Pellegrino Rossi). Ph. Credit Finestre sull’Arte
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Federico Barocci, Presentazione della Vergine al Tempio, dettaglio (1593-1603; olio su tela, olio su tela, 383 × 247 cm; Roma, Chiesa Nuova)
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Scultore ignoto, Annunciazione (XVII secolo; marmo; Carrara, borgo di Colonnata). Ph. Credit Progetto Le Maestà della Lunigiana storica
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Cornelis Cort (da Giulio Clovio), Annunciazione (XVI secolo; incisione, 276 x 204 mm; San Francisco, Fine Arts Museums of San Francisco)
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Scultore ignoto, Annunciazione (XVII secolo; marmo; Carrara, salita di Grazzano). Ph. Credit Finestre sull’Arte
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Seguace di Giotto, Annunciazione (1350 circa; affresco; Firenze, Santissima Annunziata)
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L’eco dei nuovi modelli iconografici che s’affermarono nel corso del Seicento e oltre si sarebbe poi riverberata anche sulla produzione delle maestà: occorre perciò verificare, spiega Donati, se gli stimoli provenienti da Roma su impulso dei Cybo Malaspina, duchi di Massa e principi di Carrara che all’epoca intrattenevano strette relazioni con la curia pontificia (si pensi al cursus honorum di Alderano Cybo-Malaspina e al suo ruolo di promotore delle arti, sottolineato negli ultimi anni dai lavori dello studioso Fabrizio Federici), si siano riversati anche sul “microcosmo delle maestà”. Lo studioso ligure introduce a tale scopo un confronto tra una Madonna col Bambino e i santi Francesco e Antonio del 1676, situata a Marciaso, nei pressi di Fosdinovo, e una Vergine addolorata con Cristo morto e i santi Antonio da Padova e Simone Stock, opera del 1747 posta sulla sommità d’un portale ad Argigliano, vicino a Casola in Lunigiana. Lo schema compositivo, malgrado gli ottant’anni tra una scultura e l’altra, è lo stesso, ma nuovi elementi animano la lastra di Argigliano, a cominciare dalle più naturalistica proporzione delle figure (nella lastra di Marciaso lo scultore aveva invece seguito un rapporto gerarchico), fatta eccezione per il corpo del Cristo morto, le cui dimensioni sono visibilmente più ridotte rispetto a quelle degli altri personaggi. Donati spiega questa particolarità sulla base della diffusione del culto della Madonna di Soviore, una Pietà d’area nordica che Gianluca Zanelli ha datato al 1420-1425 circa e ch’è conservata nel santuario di Soviore, sulle colline dietro Monterosso al Mare. Negli anni Quaranta del Settecento l’edificio venne ampliato e rinnovato: era l’epoca che precedeva, scrive Donati, “la solenne incoronazione dell’immagine di culto decretata nel 1749 dal Capitolo della Basilica di San Pietro di Roma ed è probabile che la maestà di Argigliano costituisca una preziosa testimonianza del fervore che accompagnò la crescita di questo culto”. È pertanto provato che le maestà rispondessero a quanto accadeva nei principali luoghi di culto, e che fossero in grado di farlo sviluppando un linguaggio autonomo.
Diversi altri fattori possono giustificare la vasta fortuna che le maestà incontrarono: Donati, già in un suo saggio incluso nel volume Marmora insculpta, per sua divotione, pubblicato da Luna Editore nel 1998, ne elencava almeno altri due. Il primo sarebbe da individuare nell’azione riformatrice di Giovanni Battista Salvago (Genova, 1560 - 1632), che fu vescovo di Luni tra il 1590 e l’anno della sua scomparsa, il 1632: un quarantennio durante il quale il prelato cercò di rinnovare le dinamiche del culto locale (e prova ne è la sua attività attorno alla croce di Guglielmo a Sarzana, che oggi consideriamo tra i maggiori capolavori della storia dell’arte occidentale, ma che allora, nel 1602, divenne oggetto d’una sentita devozione popolare a seguito d’uno spostamento della sua collocazione, voluto dal vescovo stesso). Il secondo, cui s’è già rapidamente accennato, è invece la crescita d’interesse per il marmo come mezzo d’espressione artistica: sia sufficiente pensare al peso che il nobile materiale assunse nella Roma barocca, per avere un’idea dell’importanza che la committenza gli attribuiva. E questo assunto era valido per il centro, come per la periferia: per la Lunigiana, anzi, si trattava d’un considerevole cambio di mentalità rispetto al passato, dal momento che queste zone erano abituate soprattutto alle immagini dipinte, più che a quelle scolpite. Gli esordî del fenomeno delle maestà coincidono, com’è lecito aspettarsi, col periodo in cui troviamo le opere di maggior pregio: ne è esempio una Madonna col Bambino che si trova a Nazzano, quartiere alla periferia di Carrara, datata 1598 e recante il nome del committente (“Andrea di Meneghino Raggi”): un’icona importante in quanto capace di fissare una tipologia (la Madonna seduta col ginocchio destro leggermente sollevato per meglio sorreggere il Bambino, a sua volta raffigurato nudo, sdraiato, in torsione verso la madre, con le gambe accavallate e i gomiti piegati), che sarebbe stata ripresa in numerose altre maestà del territorio. Una di queste è presentata da Donati nel suo studio del 2019: si tratta d’una maestà recentemente emersa a Forno, borgo situato tra i monti che circondano la città di Massa. Collocata in una nicchia lavorata con certa raffinatezza, la Madonna col Bambino di Forno è opera di qualità anche più alta rispetto a quella di Nazzano, contraddistinta da panneggi e cure per le volumetrie e il movimento che presuppongono, secondo lo studioso, “la conoscenza delle soluzioni in voga nell’ambiente fiorentino del tardo ‘500, dominato dalla carismatica figura del Giambologna”. Più composta invece la Madonna di Nazzano, che guarderebbe invece “verso Genova, e cioè verso lo stile rigoroso ed essenziale là dominante nell’ottavo decennio del secolo XVI, ben incarnato da Taddeo Carlone”.
Per alcune delle maestà di più alto livello stilistico (benché occorra compiere un balzo di più di settant’anni rispetto alle due di cui s’è appena detto, per arrivare a un’epoca in cui le maestà conoscono un’ampia circolazione) è possibile anche risalire al nome dell’unico scultore di maestà noto: si tratta di Giovanni Carusi (documentato dal 1676 al 1706), scultore originario di Moneta, sobborgo tra le colline di Carrara, padre di Fabio Carusi e nonno materno del grande Giovanni Antonio Cybei (Carrara, 1706 - 1784), tra i massimi scultori europei del Settecento. A Carusi sono riconducibili, secondo Donati, alcune maestà, sulla base dell’unica lastra da lui firmata (“CARUSIUS.F.1673”), situata a Tresana, in Lunigiana: è un’Annunciazione con sant’Antonio da Padova stilisticamente affine a un’Annunciazione con sant’Agostino che si trova a Levanto, a un’Annunciazione che s’ammira a Castelnuovo Magra, e a un’Annunciazione coi santi Rocco e Antonio da Padova, sul muro d’un palazzo in via Finelli nel centro storico di Carrara, pregevole per l’ambientazione scalata in profondità, con un interessante soffitto cassettonato. Tutte opere accomunate da alcune caratteristiche: la “tendenza a far fluttuare le figure, che galleggiano nello spazio”, la “ricercatezza prospettica”, la “cura dei particolari”. Elementi non così scontati, se si considera che le maestà erano spesso prodotti tutt’altro che sopraffini.
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Scultore ignoto, Madonna col Bambino e i santi Francesco e Antonio (1676; marmo, 70 x 45 cm; Fosdinovo, borgo di Marciaso). Ph. Credit Progetto Le Maestà della Lunigiana storica
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Scultore ignoto, Vergine addolorata con Cristo morto e i santi Antonio da Padova e Simone Stock (1747; marmo; Casola in Lunigiana, borgo di Argigliano)
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Ignoto scultore tedesco, Pietà (1420-1424 circa; legno; Monterosso al Mare, Santuario del Soviore)
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Scultore ignoto, Madonna col Bambino (1598; marmo; Carrara, quartiere di Nazzano). Ph. Credit Progetto Le Maestà della Lunigiana storica
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Scultore ignoto, Madonna col Bambino (fine XVI secolo-inizio XVII; marmo, 45 x 35 cm; Massa, borgo di Forno). Ph. Credit Progetto Le Maestà della Lunigiana storica
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Giovanni Carusi, Annunciazione (1673; marmo; Tresana)
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Giovanni Carusi, Annunciazione coi santi Rocco e Antonio da Padova (fine XVII secolo; marmo; Carrara, via Finelli)
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Giovanni Carusi, Annunciazione (1669; marmo; Castelnuovo Magra)
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La celere estensione del fenomeno, nel corso del Seicento, provocò un proliferare dei temi: non più, dunque, soltanto immagini di devozione mariana (quali erano le maestà delle origini), ma una congerie di tipi e motivi che presto s’aggiunsero alle raffigurazioni della Vergine le quali, tuttavia, seguitarono a mantenere il primato nelle preferenze dei committenti. Scrive Piero Donati che il “primo posto” spetta all’immagine della Madonna di Loreto, “sia nella versione iconica sia nella più impegnativa versione narrativa, nella quale la Vergine ed il Bambino, seduti sulla Santa Casa di Nazareth, si trasferiscono in volo (a tappe, come è noto) verso Loreto”. E, a proposito di narrazioni, non mancano le raffigurazioni d’episodî evangelici: quello dell’Annunciazione è di sicuro il più fortunato, malgrado non manchino attestazioni di Crocefissioni, Resurrezioni, Battesimi di Cristo, Presentazioni al tempio, sia di Gesù che di Maria (come quella che s’è vista sopra), oltre, ovviamente, a una vasta teoria di santi, legati soprattutto alle comunità in cui erano venerati, logica dalla quale però si discosta la devozione nei riguardi di sant’Antonio da Padova, che spicca di gran lunga tra gli altri santi ed è il più rappresentato nelle maestà, probabilmente per il legame che unisce il santo portoghese al culto mariano.
Un ulteriore dato da rimarcare è la presenza d’iconografie legate al territorio. Nel suo recente saggio, Donati ne cita due che ottennero una certa rilevanza nell’area di Massa e Carrara: la prima è la Madonna delle Grazie di Carrara, un tipo che trae origine da un affresco cinquecentesco, di modesta fattura, conservato nella chiesa delle Grazie della città apuana, e che prevede la raffigurazione della Madonna coronata e assisa in trono, vista di tre quarti (se non quasi di profilo) e a figura intera, colta nell’atto di reggere sulle ginocchia il Bambino stante, con la gamba destra avanzata e quella sinistra, al contrario, arretrata. Maestà recanti la Madonna delle Grazie di Carrara si trovano non soltanto nella città dei marmi, ma in tutta l’area di diffusione dei rilievi votivi: se ne possono incontrare anche in Lunigiana, nella val di Vara (a Brugnato, a Rocchetta di Vara), in Garfagnana e in Versilia Storica, lungo i crinali dell’Appennino (a Berceto), sulle rive del golfo della Spezia. Si tratta, per la più parte, d’immagini ottocentesche, ovvero risalenti all’epoca in cui i lapicidi carraresi intensificarono una produzione in serie ch’era in grado di soddisfare una richiesta in costante aumento. La seconda è invece la Madonna dei Quercioli, immagine settecentesca con la Vergine in posizione rigidamente frontale, il Bambino in piedi sulle ginocchia con la madre che lo sorregge tenendogli le terga con la mano destra e un piede con la sinistra, e sant’Antonio da Padova di lato che porge loro un giglio: la riscoperta dell’opera in una casa del quartiere dei Quercioli a Massa nel 1831, unita a una serie di fatti che portarono la popolazione a ritenerla miracolosa, decretarono la fortuna dell’immagine (soprattutto nel capoluogo, ma se ne trovano esemplari in tutta l’area lunense).
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Scultore ignoto, Madonna delle Grazie di Carrara (XIX secolo; marmo, 32 x 23 cm; Aulla). Ph. Credit Progetto Le Maestà della Lunigiana storica
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Scultore ignoto, Madonna dei Quercioli (XVIII secolo; marmo, 40 x 40 cm; Massa, quartiere dei Quercioli). Ph. Credit Progetto Le Maestà della Lunigiana storica
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Trattate con freddezza per decennî dalla critica d’arte, che evidentemente le ha a lungo considerate una produzione popolaresca priva di reale interesse, e anche, incredibile dictu, dalla storiografia locale, le maestà tornano oggi a suscitare le attenzioni della critica, e non solo in quanto documenti storici capaci di testimoniarci i costumi religiosi di quest’area di confine tra Toscana, Emilia e Liguria, o le modalità con le quali le popolazioni apuo-lunensi recepirono dapprima i canoni tridentini e poi le immagini che andavano delineandosi nei principali luoghi di culto, ma anche in quanto sculture dotate d’una loro autonomia, la cui produzione s’affiancava a quella destinata agli edifici sacri. Attenzioni che si sono intensificate a partire dagli anni Novanta, periodo a far data dal quale gli studî e i censimenti sulle maestà hanno conosciuto un rapido incremento. E occorre sottolineare come, accanto ai contributi di studiosi come Caterina Rapetti, Piero Donati, Davide Lambruschi, Giancarlo Paoletti, Lorenzo Principi, Giannorio Neri, Lorenzo Marcuccetti e altri (che, come s’è visto, a partire dall’inizio degli anni Novanta, e in alcuni casi anche prima, hanno cominciato a occuparsi in maniera estesa delle maestà) e alle ricognizioni eseguite in vista di pubblicazioni scientifiche, si siano anche registrate iniziative da parte di amatori, di più modesta entità ma molto utili a fini divulgativi, che hanno pubblicato raccolte d’immagini sul web. E ancora, nel 2014, il summenzionato Davide Lambruschi, per conto del Comune di Carrara, ha creato due percorsi conoscitivi nel centro storico (ribattezzati “Il Museo diffuso, itinerario attraverso le immagini sacre del centro di Carrara”) che hanno ulteriormente sottolineato la rilevanza delle maestà per la storia dell’arte locale e che, almeno a conoscenza di chi scrive, rappresentano anche il primo caso di valorizzazione in chiave turistica delle maestà.
Va detto, anche per sottolineare il fatto che trattare l’argomento per esteso in un singolo articolo rimanga impresa impossibile data la vastità del tema, che le maestà lunensi sono migliaia. Per avere un’idea della portata del fenomeno e per vedere da vicino i singoli oggetti, sarà dunque utile seguire il progetto Le Maestà della Lunigiana storica, il più recente ed esteso censimento dei bassorilievi, intrapreso per iniziativa del CAI di Sarzana e con la consulenza scientifica di Donati, e interamente pubblicato su internet con aggiornamenti costanti, schede delle singole maestà (con dimensioni, materiali, datazioni, descrizioni dei contenuti e dello stato di conservazione) e fotografie di buona qualità. Il progetto si prefigge l’obiettivo di catalogare l’intero patrimonio delle maestà nelle province di Massa-Carrara e La Spezia, con sconfinamento anche nella Versilia storica: nel momento in cui scriviamo, sono state censite poco più di mille e trecento maestà su di un totale di circa tremila lastre votive stimate. Un’azione meritoria, che contribuisce a diffondere la consapevolezza nei confronti di uno straordinario patrimonio diffuso, che non ha eguali, e che ci offre la possibilità di conoscere le modalità attraverso cui, per quattro secoli, le popolazioni di queste terre di confine sono entrate a contatto con la grande storia dell’arte.
Bibliografia di riferimento
- Piero Donati, Le maestà delle Apuane in Guglielmo Bogazzi, Pietro Marchini (a cura di), Borghi paesi e valli delle Alpi Apuane, Pacini Editore, 2019
- Davide Lambruschi, Segni del sacro. Un percorso storico-artistico nella Carrara della Controriforma, Società Editrice Apuana, 2017
- Piero Donati, Maestà lunigianesi in Pia Spagiari, Marmora insculpta, per sua divotione. Le maestà e il territorio ad Arcola e Ville, Luna Editore, 1998
- Caterina Rapetti, Preghiere di pietra. Le maestà della Lunigiana tra il XV e il XIX secolo, Ponte alla Grazie, 1992
- Christiane Klapisch Zuber, Les maîtres du marbre. Carrare 1300 - 1600, S.E.V.P.E.N, 1969
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).