Claire Fontaine è un duo fondato a Parigi nel 2004 da Fulvia Carnevale e James Thornhill: una delle loro opere, Stranieri Ovunque, ha ispirato il titolo della mostra internazionale della Biennale di Venezia di quest’anno, curata da Adrian Pedrosa. Raja El Fani ha incontrato Fulvia Carnevale senza il compagno James Tornhill, a Roma, dopo l’apertura della Biennale di Venezia, venuta a presentare un nuovo neon firmato Claire Fontaine all’Accademia di San Luca. La pratica artistica del duo Claire Fontaine è rigorosamente duchampiana ancor prima che concettuale, la tentazione di giocare sul senso delle parole e sui riecheggiamenti diventata un dogma, un po’ retrò. Quando però ad essere declinata ed enfatizzata è la parola “straniero” non c’è forse il rischio di rivangare, a favore di certe politiche, un concetto superato e in un contesto, quello della Biennale, già globalizzato e multiculturale? C’è in questo sbandierare l’orgoglio “straniero” come pensato da Adrian Pedrosa alla Biennale, come un rifiuto insito di integrare e d’integrarsi che distoglie dalle questioni più complesse di integrazione e inclusione. Rispondono alle nostre perplessità, in questa intervista, proprio i Claire Fontaine, congiuntamente e come una sola entità, per iscritto.
Il vostro duo artistico, che concepite come un collettivo ready made, evolutivo e impersonale, in controtendenza al concetto consumistico dell’artista individualista ed egocentrico, nasce vent’anni fa: nel 2004 inaugurate Claire Fontaine proprio con Stranieri Ovunque, il lavoro che continuate a rieditare e che dà il titolo alla Biennale d’arte di Adrian Pedrosa a Venezia, Stranieri Ovunque, che avete per la prima volta tradotto in sessanta lingue, diventate altrettanti neon nell’installazione molto scenografica all’Arsenale: aspetti tecnici sui neon che volete condividere? Cosa vi/ci seduce nel format della scritta a neon?
Stranieri Ovunque è il primo lavoro che abbiamo realizzato vent’anni fa in quanto Claire Fontaine e paradossalmente fu installato per la prima volta al Mars Pavilion poco lontano dall’entrata della Biennale di Venezia. Il neon è una luce viva perché è creata da due tipi di gas (neon e argon a seconda di quale si utilizza), è molto interessante farne l’esperienza a occhio nudo poiché si percepisce la vibrazione all’interno dei tubi, non è una luce costante e continua e per questo è molto difficile da fotografare. Il suo uso viene dall’arte concettuale, poiché Bruce Nauman, Joseph Kosuth e altri hanno adottato questa forma anonima negli anni Sessanta e Settanta che era all’epoca tipica del linguaggio pubblicitario. Ancora oggi scritte illuminate nello spazio pubblico sono associate a ordini che riceviamo dal mondo del commercio o dai responsabili della sicurezza dei luoghi in cui transitiamo. È interessante usare questo medium per trasmettere parole che obbligano a riflettere o a guardare diversamente il contesto e le persone che ci circondano.
La xenofobia insita nel motto Stranieri Ovunque nella funzione di interiezione, anche questa oggi è ovunque. Non rischia questa opera di contribuire alla propaganda razzista? Cosa pensate sia cambiato nella percezione globale dell’estraneità e dell’alterità vent’anni dopo? Non è un po’ desueto il termine “straniero”?
Per noi, Stranieri Ovunque è all’origine un autoritratto: infatti alla Biennale di Venezia che porta questo titolo troviamo, oltre al gruppo dei sessanta neon sotto le Gaggiandre, anche due doppi neon in italiano e inglese (che sono le nostre due nazionalità) installate all’entrata del padiglione centrale ai Giardini e all’entrata delle Corderie. Non hanno niente a che fare con il razzismo o la xenofobia: straniero non è né un insulto né una parola con una connotazione negativa. Essere stranieri o straniere è il nome di un rapporto sociale, perché ognuno lasciando il proprio paese diventa straniero. In un momento storico che vede il più gran numero di migranti, deportati e persone estratte dalla loro terra d’origine della storia, ci vuole un certo egocentrismo per pensare che il riferimento all’onnipresenza degli stranieri sia negativa. Tutto il nostro lavoro si sviluppa sulla decontestualizzazione degli oggetti o delle referenze (il ready made altro non è che l’oggetto che perde il suo valore d’uso ed è esposto in un luogo che gli è estraneo). È perfettamente normale che ci interessi anche la decontestualizzazione degli esseri viventi.
Come ci si sente a dare il titolo ad una Biennale? Quali sono gli aspetti e gli effetti più o meno graditi di rappresentare una Biennale che si avvale dell’estraneità e della diversità?
Adriano Pedrosa è un caro amico e ci ha in realtà sorpreso con questa sua idea. Avevamo già “prestato” Stranieri Ovunque in lingua Tupi come titolo all’edizione di Panorama in cui ci aveva incluso assieme ad altri artisti provenienti da tutto il mondo. È stato molto interessante dover collettivizzare queste due parole che ci accompagnano da vent’anni – sono state il titolo della nostra prima monografia, nel nostro indirizzo email, nelle due mostre che abbiamo curato in passato noi stessi. Il destino di certe opere d’arte sfugge al controllo degli autori e le fa vivere di vita propria. Questa è un’esperienza meravigliosa che l’essere artisti può offrire.
Come nasce l’idea di fare Claire Fontaine? È un marchio depositato? Una società? Qualche altra forma legale? Come lavorate insieme? Qual è il ruolo, la competenza di ognuno? È lecito chiedersi se siete una coppia ?
Claire Fontaine è uno spazio di desoggettivazione in cui possiamo accogliere idee e forme che non riflettono solo le nostre personalità o le forme della nostra interazione, tra noi e fra noi e il mondo. Il resto è irrilevante. Ovviamente siamo più di una coppia o qualcosa di fondamentalmente diverso da come le coppie funzionano. Il fine infatti è quello di trascendere e allargare ciò che possiamo essere insieme, non di conservare uno spazio chiuso anche quando diventa asfittico. Lavoriamo a tutto insieme e cerchiamo di non fossilizzare la divisione del lavoro – cosa faticosa – non abbiamo quasi nessun aiuto e la maggior parte del lavoro avviene nelle conversazioni e nelle discussioni.
Come definireste la vostra ricerca e quali sono gli obiettivi che volete raggiungere?
La nostra ricerca ha un fine trasformativo, vorremmo che l’arte potesse evocare e far baluginare mondi possibili che al momento sono repressi e schiacciati. L’arte ha come fine la trasformazione del mondo e delle persone, cosa che poi trasforma la sua stessa lettura attraverso le diverse epoche. È un modo di stare nel mondo e di fare esistere il presente come forma del possibile, senza rassegnarsi a quello che ci dicono essere inevitabile.