Una vita tra le due sponde dell’Oceano Atlantico, una galleria che è da decenni un punto di riferimento dell’arte mondiale, un collezionista che ha raccolto arte di ogni tempo, da reperti archeologici a fondi oro, dalla grande pittura del Seicento fino al contemporaneo: è difficile riassumere in poche parole l’esperienza di Gian Enzo Sperone, uno dei galleristi più importanti degli ultimi cinquant’anni a livello internazionale, titolare della galleria Sperone Westwater di New York. Con lui, abbiamo parlato di affinità e divergenze tra il mondo dell’arte dei suoi esordi e quello di oggi. Ecco cosa ci ha raccontato. L’intervista è a cura di Federico Giannini.
Gian Enzo Sperone |
FG. Lei apriva la prima galleria a New York nel 1972, quindi il prossimo anno saranno cinquant’anni di attività, un traguardo importante.
GES. Sì ma in realtà i conti non tornano! Sono più anni che combatto sulle sponde dell’avanguardia. Ho aperto la prima galleria a Torino nel 1963 con una mostra di Roy Lichtenstein: mi ricordo che tra i visitatori piuttosto ostili c’erano il mio ex professore Umberto Eco, col quale in seguito ho sempre avuto rapporti cordialissimi ma dissentendo sul fronte delle arti visive, e poi Dario Fo, sorridente e sferzante, e ancora il grande collezionista milanese Giuseppe Panza di Biumo (che è stato per me una fonte d’ispirazione). Questo per dire che il mio percorso parte da là, dopodiché ho tentato altre strade, come aprire una galleria a Milano nel 1965, una a Roma nel 1971 e poi, nel 1972, a New York dove ancora opero. Anche se da cinque anni, da quando hanno eletto Trump, io mi sono rifiutato di tornare in quel paese dove il numero uno della nazione cominciava discorsi con quella frase oscena “America First”, come se i problemi che hanno loro fossero diversi da quelli del resto del mondo, e comunque anteponendo la loro vanità. Oggi invece sono più attivo come collezionista, che è una parola che non mi si addice veramente, perché io in realtà sono un raccoglitore seriale convinto che la storia dell’arte proceda per rivoli, ruscelli, torrenti, fiumi. Tra l’altro questa è stata anche una mia cordiale polemica proprio con Giuseppe Panza, il quale nel prendere atto, verso la metà degli anni Sessanta, della nuova realtà dell’Arte Povera, che non trovava abbastanza rappresentativa dei problemi dell’arte dell’epoca, mi invitava a riflettere sul fatto che la storia dell’arte sia fatta dai grandi vertici e non dai piccoli avvallamenti. Ciò detto, avendo anche oggi una sostanziale divergenza di opinioni sullo sviluppo dell’avanguardia che va in direzione digitale, mi occupo piuttosto di antico, e quindi da anni porto avanti una collezione anche discutibile sul piano accademico, ma invece molto condivisibile sul piano della varietà delle scelte. Ho fatto poi un libro con Allemandi [ndr: Gian Enzo Sperone. Dealer / Collector, Allemandi, 2019] che la dice lunga su quello che sono.
A proposito di sviluppo dell’avanguardia e di digitale, che ne pensa del mercato dell’arte contemporanea di oggi?
Il mercato dell’arte oggi mi riguarda poco e marginalmente perché, avendo come accumulatore seriale immagazzinato centinaia se non migliaia di opere di artisti magari oggi fuori moda, questo mi consente di continuare a vivere mandando in asta da Christie’s o Sotheby’s delle cose che ritengo non fondamentali o comunque più marginali, e certe volte ottengo successo e altre volte meno. Recentemente ho ceduto anche delle opere molto importanti perché mi serviva far cassa per continuare questa collezione, ma diciamo che il mercato dell’arte contemporanea non lo comprendo né voglio comprenderlo. Leo Castelli, che riconosco come uno dei miei maestri insieme ad Arturo Schwarz, diceva che tutti i prezzi sono simbolici: è vero, ma il denaro non è simbolico, il denaro è vero. E allora se il mercato attuale spende 69 milioni per un’opera virtuale, come quella battuta da Christie’s poco tempo fa, e molti artisti minori ottengono attenzione e prezzi da artisti maggiori, io non ho niente da commentare: dissento e basta.
Lei è stato indubbiamente un gallerista d’avanguardia. Ma per un gallerista oggi è ancora possibile fare avanguardia?
No, non è possibile. Infatti il modello della mia galleria americana sta declinando, perché non esistono più movimenti. L’ultimo grande movimento è stato quello dell’Arte Povera, mentre in America c’erano i minimalisti, i concettuali. Oggi ci sono cani sciolti che, pur talentuosi, sono maestri nell’arte del marketing. E allora che funzione ha oggi una galleria ambiziosa, una galleria da alta classifica? Non serve a niente, perché gli artisti sono mercanti di loro stessi: questo vale per i grandi, per i piccoli, per quelli che hanno un successo enorme, per quelli che faticano. È un cambiamento inarrestabile, probabilmente voluto dalla storia. La mia posizione non è critica ma è di dissenso: quando ho aperto la galleria a New York nel 1972, l’ho aperta ovviamente nel quartiere di SoHo, il più antico di New York (adesso invece siamo nella Bowery, che è una strada storica, dove fino agli anni Cinquanta-Sessanta vivevano i più derelitti tra gli artisti, letterati e musicisti). All’epoca quasi si lavorava per strada, nel senso che SoHo era chiamato “Artist in residence”, quindi tutti i palazzi, i palazzotti, gli edifici della fine dell’Ottocento e della metà dell’Ottocento fino a quelli più recenti erano abitati da artisti o da gallerie: non era ammesso ad altri di acquistare o di vivere lì. Questo fino ai primi anni Settanta, poi la cosa ha cominciato a mutare lentamente (anzi oggi non c’è più un solo artista o una sola galleria). Faccio questa premessa per dire che c’erano un sacco di gallerie una dopo l’altra e s’incontravano gli artisti: c’era una comunità di addict dell’arte che si compiacevano nel polemizzare, discutere, amarsi o detestarsi per strada. Quindi non si perdeva tempo, non c’erano intermediazioni. Risparmio dettagli su molti personaggi mitici, ma io per esempio ho conosciuto uno come Julian Schnabel (secondo me l’ultimo grande pittore della generazione dopo l’espressionismo astratto e dopo la Pop Art): l’ho incontrato in un ascensore. Io non sapevo chi fosse. Lui mi disse: “Scusi, lei è Sperone?”. Io risposi di sì e lui replicò: “Io sono Julian Schnabel, e vorrei che lei visitasse il mio studio, perché sono sicuro che il mio lavoro le piacerà”. E infatti è andata esattamente così: è la prova che c’erano scarse intermediazioni e soprattutto non c’erano queste figure insidiose che oggi dominano la scena e che sono i cosiddetti art consultant, esperti non meglio identificati. Che peraltro spesso sono donne, e in questo caso, visto che si parla spesso del tema del genere, direi che l’invadenza delle donne è stata vistosa e ha creato qualche problema: è sempre più seducente una bella ragazza che va a trovare un signore per dargli dei consigli, piuttosto che il sottoscritto che sta in una galleria ormai prevedibile a ripetere sempre le stesse cose. E c’è stata poi una proliferazione dei fondi d’investimento.
Chi è che allora oggi domina la scena?
Oggi le grandi gallerie come David Zwirner e Gagosian (che peraltro è una persona che conosco da quarant’anni, seria e geniale) sono ormai dei simulacri, perché a dominare la scena sono gli esperti d’arte, gli art consultant e gli artisti stessi in un abbraccio mortale. Gli artisti ormai spendono gran parte del tempo a fare attività di marketing. Il più talentuoso e intelligente artista italiano degli ultimi trent’anni, Maurizio Cattelan, ha spostato i termini della questione e ha detto già molti anni fa di non voler essere nemmeno un artista (nell’accezione comune del termine) promettendo di smettere di fare l’artista il giorno dopo, cosa che poi non ha fatto, ovviamente: è un’altra indicazione sul fatto che le migliori intelligenze del nostro tempo stanno facendo pratica per diventare i campioni di questo marketing che sembra una cosa decisiva nonché una deformazione del concetto di progresso. Ciò che tutti i giorni ci racconta l’economia è che dobbiamo crescere: mai però uno che dica che dobbiamo progredire, o che dobbiamo evolvere! Ma se non progrediamo andremo a sbattere! L’arte è sempre stata la spia del disadattamento dell’uomo, è sempre stata una ricerca dell’impossibile, ma se comincia ad aderire a queste tematiche un po’ grossolane o un po’ modeste del marketing, allora la vedo brutta.
E in una situazione del genere, quanto pesa il fatto che oggi non esista più una critica d’arte come quella degli anni Sessanta e Settanta?
La domanda contiene già la risposta, nel senso che la critica ormai ha una posizione marginale: i consultant dominano, fatturano cifre che io e Lei non immaginiamo nemmeno, esattamente come nei settori più ordinari (come la moda) ci sono i cosiddetti influencer. Non si capisce bene chi siano e che numeri abbiano: conosciamo i numeri dei loro follower ma non sappiamo i numeri della loro qualità personale, non conosciamo la loro formazione. Nell’arte è la stessa cosa. È però impossibile fermare questo trend che va in una direzione di crescita invece che di evoluzione. Spiace da parte mia, dato che peraltro ho anche una certa età, fare dei discorsi che contengono una punta di pessimismo, però bisogna innanzitutto essere realisti prima di diventare visionari. Come hanno detto spesso Bertozzi & Casoni (anche in alcuni titoli di loro opere), nulla è come appare. Però quello che appare, ed è evidente ai miei occhi, è che questa società è piuttosto imperfetta, quindi in una società imperfetta la ricerca dell’impossibile diventa una chimera, un inseguimento sul nulla. Su questo tema non ho altro da dire.
Come vede invece l’attuale panorama dell’arte italiana?
Devo essere sincero fino alla brutalità: mi sembra che, al contrario di quello che succede con la Nazionale italiana di calcio, nell’arte siamo ai minimi storici. E come già accennavamo prima, non esistendo movimenti, non ci sono teorici e critici, non ci sono studiosi che condividono le stesse esperienze degli artisti.
Ma ci sarà pur qualcuno da cui cominciare un percorso di rinascita o di ricostruzione.
Sicuramente ci sono, ma io non li conosco. Sono vissuto in un modo frammentato e dispersivo tutta la vita, per cui oggi non ho nemmeno gli strumenti per valutare la situazione dell’arte italiana. Posso però dire che non esiste un’avanguardia italiana perché non esiste alcun movimento di pensiero di persone che condividono problematiche e si amano e si scannano per portare avanti un progetto impossibile, ma questa è la storia.
E come è stato possibile secondo Lei arrivare fino a questo punto?
Ci siamo arrivati perché questa è una società imperfetta. Possiamo dare un numero all’imperfezione? No: stiamo andando verso una presenza soffocante del marketing. E anche gli intellettuali e gli artisti assumono i modi e le cadenze di quelli degli uffici pubblicitari delle grandi aziende. Un esempio di questi personaggi influenti e molto penetranti è Oliviero Toscani, il quale è tutto meno che un artista. Già ho delle grosse perplessità sul tema della fotografia come arte a sé: la fotografia usata dagli artisti visivi come mezzo va bene, ma credo poco all’artista fotografo. Toscani, per di più, parla come se noi fossimo degli scemi e lui un genio: e allora se questa gente prende il potere (come si diceva nel ‘68: l’immaginazione al potere), e anzi lo ha già preso, tutti gli altri non possono che diventare marginali. Gli artisti hanno le antenne per captare queste cose, però il problema è che la guerra contro questo sistema è già persa in partenza. E allora, o collabori o sei fuori. Io non invidio i miei giovani colleghi, né gli artisti di oggi, perché ritengo che oggi l’arte sia un campo di battaglia dove non si capisce nemmeno quali siano gli schieramenti, quali siano gli obiettivi. Io lascio agli interpreti e agli analisti di oggi il compito di tirare le somme... io colleziono arte antica. Ma vedo il silenzio delle idee, sempre più assordante. Per quanto mi riguarda lo trovo anche molto consolatorio.
Comunque, scorrendo l’elenco degli artisti rappresentati da Sperone Westwater, ci sono due artisti italiani viventi: Fabio Viale e il duo Bertozzi&Casoni.
Faccio intanto una premessa: ho portato moltissimi artisti italiani in America, perché ho avuto sempre rapporti stretti con gli americani sin dagli inizi della mia carriera. Nessuno ha mai tentato di affondarmi, anzi sono stato aiutato. Però non sono più informato sulle classifiche di oggi: ci sono artisti che sono certo abilissimi, ma se si guarda in profondità? Prendiamo Francesco Vezzoli: è ben introdotto, ma per me è un artista derivativo ancorché abile nel marketing... rispetto a lui, Bertozzi & Casoni sono artisti di un altro spessore. Disadattati e figli di una società imperfetta, però hanno degli strumenti linguistici molto precisi e non derivativi, e questo è piuttosto importante. Per quanto riguarda Fabio Viale, attualmente non ci occupiamo più di lui. La sua produzione è cresciuta a dismisura, con ripetizioni che io trovo piuttosto ingiustificate. L’ho sempre pensato anche di altri, anche di Andy Warhol o di Lucio Fontana, ma loro sono dei “geni”. A me a scuola hanno insegnato che la qualità va di pari passo con la rarità. Dunque se tu produci un quadro al giorno e pensi che ognuno sia un capolavoro, sei fuori strada. Uno degli artisti che ho amato di più è stato Alberto Giacometti, che ho conosciuto personalmente nel 1961: mi ha molto impressionato. Giacometti si è tormentato per tutta la vita, in tutti i sensi, perché ogni sua opera era una sofferenza, e poi lui era incerto, aveva dubbi, non si è mai atteggiato a maestro, nonostante avesse già un successo internazionale pazzesco quando l’ho conosciuto. Il suo catalogo ragionato, ammesso che esista, sarà di un volume o due. Quello di Picasso, che è l’esempio del genio (in tutti i sensi: anche genio del male, perché l’ha inventato lui il marketing), è un catalogo ragionato di trentaquattro volumi, più i sette dell’opera grafica. Un altro esempio di uno che si tormentava e che mi piace meno di Giacometti, ma è un artista curioso e misterioso, è Balthus: mi diceva il suo figlio maggiore, che ha più o meno la mia età, che suo padre ha passato un terzo della sua vita seduto su di una sedia, peraltro neppure troppo comoda, in una stanza disadorna, con un cavalletto e una tela bianca, che rimaneva tale per giorni, settimane, mesi, a volte anni. E allora ecco che il suo catalogo ragionato è un volume di ottocento quadri. E qui c’è la mia risposta al fatto che Fabio Viale, un talento vero, sta producendo a dismisura repliche, quindi io non lo seguo più. Altra cosa sono invece Bertozzi & Casoni, anche per il tipo di lavoro che fanno e che non è possibile eseguire a macchina (la lavorazione del marmo, al contrario, oggi è fatta prevalentemente da macchine: l’artista presenta un bozzetto al laboratorio, a volte anche solo una fotografia, e da lì poi bravissimi artigiani tirano fuori la scultura, che si può replicare esattamente come si fa con le fotografie). Nell’arte di Bertozzi & Casoni ogni foglia, ogni piuma di animale che compare nei loro lavori è fatta a mano. Ed è commovente tutto questo. In più, loro lavorano per ottenere una verosimiglianza, tema che ha tormentato le vite di generazioni di artisti. Tra l’altro vorrei citare Michele Bonuomo, che è un critico che stimo e che in una presentazione per Bertozzi & Casoni ha detto una cosa che ci riporta a quello diceva Giacometti: “più un’opera è vera, e più ha stile”. E allora sta di fatto che loro sono tra i pochi artisti che oggi creano delle vere operette morali, precise (delle Vanitas, dei Memento mori e molto altro), con una credibilità forte: di fronte a un loro lavoro, io che pure li seguo da venticinque anni e ho accumulato tantissime sculture, sento sempre una grande forza, quella che emanano queste terrecotte e queste maioliche. E questo perché, al di là del fatto che c’è un’invenzione che si svolge con lentezza nella lavorazione, c’è manualità, c’è una composizione sempre originale. E poi nella loro opera c’è pochissima mitologia, tutto significa qualcosa in relazione alle problematiche del nostro tempo. C’è anche una grande crudeltà, un’atrocità, che l’arte post Pop (un filone che peraltro ha vinto decisamente) non ha. Perché l’arte post Pop dà spettacolo, fa teatro, usa strumenti per provocare fortemente a livello dello stomaco, ma non arriva mai a essere quello che fanno loro. Ogni opera di Bertozzi & Casoni è misteriosa e contiene suggestioni che toccano la mente.
Insomma, prima diceva che i Suoi pensieri sono venati da una punta di pessimismo, ma quando mi parla di Bertozzi & Casoni mi pare, al contrario, di avvertire un lampo d’ottimismo. C’è quindi un barlume di speranza?
Ma certo, se avessi un’altra età continuerei ad andare alla ricerca di artisti che cercano l’impossibile, con strumenti linguistici non derivativi e che spieghino che stanno seguendo il loro sogno e non il sogno di altri. In ogni epoca ne nascono di nuovi.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).