Il costituzionalista Grosso: “incostituzionale chiudere i musei? Questione molto complessa”


Si possono eccepire ragioni di incostituzionalità sulla chiusura dei musei? Quali sono le motivazioni che prevalgono? La Sicilia, da regione autonoma, poteva tenere i musei aperti? Lo vediamo in questa intervista di Silvia Mazza al costituzionalista Enrico Grosso

Giallo, arancione e rosso: è il tricolore “mobile” dell’emergenza sanitaria in Italia. Inamovibile sembrava, invece, la decisione di mantenere la chiusura dei musei e dei luoghi della cultura dopo il 3 dicembre: “non sappiamo fin quando sarà necessario mantenere chiusi i musei”, diceva una decina di giorni fa il Ministro Dario Franceschini nella lunga intervista rilasciata a Federico Giannini su queste colonne. Da indiscrezioni sembra, invece, che il nuovo Dpcm allenterà le maglie anche su questo fronte.

Una misura che gli operatori del settore, stremati, non riescono più ad accettare dopo gli sforzi compiuti per adeguare gli spazi espositivi con misure di contingentamento (rilevamento temperatura all’ingresso, distanziamento, mascherine, prenotazioni online della visita per fasce orarie, etc.). Un impegno, anche economico, dilapidato dalla nuova serrata. Se nessuna voce si era levata nel marzo scorso, quando i musei, impreparati a gestire l’emergenza, chiudevano, adesso alla lettera di Salvatore Settis a Conte sul “Corriere della Sera” dell’11 novembre scorso è seguito l’appello a Franceschini di 80 direttori di musei e operatori del settore; mentre Vittorio Sgarbi ha presentato contro la chiusura ricorso al Tar.

Se la questione è di rilevanza nazionale, c’è poi il caso specifico della Regione Siciliana. Unica, anche tra quelle a Statuto speciale, ad essere dotata di competenza esclusiva in materia di beni culturali, in forza dell’art. 14 dello Statuto e dei decreti attuativi del 1975 (D.P.R. 635 e 637), avrebbe potuto agire autonomamente o potrà tenere aperti musei e mostre sul territorio regionale, indipendentemente dalle decisioni del Governo di Roma, se si renderanno necessarie nei prossimi mesi altre chiusure?

C’è poi una seconda questione. Nel 2015 col cosiddetto “Decreto Colosseo”, poi convertito in legge (n. 182/2015), musei e i luoghi di cultura sono stati equiparati ai servizi pubblici essenziali, come la scuola, la sanità e i trasporti. Mentre per queste categorie sono state adottate misure di sicurezza anti-covid, per i musei, invece, malgrado (dicevamo) siano stati adeguati, si è stabilito di chiuderli del tutto.

Questioni non semplici, che dal terreno giuridico vanno a investire tematiche sociali connesse alla salute pubblica. “Con i musei chiusi non soffrono solo i bilanci ma i cittadini, e in particolare i bambini, gli studenti, le famiglie”, si legge nell’appello degli 80 direttori di museo.

Ne abbiamo parlato con Enrico Grosso, Professore ordinario di diritto costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. La lunga intervista non fornisce risposte definitive: ci possono essere opinioni diverse, precisa Grosso. La discussione resta aperta, dunque, ma gli interrogativi con cui il costituzionalista chiude le sue considerazioni permettono di mettere a fuoco il cuore della questione, che trascorre dall’ambito giuridico a quello scientifico e culturale. Invitano, con nuovi argomenti, a una riconsiderazione del ruolo e delle finalità dei musei, di cui si è discusso l’anno scorso alla 25esima Conferenza ICOM a Kyoto. I tempi sono maturi: è proprio dopo l’esperienza dell’emergenza sanitaria mondiale che il dibattito dovrebbe ricevere rinnovato impulso verso una nuova definizione di museo, non raggiunta in quell’occasione. Tutta la sua necessità emerge dalle riflessioni che seguono.

Enrico Grosso
Enrico Grosso

S.M. Professore, partiamo dalla specificità del caso della Regione Siciliana. A prescindere dalla opportunità o meno del provvedimento che ha portato alla chiusura dei musei, la Regione potrebbe agire legittimamente in modo autonomo, benché, invece, abbia recepito anche questa misura del Dpcm del 3 novembre scorso? Ovvero, nella gerarchia giuridico-istituzionale, una legge di rango costituzionale quale lo Statuto siciliano può prevalere su un Dpcm, un provvedimento amministrativo, che si regge su una legge e o su un decreto (“Io resto a casa”, dl Semplificazioni, dl agosto, ecc.) che ne sanciscono l’ambito di applicazione e i limiti, ma che sono pur sempre atti di “rango inferiore” rispetto a uno statuto?

E.G. Le questioni che pone sono interessanti e complesse. Partiamo da tre chiarimenti di ordine generale. Primo. Ogni fonte del diritto (una legge, un regolamento del governo o di un singolo ministro, una legge regionale, un’ordinanza del sindaco… ) trova il suo fondamento giuridico in un’altra fonte che è condizione della sua validità. Si può dire, in via generale, che esiste una relazione gerarchica tra fonti tutte le volte in cui si può dire che una fonte “deve” la sua validità a un’altra fonte, la quale si trova (appunto) in una posizione gerarchicamente sovraordinata rispetto ad essa: la Costituzione è sovraordinata rispetto alla legge (e alle fonti ad essa equiparate come i decreti-legge); la legge (nonché i decreti-legge, i decreti legislativi ecc.) è sovraordinata rispetto ai regolamenti del governo (nonché ai DPCM, ai decreti ministeriali, alle ordinanze del ministro della salute ecc. ecc.).

Secondo. Nei rapporti tra le fonti statali e le fonti regionali la questione è un po’ diversa. Tali rapporti sono regolati, di norma, dal criterio della competenza. Esiste una fonte, gerarchicamente sovraordinata sia alla legge statale che alla legge regionale, che stabilisce a quale dei due enti spetta la competenza a disciplinare un certo oggetto. Tale fonte, normalmente, è la Costituzione (in particolare il famoso “Titolo quinto” della parte seconda, e più specificatamente l’art. 117). Vi è poi un’altra fonte che disciplina questi rapporti, e che opera per le sole regioni a statuto speciale: lo statuto speciale, appunto, che non a caso è una fonte di rango costituzionale. Negli statuti speciali (a differenza che negli statuti ordinari) sono contenuti ulteriori e diversi elenchi di materie che, nelle sole regioni di riferimento, sono attribuite alla competenza esclusiva della regione. Se una fonte statale “invade” la competenza attribuita dalla Costituzione (o da uno statuto speciale) alla regione, quella fonte è invalida. Attenzione: non è invalida in quanto viola la norma regionale con essa in contrasto (tra le due non c’è relazione gerarchica), ma in quanto viola una fonte di rango costituzionale (l’art. 117 della Costituzione, ovvero la norma dello statuto speciale attributiva della competenza). Faccio presente a questo proposito che lo statuto siciliano (così come gli statuti delle altre quattro regioni speciali) non è una fonte regionale, ma una fonte statale. Quindi una legge statale che viola lo statuto siciliano è invalida perché viola una fonte ad essa gerarchicamente sovraordinata (ossia una fonte statale di rango costituzionale).

Terzo (e ultimo). Le cose, in concreto, non sono mai così semplici. Sarebbe bello se fosse sempre possibile, avendo di fronte una norma, stabilire con certezza e facilità che quella norma attiene (è ascrivibile) a “una” materia, e dunque attiene (è ascrivibile) alla competenza dello Stato ovvero della regione. Nella maggior parte dei casi una norma (o meglio, un complesso di norme contenute in una articolata fonte, sia essa una legge, un regolamento, una legge regionale, un’ordinanza sindacale ecc.) disciplina in realtà, contemporaneamente, materie diverse, che si intrecciano e si sovrappongono tra loro. Era una illusione quella percorsa dai Costituenti di “tagliare”, come con il coltello, le materie, appiccicando loro delle “etichette” e sperando così di avere un quadro semplice e “governabile” delle competenze. Quelle etichette sono per lo più assai indeterminate. A ciò si aggiunga che, in attuazione dell’articolo 5 della Costituzione, lo Stato ha sempre il potere di assicurare, su tutto il territorio nazionale le “esigenze unitarie”, o “esigenze non frazionabili” (quello che una volta si chiamava l’”interesse nazionale” e che dal 2001, dopo la riforma costituzionale del Titolo quinto, non è più espressamente enunciato, pur rimanendo immanente nel sistema). Esiste pur sempre, vivaddio, l’articolo 5 della Costituzione, che proclama il principio di unità e indivisibilità della Repubblica. Tale principio giustifica sempre e comunque interventi statali a tutela della tenuta complessiva di tale unità. Per questa ragione, la giurisprudenza della Corte costituzionale (cui spetta risolvere le controversie che possano sorgere, tra lo Stato e le regioni, sui rispettivi confini delle proprie competenze) ha dovuto compiere un immane sforzo di ridefinizione dei confini, nei (moltissimi) casi in cui uno stesso oggetto sembri contemporaneamente afferire a più materie, alcune delle quali di competenza dello Stato, e altre di competenza delle regioni. Ha così inventato alcuni concetti e criteri generali per la risoluzione delle infinite controversie nate su questo punto. Il primo criterio è quello delle cosiddette “materie trasversali”: si tratta di oggetti che, assegnati alla competenza legislativa dello Stato, non indicano “materie” in senso proprio, bensì una competenza dello Stato idonea ad investire tutte le materie (“trasversalmente”, appunto), e a superare così le obiezioni sollevate dalle regioni (anche quelle a statuto speciale) in ordine alla presunta violazione della propria competenza (un esempio classico è quello dei cosiddetti “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” che devono essere assicurati su tutto il territorio nazionale, e che dunque giustificano interventi della legge statale in tutti gli ambiti in cui, pur essendovi competenza regionale, lo Stato debba assicurare un trattamento minimo unitario a tutti i cittadini italiani: pensiamo alla tutela della salute, di competenza concorrente e su cui quindi le regioni hanno ampia competenza di dettaglio; esiste pur sempre una competenza dello Stato a definire i livelli minimi del servizio sanitario che ogni regione ha l’obbligo giuridico di assicurare, e può dettare quindi, in materia di salute, anche norme assai dettagliate per la disciplina di quei minimi). Il secondo criterio è quello dell’interpretazione “finalistica” (“teleologica”, dicono i giuristi) dei singoli elenchi, di modo che l’inquadramento di un singolo oggetto in una piuttosto che in un’altra materia (e quindi nella competenza statale o regionale) dipende in realtà dalla “finalità”, dalla “ratio” dell’intervento legislativo nel suo complesso e nei suoi aspetti centrali e fondamentali, e non invece da aspetti marginali o meramente “riflessi”. Un terzo criterio è poi quello della “prevalenza”: poiché, come si diceva, è assai difficile che una legge sia ispirata a un unico obiettivo, o finalizzata a un unico oggetto, le materie tendono inevitabilmente a sovrapporsi. Viene perciò enunciato dalla Corte costituzionale un “criterio di prevalenza”, in base al quale viene valutato se il “nucleo essenziale” della disposizione oggetto di attenzione (naturalmente concepito nel senso degli “interessi” fondamentali che essa mette in gioco) ricada più in una che in un’altra “voce”. E normalmente, almeno nelle sue linee e tendenze generali, la Corte ha la predisposizione, in questi casi, a far prevalere gli “interessi” fondamentali gravitanti sulla competenza statale.

Orbene, sulla base di questi tre presupposti di ordine teorico, proviamo ora ad esaminare i casi specifici che Lei sottopone alla mia attenzione.

L’intera normativa statale di ordine emergenziale che ha disciplinato (e continua a disciplinare) le modalità per far fronte alla pandemia si fonda su una generale competenza dello Stato in materia di tutela della pubblica incolumità, dell’ordine e della sicurezza pubblica, della determinazione dei livelli essenziali di protezione della salute. A questi fini è, tra l’altro, approntato l’intero sistema della cosiddetta “protezione civile”, che lo Stato garantisce attraverso la propria organizzazione amministrativa, e che alla tutela di tali supremi interessi costituzionali è espressamente funzionalizzato. Tant’è vero che la fonte legislativa su cui tutta la “catena normativa dell’emergenza” si è radicata è, in definitiva, il codice della protezione civile (decreto legislativo n. 1/2018), in base al quale, fin dal 31 gennaio scorso, è stato proclamato dal governo (e poi successivamente già due volte prorogato) il cosiddetto "stato di emergenza” che ha poi legittimato tutte le misure successive. In base a tale competenza di ordine generale (e sicuramente spettante allo Stato) sono stati adottati, nel tempo, una serie di decreti legge poi convertiti in legge, i quali a loro volta hanno autorizzato l’adozione di DPCM, o di decreti del ministro delle salute, o di altre fonti secondarie statali di vario genere. Fin qui nessun problema: c’è una relazione gerarchica diretta tra la Costituzione e la legge, e una relazione gerarchica diretta tra la legge e i DPCM/DM.

Su questa iniziale catena normativa si innestano molti problemi, generati dal fatto che tali norme, nel momento in cui legittimamente disciplinano le modalità per far fronte all’emergenza pandemica, toccano inevitabilmente anche “oggetti” che, di per sé rientrerebbero in materie di competenza regionale. Qui emerge il problema, da Lei sollevato, della competenza esclusiva in materia di beni culturali che lo Statuto siciliano assegna alla legge regionale (in Sicilia). Qui intervengono i “criteri” di cui parlavo sopra. Premetto che la questione è intrinsecamente opinabile, e ciascuno potrebbe avere, in merito un’opinione diversa: non a caso queste controversie sono alla fin fine devolute alla Corte costituzionale, la quale, in caso di contrasto di opinioni tra i due enti, e quindi in caso di impugnazione da parte di uno dei due dell’atto adottato dall’altro, decide e spiega a chi spetta la competenza. Personalmente ragionerei così: è vero che, in linea generale, la competenza in materia di gestione dei beni culturali è di competenza esclusiva; ma qui si sovrappongono due diversi oggetti, che rinviano a competenze diverse: quale prevale? Se riteniamo che la tutela dell’incolumità pubblica (e dei livelli essenziali della salute) nelle situazioni di emergenza, spettante comunque allo Stato in ragione di quanto stabilito dall’art. 117 della Costituzione, prevale sulla competenza in tema di beni culturali, lo Stato ha il potere di adottare norme limitative della fruizione dei beni culturali anche in Sicilia, ove pure tale materia spetterebbe alla regione, in virtù del criterio di “prevalenza” e di quello della prospettiva “teleologica”: da un punto di vista “finalistico”, la normativa statale che chiude i musei non lo fa in quanto intende dettare una disciplina “sui musei” (cosa che, in Sicilia, non potrebbe fare), ma in quanto intende dettare una disciplina sulla tutela della pubblica incolumità (che è di sua competenza), la quale ha una indiretta, inevitabile ma non illegittima, influenza anche sulla fruizione dei musei. E che dunque prevale.

Dunque, lo Stato può introdurre tale limitazione con un DPCM, che è un atto di rango amministrativo, anche in Sicilia dove è lo stesso statuto, ossia una fonte di rango costituzionale, a “preservare” la competenza esclusiva in materia di beni culturali.

Il fatto è che il DPCM è soltanto un atto “finale” di quella “catena normativa” di cui parlavo sopra, adottato nell’esercizio di un potere conferito direttamente dalla legge statale, la quale è a sua volta autorizzata a farlo dalla Costituzione. Quindi non è il DPCM in quanto tale a “prevalere” sulla competenza statutaria. Il DPCM si fonda su una legge, la quale è attuativa a sua volta della norma costituzionale che attribuisce alla legge (dello Stato) la competenza in materia di incolumità pubblica. E dunque, una volta radicata la “prevalenza" della competenza dello Stato in materia di incolumità pubblica su quella della regione in materia di beni culturali, è in realtà la legge dello Stato a consentire tutte quelle limitazioni (tra cui anche la chiusura dei musei) che poi il DPCM si limita ad attivare in concreto. Pertanto non si pone un problema di “contrasto gerarchico” tra il DPCM e lo statuto siciliano, perché ad essere separate sono, a monte, le sfere costituzionali di competenza dei due enti. Quindi, al Suo quesito se la regione potrebbe autonomamente disciplinare la riapertura dei musei, la mia risposta è: se i rapporti tra le due sfere di competenze sono così ricostruiti, no.

Contrazione dell’autonomia in nome della tutela della salute, dunque. Poniamo, allora, la questione da un altro punto di vista. È vero, però, che se ci troviamo di fronte a competenze diverse, gli ambiti non sono così nettamente distinti: nella situazione contingente i beni culturali (musei, parchi archeologici, etc.) verrebbero fruiti in quanto strumenti utili alla salute psico-fisica dei cittadini, e non solo in quanto luoghi finalizzati allo “studio, educazione e diletto”, come da definizione ICOM (non modificata a Kyoto). E qui entra in ballo la legge del 2015 che ha qualificato i musei come “servizi pubblici essenziali”, alla stregua cioè degli ospedali. Se non vogliamo davvero ritenere, come fu pure eccepito, che in realtà la misura del 2015 non fu altro che “un’ipocrisia legislativa” col fine reale di contrarre il diritto di sciopero nel settore, osserviamo che numerosi studi scientifici dimostrino come il “contatto” con le opere d’arte abbia comprovati benefici per la salute psico-fisica delle persone (in particolare, si segnala il portale “Cultura è salute” che registra le best practice in tal senso). Un contatto che, vista la specificità dei beni in questione, può avvenire solo mediante la visita di persona a un museo, “ospedale dell’anima”, e non attraverso quelle virtuali sperimentate in larga scala proprio durante questa emergenza (e che hanno, peraltro, registrato scarsa risposta da parte dell’utenza). I benefici sulla psiche costituiscono un elemento di particolare rilevanza soprattutto in questo periodo di semi-isolamento (o isolamento, a seconda dei livelli di restrizione per le diverse aree del Paese) legato alla pandemia. In definitiva, questo ruolo riconosciuto da numerosi studi medici, non dovrebbe renderli strumenti utili a partecipare a quella “tutela dell’incolumità pubblica”? Se è concesso fare una passeggiata all’aria aperta, perché questa stessa passeggiata è proibito farla in un parco archeologico, che presenta un vantaggio in termini di salute non solo fisica, ma anche sullo spirito per l’arricchimento culturale che produce? Non si tratta, dunque, dei soli gravissimi danni economici subiti dalle diverse istituzioni pubbliche o private nell’ambito dei beni culturali, ma anche di questioni rilevanti sotto il profilo sociale.

Sul piano ideale e valoriale sono perfettamente d’accordo con Lei, e condivido appieno le Sue osservazioni sulla stretta connessione tra salute e cultura, sui gravissimi danni che la draconiana decisione di chiudere i servizi culturali (non solo i musei, ma il teatro, l’opera, le sale da concerto, i cinema, ecc. ecc.) sta producendo sulla salute pubblica (fisica e mentale), sulla natura estremamente discutibile di queste misure e (probabilmente) sulla loro sostanziale inutilità (o comunque un’utilità incommensurabilmente minore rispetto ai gravissimi danni collaterali che tutto ciò comporta). Detto questo, si tratta di legittime osservazioni politiche, se vogliamo di “politica del diritto”, su cui Lei e io conveniamo. Non sono state condivise dal governo e dal Parlamento, che hanno adottato misure diverse. Sono incostituzionali? Chiariamo in primo luogo che (anche qui) il problema non è il contrasto tra il DPCM e la legge 182/2015. Il DPCM, lo ripeto, si fonda su una legge che lo ha autorizzato (o meglio, su un decreto legge, o su una serie di successivi decreti legge, poi convertiti in legge). È questa legge, non il DPCM in quanto tale, a derogare (di per sé del tutto legittimamente), in nome dell’emergenza, a quella del 2015. Si potrebbe al limite argomentare che, nella valutazione del rapporto mezzo a fine, tale legge, nella parte in cui autorizzi tali misure così draconiane di limitazione alla fruizione di beni culturali, sarebbe incostituzionale in quanto “irragionevole”, sacrificando eccessivamente un bene costituzionale essenziale (tutelato espressamente all’art. 9) quale la cultura, in nome della tutela di un altro bene fondamentale (la salute), senza che sia stato adeguatamente provato se quel sacrificio è ragionevolmente funzionale al raggiungimento dell’obiettivo. Capisce meglio di me che si tratta di discorsi che sono il frutto di valutazioni molto soggettive e “reciprocamente confutabili” (che preconizzano uno “scontro” tra opposte tesi di opposti “tecnici” e virologi, su cui ciascuno pretende di legittimare la sua opinione), per tale ragione non facilmente opponibili a un giudice. Perché poi, in termini giuridici, occorrerebbe convincere un giudice a sollevare la questione di costituzionalità (per irragionevolezza) della normativa di rango legislativo che legittima il governo a prendere quel tipo di provvedimenti. E poi sperare che la Corte accolga questa prospettiva (il che è tutt’altro che scontato). Diverso è, invece, il piano della battaglia delle idee e della campagna culturale. Qui ciascuno di noi può legittimamente offrire il suo contributo (io lo sto facendo ad esempio, nel mio piccolo, per sostenere vivamente la necessità che si torni al più presto, senza se e senza ma, alla didattica in presenza sia a scuola che all’università). Non stiamo parlando dei musei in quanto tali. Stiamo parlando dell’emergenza sanitaria. La domanda è: la chiusura dei musei è un “sacrificio” necessario a tutela della salute? È viceversa un sacrificio inutile? O è addirittura un sacrificio controproducente? Temo che siano valutazioni che sfuggono a un controllo di tipo giurisdizionale, e che difficilmente si presterebbero a un intervento della Corte.

Non stiamo parlando dei musei in quanto tali”. Ecco il cuore della questione: sarà fondamentale, dunque, che il riconoscimento del museo, quale luogo atto anche a migliorare il benessere psico-fisico degli individui, già avvenuto in ambito medicale, venga recepito nell’attesa, nuova definizione condivisa dai membri Icom di tutti i paesi e, quindi, recepito dalla nostra normativa nazionale, affinché non siano più “valutazioni che sfuggono a un controllo di tipo giurisdizionale”. E, diciamolo con orgoglio, è la proposta italiana di aggiornamento della definizione che tra le finalità di un museo introduce proprio la promozione del “benessere della comunità”. 


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Silvia Mazza

L'autrice di questo articolo: Silvia Mazza

Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e  dal compianto Folco Quilici  nel suo ultimo libro Tutt'attorno la Sicilia: Un'avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).





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