Antonio Iommelli (Napoli, 1985) è, dal luglio dello scorso anno, direttore dei Musei Civici di Palazzo Farnese a Piacenza. Storico dell’arte, studioso del barocco, prima di assumere questo importante incarico ha lavorato per tre anni alla Galleria Borghese ed è alla sua prima esperienza alla guida di un museo. La sfida principale del nuovo direttore sarà quella di rafforzare il dialogo tra museo e città, e i progetti sono molti: la prima iniziativa, la mostra sui Fasti di Elisabetta Farnese, ha dato un ottimo avvio. Che programmi ha Antonio Iommelli per i musei? Quali le priorità? Come mettere in rete le varie istituzioni culturali della città? Sono alcune delle domande che gli abbiamo rivolto in questa intervista in cui il direttore ci racconta le sue idee per i Musei Civici di Palazzo Farnese. L’intervista è di Federico Giannini.
FG. Tra meno di un mese si chiuderà la mostra sui Fasti di Elisabetta Farnese: come sta andando?
AI. La mostra sta andando benissimo. I visitatori sono contenti e in molti mi fermano per ringraziarmi o per chiedermi il titolo di un libro da cui partire per approfondire la vita di Elisabetta. Sto ricevendo inoltre molti commenti positivi da parte di studiosi che mi scrivono per congratularsi del lavoro svolto e per propormi interessanti iniziative. Chi vive a Piacenza mi conferma che c’è molta più gente del solito ed io stesso sto incontrando durante le aperture serali persone che non erano mai state al museo. Parallelamente alla mostra abbiamo organizzato una serie di eventi tra danza, musica, teatro e visite guidate che conducono il pubblico alla scoperta di mondi, spazi e personaggi che hanno animato la città all’epoca di Elisabetta, un’iniziativa che sta riscuotendo molto successo. Insomma, stiamo riuscendo in qualche modo a far crescere un interesse per la città e per la figura di Elisabetta.
Facciamo un punto sui ritorni della mostra: intanto diciamo che è una mostra costruita con una spesa relativamente bassa, dato che stiamo parlando di una mostra da qualcosa più di 300mila euro, che confrontata con mostre dello stesso tipo e tenendo conto del fatto che è una mostra scientificamente inappuntabile, è una cifra certo non elevata. Si tratta però di una mostra con cui, se non ho capito male, si vuole dare avvio a un percorso di valorizzazione dei tesori di Piacenza, quindi dobbiamo intenderla come un investimento: da questo punto di vista, che tipo di ritorni sta dando la mostra o vi aspettate dalla mostra, parlo proprio di crescita culturale, e in che modo intendete metterli a frutto?
Vorrei costruire una sorta di museo diffuso, popolato da una comunità che sente il bisogno di frequentare regolarmente il museo. Vorrei renderlo uno spazio di trasmissione culturale, di dialogo, formazione, un laboratorio di idee, ma per fare questo bisogna da una parte custodirne la missione, dall’altra lavorare per rimuovere tutti quegli ostacoli che ne impediscono l’accessibilità, a partire dalla fruizione dei contenuti. Per questa mostra, ad esempio, abbiamo usato la tecnologia: grazie a strumenti come videoproiezioni, ologrammi e stanze immersive il pubblico può seguire con più facilità il racconto. Trasformare il museo in luoghi dell’esperienza e della condivisione, credo sia la ricetta per invogliare i visitatori a ritornare al museo. Un altro aspetto che mi preme è la valorizzazione delle raccolte, partire dalle opere del museo per riscoprire le tracce del passato e comprendere la loro connessione con il presente e con i luoghi in cui viviamo. Questa mostra ne è un esempio: i Fasti celebrano una storia e con esso il clima culturale di un ducato in uno dei suoi momenti di maggiore splendore, un racconto che ci mette davanti alla consapevolezza che non sono i luoghi ad essere magici, bensì le esperienze che in quei luoghi si vivono.
L’accenno alle collezioni mi permette di agganciarmi a un argomento particolarmente interessante, quello dei rapporti con gli altri musei, perché per fare questa mostra avete dovuto allacciare dei rapporti con altre realtà. Come si sono mossi i Musei Civici di Palazzo Farnese sul piano delle relazioni istituzionali e come intendete poi continuare su questo lavoro di costruzione della rete con altri musei non soltanto sul territorio, ma anche nel resto d’Italia o anche al di là dell’Italia?
Il rapporto con le istituzioni è stato fondamentale. Nel caso della mostra su Elisabetta Farnese abbiamo lavorato soprattutto con la Reggia di Caserta e con Parma, da cui arrivano diverse opere. Abbiamo avuto il patrocinio del Ministero della Cultura e della Regione Emilia-Romagna mentre l’Ambasciata di Spagna in Italia e i direttori della Pilotta, della Reggia di Caserta e di Venaria Reale hanno tutti aderito al Comitato d’Onore. Non le nascondo che mi piacerebbe allargare questa rete inglobando tutti i luoghi e le dimore abitati dai Farnese, come Roma, la Tuscia, Castro, Parma, creando un “museo diffuso all’ombra del Giglio”. È importante se pensiamo che i musei rappresentano luoghi perno per i territori e per le economie locali e che spesso da soli (o almeno Palazzo Farnese da solo) hanno difficoltà ad attrarre risorse e a individuare quegli obiettivi per affrontare le sfide contemporanee.
Invece con le altre realtà del territorio, con gli attori della vita culturale piacentina, come procede il dialogo?
Il dialogo è molto positivo. A Natale, un dipinto eseguito da Elisabetta Farnese è stato esposto presso la sede della Banca di Piacenza, il main sponsor di questa mostra, così come alcuni appuntamenti del programma Inverno Farnesiano sono stati organizzati presso il Collegio Alberoni e la Fondazione di Piacenza e Vigevano. La domenica, grazie a una navetta, i visitatori possono raggiungere il Collegio Alberoni che parallelamente alla mostra di Palazzo Farnese espone le più importanti lettere e documenti del cardinale Alberoni relativi al “gran maneggio”, ossia il matrimonio tra Elisabetta e Filippo V. C’è stato subito un buon feeling inoltre sia con la Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi, sia con XNL, un centro d’arte contemporanea, cinema, teatro e musica, con le quali, e insieme al Museo della Cattedrale di Piacenza, mi piacerebbe quanto prima lavorare.
In occasione di questa mostra il museo ha inaugurato delle visite guidate alla mostra col direttore: l’iniziativa sta avendo successo? La rifarete?
Sì, un vero successo e sono tutte sold out, così come le lezioni tematiche: ne ho fatta una per San Valentino sull’amore e l’arte e ho replicato l’8 Marzo con una una lezione sull’arte e le donne. Contare di sera, più di settanta persone, interessate all’arte è per me stimolo a fare di più! È bello vedere la gente che vuole esserci e vuole apprendere: a Ottobre inizierò un corso base di storia dell’arte. Si terrà di venerdì sera, dopo le 19, permettendo soprattutto a chi è impegnato col lavoro di poter frequentare il museo, che per l’occasione resterà aperto, in un orario più favorevole.
Da quando è diventato direttore dei Musei Civici di Palazzo Farnese ha spesso ripetuto, in occasioni pubbliche, una frase che è diventata, direi, una specie di slogan, ovvero il museo deve “portare Piacenza fuori da Piacenza”, e con questo intende far conoscere i tesori della città ai suoi abitanti, perché come spesso accade il rapporto tra la città e i suoi musei potrebbe essere molto più stretto. In che modo intendete lavorare per raggiungere questo obiettivo?
“Portare Piacenza fuori da Piacenza” significa far dialogare la città con le diverse realtà che la circondano, con le quali dobbiamo tessere una rete. Penso a Cremona o a Genova con le quali, in passato, artisticamente parlando, Piacenza ha avuto un dialogo alquanto serrato, così come Bologna, Milano e Parma. Uno scambio culturale che può permetterci di uscire dai confini delle mura piacentine e far conoscere Piacenza e i suoi tesori a un pubblico più vasto. I Farnese sono stati una grande famiglia: perché non costruire e promuovere itinerari sulle loro tracce? Da Napoli a Roma, al Belgio, alla Spagna. Un’interrelazione che potrebbe avvenire anche in uno spazio non fisico, “virtuale”, uno spazio nuovo nel quale realizzare obiettivi e contemporaneamente favorire la ricerca.
Ha risposto a questa domanda utilizzando un termine fondamentale per un museo, che è “ricerca”. I musei spesso, soprattutto a livello locale, vengono visti un po’ come dei punti d’attrazione per turisti, ma in realtà un museo è molto di più, e dev’essere considerato anche come un centro di ricerca. A quali progetti state lavorando?
Un museo è per me, prima di tutto, un centro di ricerca e non, come pensano in molti, un mero contenitore di oggetti. Lo dice l’etimologia stessa della parola “museum” usata per la prima volta da Aristotele per indicare un centro di discussione e formazione legato all’accademia, dove i vari specialisti si interrogavano sulle domande fondamentali della ricerca. Per questo che parallelamente all’avvio di nuovi progetti di ricerca da condurre con gli studiosi e con le università mi sto attivando per caricare online le collezioni dei Musei, implementando le conoscenze con schede e contenuti digitali accessibili a più pubblici: a quello generalista, che può accedervi e vedere i vari tipi di opere e la loro descrizione; a quello degli studenti e di coloro che vogliono approfondire e comprendere determinati contenuti; e infine a quello degli studiosi che possono incontrarsi, confrontarsi, nonché sollevare e tentare di risolvere alcuni dubbi. Una community digitale che continua la visita - o la inizia - anche dopo aver lasciato il museo.
Un altro dei punti su cui Lei ha insistito molto fin da quando si è insediato alla direzione dei Musei Civici di Palazzo Farnese è la divulgazione, aspetto che è stato a lungo tralasciato dai musei ma sul quale adesso si sta cercando di recuperare terreno. Che tipo di divulgazione ha in mente per il museo?
Una divulgazione scientifica, sicuramente, comprensibile a un pubblico di diversa formazione. Non dobbiamo assolutamente dare in pasto alle persone quello che vogliono sentirsi dire per ottenere un facile consenso. Il museo deve educare e l’esperienza museale deve tenere conto di questo aspetto. La comunicazione deve essere semplice e i contenuti devono trasformarsi in racconto, con un inizio, uno sviluppo e una fine. La tecnologia, al pari di una brava guida, è uno strumento fondamentale per divulgare il museo aiutando a sfatare quel preconcetto del museo come luogo noioso. Non ci deve spaventare (sebbene, capisco, molte volte se ne abusi) ma deve essere considerata tra le buone pratiche per vivere il museo e per affrontare le diverse abilità cognitive. Sono ormai uno strumento dal quale non si può prescindere e che aiuta a rendere il museo sempre più di tutti. D’altronde l’accessibilità (e non mi riferisco solo a quella fisica") è la nuova sfida. È fondamentale garantirla al pari di quella economica.
Cosa intende per accessibilità economica di un museo?
Riguarda la possibilità di tutti di godere di un diritto fondamentale. In aggiunta alla prima domenica del mese che con un euro si può visitare il museo, stiamo per lanciare il “biglietto sospeso”, un’operazione oramai presente in molte città: consiste nell’offrire un biglietto del museo, valido in qualsiasi giorno (quindi, non solo di domenica) a chi magari non riesce a sostenerne il costo. A Napoli lo facciamo col caffè. Chi può paga due caffè: uno per sé e uno per qualcun altro. Tutti devono poter venire al museo. Credo fortemente all’importanza dell’arte nella vita di ognuno di noi. La bellezza ci rende donne e uomini migliori.
Ancora, altro aspetto è quello della didattica, cosa diversa rispetto alla divulgazione: su questo terreno come vi state muovendo?
La didattica è veramente funzionale al museo e qui a Piacenza ho trovato una realtà molto solida: abbiamo laboratori didattici per bambini, le scuole e le famiglie. Devo dire che sotto questo punto di vista sono molto soddisfatto e proseguirò in questa direzione. Fare e apprendere sono attività importanti per acquisire nuove informazioni e questo è valido non solo per i ragazzi. Formare e informare vale anche per noi adulti!
Un paio di domande prima di avviarci alla conclusione. È possibile qualche mostra che organizzerete in futuro?
Saranno mostre che, come nel caso di quella su Elisabetta Farnese, dialogheranno con il Museo e avranno un legame solido con il territorio. Sarebbe interessante organizzare una mostra sulla natura morta a Piacenza indagando più da vicino Felice Boselli e la pittrice Margherita Caffi. Qui a Piacenza non abbiamo solo Botticelli, Klimt e il Guercino, ma il Morazzone che nel 1626 lavorò in città o Robert De Longe, un grande pittore fiammingo, molto amato dai Farnese che, sul finire del Seicento, si impose sulla scena piacentina. Si tratterà quindi di interrogare
Per concludere, una domanda un po’ più personale. Lei ha avuto diverse importanti esperienze nel mondo dell’arte prima di diventare direttore dei Musei Civici di Palazzo Farnese, ma quella a Piacenza è la Sua prima esperienza come direttore di un museo. Che cosa significa per uno storico dell’arte come Lei dirigere un istituto come i Musei Civici di Palazzo Farnese?
È un’esperienza importante, che mi sta facendo crescere, che sta dando concretezza alle mie precedenti esperienze. Dirigere un museo è ricerca, divulgazione, cura delle collezioni, burocrazia, gestione del personale, capitoli di spesa, limitatezze di risorse, manutenzione, restauri, valorizzazione, esposizioni e, non da ultimo, il riscontro del pubblico. Insomma, tante cose! Ma è una complessità che non mi spaventa. Spero davvero nei prossimi anni di essere utile al museo.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).