Una principessa dolce, di buon cuore, intelligente, ma anche decisa e determinata: dobbiamo immaginarci così, stando almeno ai racconti dei suoi contemporanei, il temperamento di Elisabetta Farnese (Parma, 1692 – Aranjuez, 1766), principessa di Parma e Piacenza la cui vicenda potrebbe ricordare quella di una fiaba, dal momento che lei, giovane erede della famiglia che governava un ducato di ridotte dimensioni (ma molto rilevante sotto un profilo strategico), riuscì a diventare, grazie ai suoi modi, alla sua ambizione, alla sua intelligenza, e alle accorte politiche matrimoniali della sua famiglia, regina consorte di Spagna come moglie di Filippo V (Versailles, 1683 – Madrid, 1746), che nel 1700 era diventato re di Spagna. Era stato l’abate piacentino Giulio Alberoni (Piacenza, 1664 – 1752) a presentarla alla corte spagnola come “una buona lombarda, senza fiele, tutta cuore, di un genio naturale dolce e maneggevole”. E occorsero infatti tutte le eccellenti doti diplomatiche dell’astuto cardinale per convincere i Borbone a combinare il matrimonio con la giovane Elisabetta.
La vicenda, al centro della mostra I Fasti di Elisabetta Farnese. Ritratto di una Regina (Piacenza, Musei Civici di Palazzo Farnese, dal 2 dicembre 2023 al 7 aprile 2024), ruota attorno alle figure di Elisabetta Farnese, del cardinale Alberoni e dei genitori della principessa, ovvero Dorotea Sofia di Neuburg (Neuburg an der Donau, 1670 – Parma, 1748) e suo padre adottivo Francesco Farnese, (Parma, 1678 – Piacenza, 1727) che aveva sposato la cognata, rimasta vedova di suo fratello Odoardo II Farnese, padre di Elisabetta, quando la piccola aveva soltanto un anno. Tutto accade nel giro di pochi mesi: nel febbraio del 1714, Filippo V di Spagna ha soltanto trentun anni quando perde la sua prima moglie, Maria Luisa di Savoia (Torino, 1688 – Madrid, 1714), di cinque anni più giovane di lui, morta di tubercolosi poco dopo aver compiuto appena venticinque anni. Si pone quindi il problema di trovare una nuova moglie per il re di Spagna, e in questa operazione il cardinale Alberoni, come anticipato, ricopre un ruolo fondamentale. Elisabetta ha già ventidue anni, età ritenuta, per i canoni dell’epoca, già abbastanza alta per una giovane che deve maritarsi: i suoi genitori, infatti, nonostante la prospettiva d’intavolare trattative per far sposare la loro figlia già giovanissima (Francesco e Dorotea avevano cominciato a trattare il futuro marito di Elisabetta fin dal 1706: avevano chiesto la sua mano personaggi come Vittorio Amedeo di Savoia e Francesco d’Este, principe ereditario di Modena, ma nessuna proposta sarebbe andata in porto), avevano preferito aspettare poiché in quegli anni si stava combattendo la guerra di successione spagnola e una decisione avventata, a guerra non ancora conclusa, o comunque senza che si profilassero degli orizzonti chiari, avrebbe potuto arrecare danni irreparabili al piccolo ma importante e ricco ducato. La scomparsa di Maria Luisa cambia tutto, e offre a Francesco e Dorotea l’opportunità di ottenere per Elisabetta un matrimonio altrimenti insperato. E soprattutto, estremamente prestigioso.
I genitori avevano pensato a tutto e avevano garantito a Elisabetta una formazione degna di un’importante sovrana. E la ragazza si era dimostrata interessata, intelligente, appassionata, recettiva. Conosce il latino e diverse lingue straniere (il tedesco, il francese, in seguito imparerà anche lo spagnolo), ha studiato lettere, filosofia e storia, materie che però non la attirano più di tanto, poiché lei è più versata nelle arti, in particolare nella musica e nella danza, e pratica anche la pittura (ci rimangono anche alcuni suoi dipinti): tutte doti che rendono Elisabetta particolarmente appetibile per un potenziale marito. Ed è come una raffinata principessa che ci appare in un ritratto in cui viene raffigurata all’età di quattordici anni da Giovanni Maria delle Piane detto il Mulinaretto (Genova, 1660 – Monticelli d’Ongina, 1745), opera in cui Elisabetta, magra, presa in diagonale vestita con un abito di velluto blu bordato d’ermellino (e con alcuni nastri rosa fissati alle spalle secondo la moda francese del tempo), il volto esile incorniciato dai suoi capello biondi, si mostra come una ragazzina sicura, elegante, ben educata. L’opera risale al 1706, anno in cui i genitori di Elisabetta (entrambi peraltro ritratti dallo stesso Mulinaretto) avevano cominciato a discutere di un possibile matrimonio per la loro erede.
Per andare in sposa al re di Spagna, la giovane principessa deve superare altre candidate di spicco provenienti da mezza Europa: decisiva è dunque l’operazione di persuasione del cardinale Alberoni, il vero regista di tutta l’operazione, che da un lato riesce a superare le resistenze di Anna de la Tremouille, la settantenne principessa Orsini che era prima dama della defunta Maria Luisa di Savoia (la sua collaborazione era necessaria per la buona riuscita del matrimonio), e dall’altro ha successo nel convincere la corte spagnola che Elisabetta è la donna ideale per Filippo V. Il prelato aveva infatti descritto Elisabetta come una donna semplice, calma, remissiva, qualità ritenute, sempre per la mentalità del tempo, importanti per una regina: la si preferiva accondiscendente per non avere noie nel governo del regno. Elisabetta è in realtà l’esatto contrario di come il cardinale l’aveva presentata, e lo stesso Alberoni, il 31 dicembre del 1714, dunque lo stesso anno del matrimonio, avrebbe descritto Elisabetta come “consumata nelle arti più fini del regnare” e “scaltra come una zingara” a un suo corrispondente, il conte Ignazio Rocca. Energica, risoluta, pronta a tener testa all’invadente principessa Orsini, capace di avere una certa influenza sulle scelte del marito. “Come regina”, scrive la studiosa Antonella Diana, “seppe conciliare gli interessi della Corona spagnola con i propri, e mediante una politica diplomatica internazionale, assicurò ai figli Carlo e Filippo, parte dei territori nella penisola italiana: il Regno di Napoli e il ducato di Parma e Piacenza”. E dovendo far fronte “a un marito dal carattere introverso e incline alla depressione”, sostiene Giulio Sodano, “animò con leggiadria e giocosità la corte di Madrid, e divenne un esempio per le altre corti europee, dove le donne, stemperando la ieraticità dei sovrani consorti, mostrarono il volto più paternalistico (anzi, maternalistico) della monarchia. Proprio in questa dimensione aumentò la rilevanza del potere informale femminile”. Possiamo anzi individuare in Elisabetta Farnese una sovrana che si spenderà per far aumentare il peso specifico delle donne alla corte spagnola.
Le trattative per il matrimonio con Filippo V si risolvono dunque in breve tempo. Il 7 agosto del 1714, il papa Clemente XI nomina il cardinale Ulisse Giuseppe Gozzadini, di Bologna, legato presso la corte parmense col compito di celebrare le nozze, che si svolgono per procura, ovvero in assenza del marito, che a Parma viene rappresentato dal cardinale Francesco Acquaviva d’Aragona, nunzio apostolico in Spagna. Il matrimonio si celebra il 16 settembre del 1714 e poco dopo Elisabetta era già in viaggio per raggiungere suo marito a Madrid: tutta l’impresa è ripercorsa dai Fasti di Elisabetta, il ciclo di dipinti commissionato a Ilario Mercanti detto lo Spolverini che ripercorrono tutti i passaggi dello sposalizio, quasi come una cronaca in presa diretta. “Arrivata in terra spagnola, Elisabetta, decisa, determinata, ricca dello spirito forte e indipendente trasmessole dalla madre Dorotea Sofia di Neuburg”, scrive Marinela Pigozzi, “non tardò a liberarsi della Orsini, riconducendo alla sua sola persona l’esercizio del potere, riuscendo a farsi sovrana nel cuore e nella mente del re, e dimostrandosi una moglie adatta alle esigenze politiche e dinastiche della corte, presto consapevole delle infinite sfumature delle ambiguità del potere. Giovane, graziosa, galante, seppe rendersi amabile. Ricca di senso dell’opportunità, di intuizione, si rivelò presto capace di entrare in perfetta sintonia con i nuovi interlocutori. L’aiutò la sua educazione ricca di sfaccettate esperienze con immediate ricadute nel campo dell’arte e in seguito del mecenatismo”. Per Elisabetta è quindi l’apoteosi: la principessa di un piccolo ducato dell’Italia settentrionale diventa regina di una delle più grandi potenze mondiali dell’epoca, e nelle politiche del suo regno avrà un ruolo di primissimo piano. Un finale, come detto, da fiaba.
Di quegli anni restano alcuni importanti ritratti di Elisabetta Farnese. Alla Reggia di Caserta si conserva un ritratto, ancora dipinto dal Mulinaretto (divenuto pittore della corte parmense nel 1709), che risale proprio al periodo del matrimonio (è del 1714-1715) ed è una delle più espressive immagini di Elisabetta prima di diventare regina. La principessa viene ritratta di tre quarti, a mezzo busto, con sguardo vivace rivolto all’osservatore, in grado di trasmettere tutta la sua curiosità, la sua sicurezza, la sua intelligenza. Il volto, candido, quasi pallido, non reca i segni del vaiolo che Elisabetta aveva contratto giovanissima e le aveva deturpato il viso. È abbigliata con una ricca veste di broccato dorato, resa dal Mulinaretto con somma attenzione per i dettagli, e avvolta in un mantello di velluto azzurro cangiante, foderato di ermellino. Da notare che la futura regina non indossa gioielli (neppure alla mano, che viene portata verso il nastro azzurro che le orna al petto, nell’intento di slacciarlo, un espediente per dare movimento all’effigie della giovane): è segno di sobrietà. Non manca però, accanto a lei, sulla destra, la corona quale segno di potere: dobbiamo dunque immaginarla già regina di Spagna, oppure in procinto di diventarlo. Un ritratto simile, derivato dal prototipo del Mulinaretto, è conservato alla Pilotta di Parma, ma sono comunque diverse le repliche di questo dipinto che probabilmente venne eseguito immediatamente dopo le nozze. Forse fu commissionato al pittore genovese già dopo che Elisabetta si era trasferita in Spagna, ma non lo sappiamo con certezza.
Sappiamo invece con buon margine di sicurezza che al Mulinaretto spettò il merito d’aver portato la cultura artistica genovese al di là dell’Appennino: si spiega così uno splendido ritratto marmoreo di Elisabetta come quello per il quale è stato avanzato il nome del ligure Domenico Parodi. Si tratta infatti di un busto che traduce in marmo la ritrattistica francese che andava di moda nella Genova d’inizio Settecento: quella di Hyacinthe Rigaud e di Nicolas de Largillière, i maggiori ritrattisti del patriziato genovese, ma che guarda anche al movimento della scultura di Pierre Puget, altro francese che fu tra gli artisti di spicco della Genova del tempo. Parodi esegue un ritratto di grande vivacità: il turbinoso movimento del vestito, che vibra d’aria e di luce, fa quasi da contraltare allo sguardo fermo della principessa, per esser poi ripreso nei sussulti delle ciocche che paiono come mosse da una leggera folata di vento. Il collo è colto in una lieve torsione, mentre le labbra sono un poco aperte: elementi che suggeriscono ulteriormente una presenza viva, palpitante. A simboleggiare lo status di Elisabetta è il diadema da lei indossato. Nel modellare il marmo Domenico Parodi, scrive ancora Pigozzi, “sa coniugare una tecnica sopraffina alla pittorica morbidezza e alla grazia, in un ritratto parlante che conferisce l’impressione visiva e tattile delle materie imitate. Accanto alla finalità celebrativa dobbiamo porre quella persuasiva e la comunicativa. Risalta la ricerca psicologica del personaggio, la sua determinazione e la consapevolezza del rango”.
Alla consapevolezza del proprio rango contribuisce anche la passione per la pittura di cui s’è fatto cenno sopra. Non si trattava di un semplice passatempo per una principessa annoiata (anche la madre Dorotea Sofia, peraltro, sapeva dipingere): la pratica della pittura era ritenuta importante per conoscere l’arte in modo tale da averne la dovuta dimestichezza di cui servirsi poi quando si trattava di acquistare opere per la collezione di famiglia (è noto che i Farnese fossero tra i maggiori collezionisti del loro tempo), oltre che nell’ambito del mecenatismo, che era un’attività fondamentale tanto per i Farnese quanto per la corona spagnola, dato che un’attenta politica culturale era funzionale ad accrescere il prestigio dello Stato, oltre che del proprio casato. Elisabetta si formò col pittore piacentino Pietro Antonio Avanzini e col fiammingo Lorenzo Fremont (noto anche come “Ferramonti” o “Fiamminghino” in Italia), e di lei ci rimangono alcuni dipinti, tutti di soggetto sacro. Il Collegio Alberoni di Piacenza conserva per esempio un Matrimonio mistico di santa Caterina che Elisabetta dipinge nel 1714: si tratta di un dipinto che la principessa copia dall’omologa tavola del Correggio oggi al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli, e del quale fa dono al cardinale Giulio Alberoni (per questo ancor oggi si trova nella raccolta del collegio da lui fondato). È una copia non particolarmente brillante, che però dimostra come Elisabetta s’intenda sia di disegno sia di colorito (di grande effetto, in particolare, i forti contrasti chiaroscurali che si risolvono in netti passaggi tra zone in luce e zone in ombra) palesando doti ragguardevoli se si pensa che comunque quello della pittura non era certo il suo mestiere.
I dipinti che di lei conosciamo venivano dati in dono: è così per un Ecce Homo recentemente rintracciato presso una collezione privata, ed è così anche per lo Svenimento di Ester del Museo Glauco Lombardi di Parma, anch’esso opera del 1714 (viene donata al marchese Annibale Scotti, prefetto delle cerimonie in occasione del suo matrimonio per procura con Filippo V, e suo accompagnatore in Spagna), in questo caso una copia dal pittore francese Antoine Coypel (l’opera di quest’ultimo è conservata al Louvre). Elisabetta replica l’invenzione di Coypel riflettendola, segno che probabilmente l’aveva conosciuta tramite un’incisione: si tratta dell’episodio biblico, tratto dal Libro di Ester, in cui l’eroina ebrea, moglie del re persiano Assuero, si reca dal marito al fine di chiedere pietà per il suo popolo, che si preparava a essere annientato dai persiani dietro suggerimento del consigliere Aman. Ester sviene per paura che la sua richiesta avrebbe potuto provocare la collera del marito: la donna riuscirà però nel proprio intento, salvando il suo popolo. Opera molto più difficile rispetto alla copia del Correggio, viene risolta da Elisabetta con un’ovvia semplificazione della fonte, ma con una nuova dimostrazione di qualità da pittrice che si apprezzano, in particolare, nell’impostazione prospettica, nella resa dei panneggi, nelle espressioni dei personaggi: non è sua invece la parte inferiore col cartiglio, che verrà fatta aggiungere dal marchese Scotti per gratitudine verso la principessa. Qualità che, peraltro, le vengono riconosciute anche dai contemporanei.
“Chi ha la sorte di avere qualche tela da lei colorita, la stima come tesoro, e come tale io anco riguardo un piccolo quadro… che me fu regalato”, scrive Lorenzo Salvatore Cenami, ambasciatore di Lucca nel ducato di Parma e Piacenza. Elisabetta dipingerà anche in occasione del suo viaggio da Parma verso la Spagna: durante una sosta nel principato di Monaco, il principe Antonio I Grimaldi la vede all’opera ed ebbe a dire che “elle peint très joliment”, cioè “ella dipinge molto felicemente”, definendola addirittura una “virtuosa” della pittura, e lasciando di lei una destinazione divenuta piuttosto famosa (“cuore di lombarda, animo di fiorentina, sa volere fortemente”).
L’intreccio tra arte e politica era connaturato all’azione dei Farnese, ed Elisabetta doveva aver ben introiettato questa particolare caratteristica della sua famiglia, fino ad arrivare a portarla con sé in Spagna. Un ulteriore elemento, dunque, che contribuisce alla strategia per far affermare la principessa. Una strategia che riesce in pieno: col matrimonio tra Elisabetta Farnese e Filippo V di Spagna il sogno di Francesco Farnese e Dorotea Sofia di Neuburg si è avverato, e la giovane, da regina, riuscirà a far sentire il proprio peso politico, esercitando il proprio fortissimo ascendente sulla volontà del marito, e ritagliandosi un ruolo da protagonista della politica europea della metà del Settecento.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERGli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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