The European Fine Art Fair, TEFAF, un appuntamento annuale quasi leggendario, dove tutto assume proporzioni fuori dall’ordinario, dalla quantità degli espositori all’affluenza del pubblico, fino alle cifre da capogiro delle contrattazioni. I numeri sono impressionanti e non è un caso se, nel corso degli anni, la fiera di Maastricht ha assunto il carattere di un vero e proprio pellegrinaggio per galleristi, collezionisti, esperti d’arte e semplici appassionati. La qualità delle opere in mostra è garantita, oltre che dall’impressionante elenco degli artisti rappresentati, dal severissimo processo di vetting che interessa ogni singolo stand: una volta terminato l’allestimento, il martedì prima dell’apertura gli espositori vengono estromessi e una nutrita squadra, composta da oltre duecento esaminatori (accademici, curatori, esperti, restauratori ecc.) analizza metodicamente ogni singolo manufatto, valutandone qualità, stato di conservazione, e validità dell’attribuzione. Non è raro, passeggiando tra gli stand, carpire qualche insoddisfazione tra chi si è visto rifiutare un cartellino, o lo ha dovuto modificare all’ultimo secondo, ma il rigido giudizio della commissione non è appellabile e costituisce anzi, uno dei punti di forza dell’intera manifestazione.
Quando ci si avvicina per la prima volta, a questa affascinante e complessa realtà, lo si fa quasi in punta di piedi, nel timore di venire sopraffatti da tanta esuberanza, e si sceglie con cura il momento della visita; i primi due giorni (giovedì e venerdì) sono off limits e si entra solo su invito, tra direttori di musei (quest’anno pare fossero oltre trecento), curatori e grandi collezionisti. Durante il fine settimana si registra il picco dei visitatori, e il rischio è quello di doversi fare largo tra la folla per ammirare da vicino i pezzi più gettonati, come si fosse al Louvre o agli Uffizi. Per chi non ha velleità di fare acquisti (perlomeno a questi altissimi livelli) e vuole solo godersi in pieno questa specie di estemporaneo e multiforme museo delle meraviglie, meglio dunque optare per uno degli ultimi giorni, quelli infrasettimanali, quando il grosso del lavoro, per i galleristi, è ormai finito. Le vendite più cospicue, quelle a sei zeri, sono già definite, e tra gli espositori c’è chi ne approfitta per visitare gli stand degli altri e chi smaltisce la corrispondenza dal pc: qualcuno non manca di postare sui social dai musei delle città vicine ma, in generale, vige un clima più rilassato e si hanno più possibilità di scambiare opinioni e idee, o di chiedere informazioni sulle opere che vadano oltre la richiesta economica.
Anche di lunedì mattina, tuttavia, non manca la coda per l’ingresso a TEFAF: prima si rimane incolonnati per l’accesso al parcheggio, poi, dopo avere attraversato gli enormi e futuristici spazi del MECC (centro per congressi ed esposizioni inaugurato nel 1988 ed ampliato e ristrutturato più volte, l’ultima nel 2021), ci si imbatte in una lunga fila per passare i controlli di sicurezza, ed è d’altronde ancora vivo il ricordo dei quattro uomini, in giacca e cravatta, che frantumarono una vetrina a colpi di mazza nell’edizione 2022, compiendo un furto di gioielli milionario.
Una volta all’interno, mentre il pubblico si disperde nel vasto ambiente d’ingresso, si viene accolti dalla consueta installazione di Tom Postma Design (Amsterdam) che, dal 2001, cura questi grandi Spatial flower design concept che promettono di accompagnare la transizione dalla vita quotidiana al magico mondo della fiera d’arte. In effetti, quando si realizza che le sontuose composizioni floreali non si limitano a fluttuare ma si muovono nello spazio, alzandosi e abbassandosi, si abbandona ogni timore reverenziale e si viene pervasi da un senso di gioia quasi infantile, cogliendo finalmente quel senso di grande festa per gli occhi (e per la mente) che può vivere chi visita TEFAF per il puro piacere di farlo.
Un resoconto puntuale di quanto esposto in fiera sarebbe impossibile, ed anche solo elencare le opere più importanti, o quelle più quotate, risulterebbe tedioso e pedante: prendete quindi i miei appunti per quello che sono, una serie di impressioni su quello che più mi ha colpito, selezionate e ordinate in base a criteri soggettivi, frutto della mia sensibilità e formazione, senza alcuna pretesa di esaustività. Non vi parlerò della sezione contemporanea ma solo di arte antica, pittura e scultura; d’altronde, come dice uno dei più abili giornalisti d’arte italiani: “a TEFAF ci si va per quello”.
Un primo aspetto che colpisce, aggirandosi tra gli stand, è l’inedita attenzione riservata ai lavori delle artiste, impressione confermata dalla presenza di una sezione apposita, ben visibile sul sito della manifestazione. L’operazione è senz’altro sensata in una prospettiva di mercato, con i più grandi musei ben attenti a smussare quel gap nella rappresentatività di genere ben presente nelle collezioni pubbliche, ma permette di scoprire opere di sicuro impatto e storie al femminile di grande fascino. Particolarmente focalizzato sul tema il padiglione, tutto dedicato alle pittrici, di Rob Smeets Old Master Paintings (Ginevra), dove tra il delicato Pomo “Copiato dal naturale” da Giovanna Garzoni (1600-1670), e la grande tela con Sansone e Dalila di Diana de Rosa (1602-1643), l’attenzione era catturata dal ritratto di Antonietta Gonsalvus (1592) della bolognese Lavinia Fontana (1552-1614), una delle opere più sorprendenti, e ammirate, di questa edizione. Rappresentata a metà figura, su uno sfondo scuro e uniforme, la piccola Antonietta è vestita con abiti lussuosi che accentuano il contrasto con l’evidente ipertricosi, condizione che le provocava un’incontenibile proliferazione dei peli sul viso. La bambina tiene in mano una lettera che ne racconta la storia e la dice figlia di “Pietro Huomosalvatico”, il celebre Pietro Gonsalvus, nativo di Tenerife che, portato alla corte di Enrico II come curiosità naturale (egli stesso era affetto da ipertricosi), ebbe una cultura umanistica e sposò una dama di corte di Caterina de’ Medici. Lo sguardo di Antonietta, immediato e vibrante, più di quello della versione fino ad oggi nota del dipinto (conservata presso il castello di Blois), cattura tutta la spontaneità dei suoi quattro anni (circa) e colpisce in profondità: l’autrice non cede alla curiosità morbosa per l’insolito fenomeno ma restituisce l’ingenua umanità della bambina. Battuto in asta nel 2023 su una base di partenza di 80/120.000 €, questo toccante ritratto è stato venduto alla cifra record di 1.500.000 €, ed era esposto a Maastricht con una valutazione già triplicata, un risultato davvero sbalorditivo per un’artista, certo assai prolifica, ma il cui nome non è ancora famigliare al grande pubblico.
Un’importante riscoperta anche quella presentata da The Weiss Gallery (Londra), con un bozzetto ad olio (1670 circa) di Mary Beale (1633-1699), una delle prime pittrici professioniste inglesi: rovesciando il tradizionale rapporto tra l’uomo-artista e la donna-musa, Mary ritraeva con fresca vivacità il marito Charles, mercante di stoffe e pittore amatoriale, dando vita ad un’immagine tutta concentrata sulla resa dell’espressione facciale. Mary conobbe una buona fortuna nel genere (nel solo 1677 le furono commissionati 83 ritratti individuali), ma sono le sue rappresentazioni di amici e famigliari, più intime e spontanee, a veicolare al meglio le sue abilità pittoriche.
Di tutt’altro carattere l’opera di Marie-Victoire Lemoine (1754-1820) esposta da Brun Fine Art (Londra): la Giovane donna che prepara il formaggio, esposta al Salon del 1802, voleva superare i generi usuali della scena di genere e del ritratto, ambiti che si voleva più congeniali al talento femminile, proponendo divertiti significati allegorici mascherati dietro preziosi effetti materici, con sfumature politiche delle quali oggi si fatica a comprendere in pieno il valore. Marie-Victoire, con le sorelle ed una cugina, tutte abili pittrici, formò un gruppo eccezionale i cui successi artistici infransero le convenzioni del tempo: a loro è stata dedicata una recentissima mostra, “Je Déclare vivre de mon art” (2023) presso il Museo Fragonard di Grasse, valida a demolire molti pregiudizi sulle donne artiste del periodo rivoluzionario.
Bisognava raggiungere lo stand di Lowell Libson & Jonny Yarker (Londra), per trovare la rara opera di una scultrice, l’aristocratica Anne Seymour Damer (1748-1828), con il suo Peniston Lamb in guisa di Mercurio (esposto alla Royal Academy nel 1787). Il piccolo busto, in marmo di Carrara, ritrae il figlio quindicenne di un’intima amica dell’autrice, la celebre Elizabeth Lamb, viscontessa Melbourne, protagonista della vita mondana e politica del suo tempo. Peniston è ritratto con un gusto all’antica che, con la sua severa simmetria e la stilizzazione degli occhi, riflette le esperienze in Italia di Anne Damer, allieva di Ceracchi e Bacon. Il giovane Lamb, destinato ad una carriera politica, scomparve prematuramente (1805), lasciando campo al fratello minore William, primo ministro del Regno Unito nei primi anni di regno della regina Vittoria.
Un’aura meno nobile, ma certo più seducente, quella che irradia la Maddalena (1891) di Juana Romani (1867-1923), proposta da Jean-François Heim (Basilea); modella e pittrice, protagonista assoluta della Parigi della belle époque, Juana era nata a Velletri come Giovanna Carolina Carlesimo, ed aveva raggiunto la Francia al seguito del patrigno musicista. Questa sulfurea Maddalena, in buona misura un autoritratto idealizzato, è agli antipodi delle consuete rappresentazioni della santa penitente, e s’inserisce in quel filone di sessualizzazione delle figure bibliche, caro al simbolismo di fine secolo, che ebbe la sua consacrazione con la Salomé di Oscar Wilde. Una rappresentazione fortemente sensuale che si poneva in atteggiamento di sfida alla morale comune, proponendo una rimessa in discussione del ruolo tradizionale assegnato alla donna, attraverso una celebrazione della libertà sessuale.
Le tematica di genere si fa universale con Perché nascere schiava (Pourquoi naître esclave - 1868), di Jean-Baptiste Carpeaux (1827-1875), manifesto abolizionista esposto da Stuart Lochhead Sculpture (Londra): nato come bozzetto per la Fontana delle Quattro Parti del Mondo, a Parigi (come rappresentazione dell’Africa), il busto è noto in molte versioni, in bronzo, marmo e altri materiali, e fu riprodotto più volte anche dopo la scomparsa dell’autore. Questa terracotta, tuttavia, pur di piccole dimensioni, si distingue per l’altissima qualità autografa, ed impressiona per forza espressiva. Una nota di merito per la piccola esposizione tematica A Room Full of Colour, nella quale era inserita l’opera di Carpeaux, pensata nell’intento di celebrare la commistione di tecniche, stili e competenze degli artisti che lavorarono al confine tra scultura e arti decorative nel corso dell’Ottocento.
Tra le novità più interessanti, nel campo della scultura, anche il ritratto in marmo di Pietro Leopoldo I Granduca di Toscana (1777), portato in mostra da Walter Padovani (Milano): opera di un poco noto artista carrarese, Domenico Andrea Pelliccia (1736-1822), il busto, con il suo piglio altero mitigato dallo sguardo profondamente umano, ben delinea l’immagine di un sovrano moderno e illuminato quale Pietro Leopoldo appariva agli occhi dei contemporanei. Una realizzazione di grande raffinatezza esecutiva dove la cura minuziosa per la definizione dei dettagli non limita affatto la presenza interiore del ritratto, seppur vincolata da un’espressione congelata, sospesa e ineffabile. Allievo di Giovanni Antonio Cybei e professore di scultura nell’Accademia di Belle Arti di Carrara, Pelliccia è perlopiù noto per il monumento allo stesso Granduca per il Lazzaretto di San Leopoldo a Livorno (1776, oggi piazza San Jacopo) e questa nuova aggiunta costituisce un tassello di fondamentale importanza per la ricostruzione, e la piena comprensione, del suo cammino artistico. un’aggiunta significativa all’iconografia di uno dei sovrani europei più celebrati, e della sua straordinaria volontà riformatrice. Un’immagine di grande immediatezza che si iscrive perfettamente nella stagione della ritrattistica ufficiale di corte, rappresentandone quella corrente minoritaria, di ispirazione francese e produzione carrarese, destinata a cedere presto il passo al linguaggio romano ed austero di Innocenzo Spinazzi. Un’opera per la quale non si può che auspicare l’ingresso in una collezione pubblica.
La grande tela con lo Sposalizio mistico di Santa Caterina de’ Ricci di Pierre Subleyras (1699-1749) è invece opera ben nota ma rimasta fino ad oggi quasi inaccessibile, custodita nelle sale romane di palazzo Sacchetti. Eseguito per papa Benedetto XIV nel 1746, il dipinto intendeva celebrare la canonizzazione della santa fiorentina, e ne rappresenta la visione avuta il giorno di Pasqua del 1542. La speranza, anche in questo caso, è l’acquisto da parte di un museo; l’opera, presente nello stand di Benappi (Londra) è comunque notificata e non potrà lasciare l’Italia.
Tra le altre opere di provenienza italiana impossibile non menzionare le Sante Lucia e Caterina di Alessandria di Bernardo Daddi (1290-1348); esposto dalla Galerie Brimo De Laroussilhe (Parigi), il pannello proviene dalla predella del polittico di San Giorgio a Ruballa (Bagno a Ripoli), ultima opera del Daddi, completata nel 1348 pochi mesi prima della sua scomparsa per la peste nera. Rimosso dalla sua collocazione nella prima metà dell’Ottocento, il polittico (con la Crocifissione e Santi) è oggi conservato al Courtauld Institute di Londra, dove se ne conserva la parte principale, mentre la predella è dispersa tra varie collezioni private ed il Musée des Beaux-Arts di Strasbourg.
Non meno interessante il San Giovanni Battista di Tino di Camaino (1285-1336), visibile presso Daniel Katz Gallery (Londra): proveniente dall’Abbazia della Santissima Trinità di Cava dei Tirreni, e risalente alla fase centrale dell’attività dello scultore (circa 1330), il rilievo è rimasto inedito fino al 2019, ed è stato letto come una sfida alla pittura di Giotto, con i suoi effetti chiaroscurali e la morbidezza del modellato, uniti da una finitura capace di suggerire trasparenze alabastrine.
Di fresca pubblicazione (2023) anche la preziosa terracotta con il San Filippo Neri (circa 1772) di Giuseppe Sanmartino (1720-1793), modello della statua in marmo per il Cappellone di San Cataldo nella cattedrale di Taranto, la cui immagine affiancava l’opera, nello stand di Kunsthandel Mehringer (Monaco di Baviera), permettendo di verificarne non solo la pertinenza, ma anche la grande vivacità.
Di ambito italiano anche i due pregevolissimi mezzi busti in marmo, raffiguranti un Satiro e una Satiressa dai tratti adolescenziali, proposti da Tomasso (Leeds/Londra); la coppia di sculture, inedita ma con una provenienza importante (Barone Mayer de Rothschild a Mentmore Towers), si distingue per una lavorazione di grande eleganza, ed un gusto finissimo nella rivisitazione dell’antichità pagana. Dopo una certa discussione tra gli specialisti, i busti sono stati esposti con l’attribuzione, su basi stilistiche, allo scultore romano Alessandro Rondoni (1644-1710 circa), membro di una famiglia attiva da generazioni nel restauro di sculture antiche, e figura che attende una doverosa riscoperta.
L’esperienza al TEFAF, a fine giornata, deve anche sapere essere leggera, indulgere nel passeggiare senza meta per lasciarsi catturare da opere inaspettate, in grado di aprire spiragli soprendenti: avvicinarsi allo stand di Gallery 19C (Dallas/Fort Worth) per scoprire che The Tub (1888) così vicina ad un’opera di Cabanel, è invece dell’allievo Henri Gervex (1852-1929) e raffigura Valtesse de la Bigne, alla cui figura Zola si ispirò per la novella Nana. Capita così di assistere a un curioso siparietto da Agnews Gallery (Londra), dove un’ingenua visitatrice chiede il prezzo per lo sfarzoso Baccanale di Lawrence Alma-Tadema (1836-1912), non trattenendo una sonora espressione di sorpresa di fronte alla non modica richiesta di sei milioni di dollari. Nello stand di Daniel Katz si può invece finire per sorvolare su un Canova che sa tanto di già visto, e farsi incantare dalla ricercatezza dei bassorilievi in terracotta di Joseph Chinard (1756-1813) e Clodion (1738-1814), mentre da Stair Santy (Londra), si può rievocare la fallimentare spedizione navale dell’esercito rivoluzionario francese per la liberazione dell’Irlanda, grazie alla grande tela di Louis-Philippe Crépin (1772-1851) con Veduta del porto di Brest al momento dell’imbarco del Generale Hoche... (1798).
In posizione defilata, ma meritevole di attenzione, la sezione Showcase, che ospita dal 2008 gallerie attive sul mercato da meno di dieci anni: interessante, tra le proposte di Cavagnis Lacerenza Fine Art (Milano), il modello in terracotta per il gruppo di Bacco e Arianna (1710 circa) del fiorentino Giuseppe Piamontini (1663-1744). Tra le opere selezionate da Flavio Gianassi, toscano di nascita ma titolare di una galleria a Londra, spiccavano infine i pannelli con i Santi Simone, Ranieri, Ambrogio e Pietro (1378) del pittore tardo trecentesco Cecco di Pietro, provenienti dalla chiesa di San Francesco a Pisa e parte di un polittico centrato sulla Madonna col Bambino oggi conservata allo Statens Museum for Kunst di Copenaghen.
Alla fine di una giornata così intensa non si può nascondere un certo smarrimento; al momento dei saluti ci si può sentire in certa misura frastornati, e capita di non saper rispondere alla domanda di un amico gallerista che ti chieda cosa abbia colpito maggiormente la tua immaginazione. Mentre si raggiunge a malincuore l’uscita, prestandosi alle foto di rito con i fiori di Tom Postma, si fa affidamento sugli appunti, e sulle fotografie scattate, per riordinare le idee nei giorni successivi, augurandosi, come in un rito scaramantico, di poter tornare l’anno prossimo, magari fermandosi più a lungo.