Fra le regioni più ricettive nei confronti dell’intarsio marmoreo, la Puglia sei-settecentesca vanta un numero corposo di esempi, fra cui le cappelle delle chiese, sovente di giuspatronato laicale o confraternale. Fra le maggiori testimonianze del barocco napoletano fuori da Napoli va rammentato il Cappellone di San Cataldo nella cattedrale di Taranto, edificato a sinistra del presbiterio (fig. 1); assieme alla cappella del Santissimo Sacramento, è sopravvissuto fortunatamente ai restauri degli anni Cinquanta del Novecento, volti all’eliminazione di tutte le ‘aggiunte’ di epoca moderna. In esso predomina il rivestimento in marmo dal pavimento alle pareti, sino al tamburo della cupola, che, invece, è affrescata. A pianta leggermente ellittica, un modulo architettonico molto diffuso nella Roma barocca, pur mediato da alcuni esempi napoletani (chiesa di San Sebastiano, poi distrutta), il Cappellone di San Cataldo non sembra avere confronti diretti con simili cappelle costruite in epoca moderna nelle chiese napoletane. Vi si accede mediante un vestibolo di forma quadrangolare, in origine cappella cinquecentesca e, come si anticipava, il Cappellone resta un unicum in Puglia per la decorazione marmorea che dal cornicione su cui si imposta la cupola procede verso il basso; sui due semiellisse si distribuiscono cinque nicchie che seguono un andamento decrescente, a partire da quella centrale, più grande delle altre (fig. 2). Nel punto di accordo dei due semiellisse, invece, fu ricavata la nicchia più importante per conservare la statua argentea di san Cataldo.
La decisione di tale costruzione si deve al napoletano Tommaso Caracciolo dei principi di Avellino, teatino e arcivescovo di Taranto dal 1637; questi, per restituire il giusto decoro alla cattedrale, devastata da un terribile incendio la notte di Natale dell’anno precedente, che ridusse in cenere l’organo e il tetto, decise di riparare la cattedrale mostrando una maggiore attenzione alle cappelle ai lati della zona presbiteriale. In quella del Santissimo Sacramento fece eseguire decorazioni in stucco e pitture, oltre a far inserire dinanzi al nuovo altare, caratterizzato da tabernacolo decorato con marmi intarsiati, un suo ritratto a misura umana in atteggiamento di preghiera e inginocchiato, esempio che richiama subito alla mente quello in scultura di Oliviero Carafa nel succorpo del duomo di San Gennaro, eseguito da un anonimo scultore agli inizi del XVI secolo). Secondo la testimonianza di Cassanelli, che scrive la Vita di San Cataldo nel 1717, il Cappellone di San Cataldo sotto l’arcivescovato del Caracciolo fu costruito nelle linee essenziali, essendo ancora incompleto di copertura nel 1663, anno della sua morte. Pur non essendovi testimonianze dirette, è verosimile pensare, come in più occasioni è stato ribadito da Mimma Pasculli Ferrara, che il suo architetto fu Cosimo Fanzago (Clusone, 1591 – Napoli, 1678), in quanto il Cappellone appare come “perfetta sintesi fra architettura, scultura e decorazione pittorica e tipica espressione di quel trionfalismo religioso ispiratore di molta produzione artistica del Seicento”. Dall’analisi stilistica con un altro mirabile esempio di barocco napoletano, la cappella Cacace in San Lorenzo Maggiore, costruita nel 1665 su commissione dei nobili napoletani, per la quale Fanzago riceveva ben 1885 ducati, la studiosa individua nel Cappellone tarantino un particolare stilistico che sembra essere la firma dello scultore bergamasco. In diversi pannelli è collocata nella base e nella parte alta una punta lanceolata leggermente in rilievo, intarsiata a sua volta all’interno, nonché un altro elemento decorativo, il rosone di bardiglio che se nel Cappellone di San Cataldo viene ripetuto per ben tre volte nell’intradosso dell’arco di ingresso dal vestibolo al vano vero e proprio, nella certosa di San Martino a Napoli è una soluzione costante che Fanzago adotta sugli ingressi alle varie cappelle.
1. Il Cappellone di San Cataldo, Duomo di Taranto |
2. Il Cappellone di San Cataldo, Duomo di Taranto |
Si deve pensare, infatti, che il Caracciolo, memore di quanto si stava realizzando in quegli anni a Napoli con la costruzione della cappella del Tesoro nel duomo, iniziata nel 1608 e conclusa circa quattro decenni dopo, creato arcivescovo di Taranto, abbia voluto far costruire anche nella città pugliese un Cappellone che fosse degno del santo patrono cittadino, secondo direttive precise che avrebbero concorso a costituire un progetto unitario. Vista la mole della costruzione, tuttavia, i lavori si protrassero per più di un secolo e videro l’avvicendarsi di molti artisti, marmorari, scultori, che, di volta in volta, si attennero al progetto inziale, come sembrerebbe essere confermato dai documenti d’archivio rinvenuti negli ultimi tempi da Mimma Pasculli Ferrara e dall’architetto Gabriella Morciano. A Giovanni Lombardelli, marmoraro di Carrara, per esempio, già presente a Napoli nel 1637 fra i componenti della Corporazione dei marmorai, si deve la costruzione dell’altare maggiore (fig. 3), come si evince da un contratto stipulato il 10 maggio 1676, dal quale si apprende che egli ricevette una somma pari a 2000 ducati per l’altare che avrebbe dovuto realizzare nel giro di un biennio. Davvero notevole è la notizia del riuso di molti marmi antichi, alcuni provenienti dalla chiesa di San Domenico che abbondavano in diverse parti della città, mentre per portare avanti i lavori Lombardelli chiamò a Taranto altri cinque ‘mastri’. Nella cripta della medesima cattedrale, inoltre, in qualità di architetto, Giovanni costruiva la cappella di Santa Maria del Popolo voluta dal vescovo Caracciolo nel 1651 e decorata solo a patire dal 1662; egli, però, non poté mai vederla ultimata, essendo deceduto, come si è scritto, il 15 gennaio 1663 (fu distrutta nel 1844 dall’allora vescovo Blundo). Tornando all’altare di San Cataldo, il Lombardelli opta per un disegno lineare, in cui ogni parte è caratterizzata da una decorazione ricca a elementi fitomorfi, dal paliotto ai laterali sino ai gradini del postegale, sormontato da due colonne che inquadrano la nicchia entro cui veniva sistemata l’antica statua argentea di san Cataldo; i due putti capialtare, col ciborio, furono aggiunti durante l’arcivescovato di Francesco Pignatelli, come dimostra la presenza dello stemma con tre pigne, a opera, verosimilmente, di Antonio Ragozzino.
Mancano, allo stato attuale, notizie relative al periodo che va dal 1676 al 1695, anno in cui Giovanni Lombardelli doveva verosimilmente già essere defunto perché a dirigere i lavori nel Cappellone, al suo posto, subentrava Antonio Ragozzino, il quale avrebbe lavorato nei successivi quattro anni in conformità col progetto originario, con la “medesima buona e perfetta mastria con tutto l’arco e frontespizio di quella”. La Pasculli Ferrra, inoltre, tenendo conto di un incartamento relativo a una causa fra Tommaso Algisi, che aveva un’abitazione attigua alla nuova costruzione, e i deputati della Cappella di San Cataldo, Antonio Galliteli, Giacomo Marianna e Cataldo Antonio Cossetta, ritiene, giustamente, che il medesimo Lombardelli, oltre alla costruzione dell’altare, procedette a ricoprire le pareti del Cappellone con marmi commessi.
Va da sé che nel 1676 se veniva deciso di arredare il Cappellone con l’altare maggiore è perché esso doveva apparire finalmente completo e dunque tale data costituisce il terminus ante quem per la copertura in muratura, che dové essere eseguita dopo il 1663 e comunque sotto l’arcivescovato del domenicano Tommaso di Sarria, trasferitosi dalla diocesi di Trani il 13 aprile 1665, chiamato per ricoprire la sede lasciata vacante dal defunto Tommaso Caracciolo. Nel verbale di una visita pastorale tenutasi nel 1671 il vescovo ricorda ancora la vecchia cappella di San Cataldo, situata alla sinistra dell’altare maggiore della cattedrale e completata da un altare dedicato al santo; come si avrà modo di esaminare, nel Settecento si deciderà di trasformarla nel vestibolo che oggigiorno dà accesso all’attuale Cappellone, ricoprendo anche le sue superfici di marmi.
Come già anticipato, il 13 aprile 1695 Antonio Ragozzino, durante l’arcivescovato del napoletano Francesco Pignatelli, dei duchi di Monteleone, stipulava un contratto coi deputati della Cappella, col quale si impegnava a proseguire i lavori nel Cappellone in base al disegno originario e a terminarli nel giro di quattro anni.
Nel 1713, dopo dieci anni di sede vacante, a Taranto arrivò il nuovo arcivescovo Giovan Battista Stella, al quale spetta la commissione della decorazione a fresco della cupola a opera di Paolo De Matteis (Piano Vetrale, 1662 – Napoli, 1728), che raffigurò la Gloria di san Cataldo (fig. 4) ed Episodi della sua vita fra le finestre del tamburo della cupola, e dei lavori di rivestimento del vestibolo o anticappella (l’antica cappella di San Cataldo) a opera del marmoraro napoletano Andrea Ghetti, iniziati nel 1724 sino al 1729, anno della sua morte. I lavori, tuttavia, non furono interrotti, ma portati avanti da Nicola e Francesco Ghetti, rispettivamente fratello e nipote di Andrea, sotto l’episcopato di Casimiro Rossi (1733-1738) e di Giovanni Rossi (1738-1750) dal 1736 al 1742, anno in cui morì anche Nicola; Francesco, dunque, non potendo proseguire i lavori da solo, proponeva ai deputati della Cappella la restituzione dei ducati ottenuti per lavori effettivamente non svolti e nel 1742 veniva chiamato il marmoraro Aniello Gentile per stimare l’opera compiuta dai Ghetti per 3010 ducati a fronte dei 3550 ricevuti. Il medesimo Aniello, inoltre, veniva ingaggiato per la realizzazione del pavimento, almeno sino al 1753, quando risulta defunto e i deputati chiamavano i periti Gennaro de Martino e Gennaro Cimafonte per valutare lo stato dei lavori; purtroppo non sono giunti a noi i resoconti di tale perizia, ma secondo gli studi di Mimma Pasculli Ferrara, Gentile dové quasi del tutto completare la decorazione pavimentale e tutta la parete della controfacciata, dove attualmente si trova l’organo.
Nel 1750 si insediava il nuovo arcivescovo, il napoletano Antonio Sarsale, che vi rimaneva sino al 1754, anno in cui veniva traferito a Napoli; al suo posto giungeva il benedettino di Montecassino Isidoro Sanchez de Luna dei duchi di Arpino, il quale volle dotare il Cappellone di 1500 ducati per la realizzazione di oggetti di culto.
Il 31 dicembre 1771 l’arcivescovo Francesco Saverio Mastrilli, a Taranto sin dal 1759, commissionava al marmoraro napoletano Domenico Tucci, su disegno di Giuseppe Fulchignone, direttore dei lavori del Cappellone, la realizzazione della facciata in marmo, che verrà completata dalla cancellata in ferro forgiata dal mastro ferraro Rocco Imperato e rivestita in ottone dal mastro ottonaro Pasquale Terrone, i quali collaborarono con lo stesso Tucci affinchè il risultato fosse in armonia con l’architettura.
3. L’altare maggiore di Giovanni Lombardelli |
4. Paolo De Matteis, Gloria di san Cataldo |
Giuseppe Sanmartino a Taranto
Attraverso i dati archivistici rintracciati da Gabriella Marciano, si sa che verosimilmente tali ducati servirono per pagare l’operato di Giuseppe Sanmartino (Napoli, 1720 – 1793), il quale nel 1772 ottenne 1600 ducati per la realizzazione delle statue di san Domenico (fig. 5), di san Francesco d’Assisi (fig. 6), di san FilippoNeri (fig. 7), di san Francesco da Paola (fig. 8) e di sant’Irene (fig. 9), ottenendo rispettivamente per le prime due trecento ducati perché più grandi delle altre, per le quali, invece, ottenne 250 ducati per ognuna. Esse furono inserite all’interno di nicchie ricoperte di marmi mischi e per creare una maggiore profondità delle stesse, l’ingegnere Giuseppe Fulchignone, ancora direttore dei lavori, optò per la realizzazione di mensoloni su cui poggiano le suddette statue, mentre a ricordo del lascito arcivescovile, si volle inserire gli stemmi del vescovo Sanchez de Luna, quando invece, come si è già scritto in precedenza, sulla cattedra tarantina sedeva dal 1759 il teatino Francesco Saverio Mastrilli, della famiglia di Marigliano, rimanendovi sino al 1777.
Dopo la grande esperienza presso Raimondo di Sangro, che portò Sanmartino alla realizzazione nel 1753 del famoso Cristo velato, consacrandolo fra i più grandi scultori del Settecento, l’esperienza tarantina fu un altro grande successo. Giuseppe Sanmartino stipulò il contratto a Napoli il 30 marzo 1772, mediante Francesco Antonio Adamo, procuratore del vescovo Mastrilli; la stipula fissava i tempi di consegna entro l’ottobre 1773 e prevedeva la realizzazione di due statue più grandi, di palmi otto, san Domenico e san Francesco d’Assisi, da collocare nelle nicchie centrali del Cappellone, e le altre quattro di palmi sette, da inserire nelle nicchie laterali a quelle centrali. Stando a quanto riportato nel documento, pare che la disposizione desiderata sia stata osservata solo in parte, in quanto ai lati del santo assisiate dovevano disporsi i santi Filippo Neri e Francesco da Paola, mentre ai lati del santo di Guzman dovevano trovare posto le sante Irene e Teresa (fig. 10); invece ai lati di san Francesco d’Assisi sono collocati san Francesco di Paola e santa Irene, ai lati di san Domenico, san Filippo Neri e santa Teresa. Lo scultore, inoltre, eseguiva dei modellini in creta da sottoporre all’attenzione di Giuseppe Fulchignone e di “qualche pittore buono” di cui i documenti non specificano altro; Elio Catello ha individuato due di tali bozzetti raffiguranti san Filippo Neri, che rispetto alla versione definitiva presenta poche varianti riguardanti il paludamento, e sanFrancesco d’Assisi presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna. Le statue furono scolpite direttamente a Napoli e Giuseppe Sanmartino avrebbe dovuto sostenere le spese per “trasportarle sino alla marina di Napoli”, mentre nel viaggio sino a Taranto avrebbero provveduto i deputati della Cappella di San Cataldo.
5. Giuseppe Sanmartino, San Domenico |
6. Giuseppe Sanmartino, San Francesco d’Assisi. Ph. Credit Chiese sul Pellegrinaggio |
7. Giuseppe Sanmartino, San Filippo Neri. Ph. Credit Chiese sul Pellegrinaggio |
8. Giuseppe Sanmartino, San Francesco di Paola. Ph. Credit Chiese sul Pellegrinaggio |
9. Giuseppe Sanmartino, Sant’Irene. Ph. Credit Chiese sul Pellegrinaggio |
10. Giuseppe Sanmartino, Santa Teresa. Ph. Credit Chiese sul Pellegrinaggio |
Iconograficamente il san Francesco d’Assisi precede una seconda versione ascrivibile fra il 1785 e il 1788, conservata presso il museo di San Martino a Napoli, ma proveniente dalla chiesa di Sant’Efremo Nuovo e che doveva essere posizionata sulla sua tomba; per l’esecuzione del san Domenico, invece, il ricordo vaccariano del medesimo santo per la guglia omonima a Napoli doveva essere ancora vivo nella mente di Giuseppe Sanmartino. Più fanzaghiano appare il san Francesco da Paola, forse perché nel medesimo tempo lo scultore ultimava le statue dei santi Pietro e Paolo per la facciata della chiesa dei Gerolamini a Napoli, sbozzate in precedenza da Cosimo Fanzago; il santo è ritratto secondo la consueta iconografia che lo vuole con lo sguardo rapito verso il cielo e il gesto di spostare indietro il busto dona alla scultura una forte gestualità, la medesima che contraddistingue santa Irene, per la quale, invece, Elio Catello sembra individuare una forte collaborazione da parte degli allievi dello scultore. Santa Teresa è atteggiata in “contrapposto”, mentre porta in avanti la gamba destra, cui corrisponde il braccio sinistro alzato e piegato per meglio sottolineare la finezza del metacarpo allungato della mano portata verso il petto; il volto, incorniciato dal soggólo e dal velo, è caratterizzato da una espressione dolcissima, dettata da un sorriso appena accennato, soluzione che lo scultore sperimenta, verosimilmente nel medesimo torno di anni, in due allegorie nel duomo di San Martino a Martina Franca, città poco lontana da Taranto. Alludo alla Carità, in cui davvero alta è l’esecuzione del gruppo scultoreo e dove Sanmartino raggiunge esiti straordinari nella visione di scorcio della figura, e nell’Abbondanza, “opera che come poche altre racchiude tutta la poetica del maestro, unitamente a una struttura soda che evidenzia nostalgie berniniane”.
Tornando a Taranto, con il gruppo delle statue di Giuseppe Sanmartino il Cappellone di San Cataldo è quasi ultimato in tutta la sua magnificenza; il 3 maggio 1774, l’arcivescovo Mastrilli stipulava a Napoli mediante il suo procuratore Giovanni Leonardo Mascia un contratto con Filippo Beliazzi; questi, avendo già lavorato nella certosa di San Martino, dove realizzò la balaustrata nel 1761, probabilmente veniva consigliato al vescovo tarantino dal medesimo Sanmartino, che aveva lavorato alle cappelle di San Martino e dell’Assunta quattro anni prima. Beliazzi si impegnava a eseguire il pavimento dinanzi al Cappellone di San Cataldo, al centro del quale fu posta la lastra tombale del Mastrilli. Il munifico arcivescovo volle che anche la cappella del Santissimo Sacramento potesse essere arricchita di marmi, dal pavimento con marmo rosso di Venezia di fondo con motivo centrale polilobato a tasselli bianchi neri e gialli a quello del braccio destro del transetto, anch’esso in marmi colorati con duplice motivo stellare e semistellare, dalla porta sul muro corto del transetto, simmetrica e speculare a quella eseguita da Filippo Beliazzi nel braccio opposto all’altare con scultore eseguite da Giuseppe Sanmartino.
Nel 1778 veniva eletto il nuovo arcivescovo di Taranto, il napoletano Giuseppe Capecelatro, il quale nel 1790 si rivolgeva nuovamente a Giuseppe Sanmartino per la realizzazione di un sanGiuseppe (fig. 11) da inserire nel vestibolo; la stipula, avvenuta a Napoli, porta la data del 25 novembre e viene ratificata a Taranto nel successivo 2 dicembre. Lo scultore avrebbe eseguito la statua raffigurante il padre putativo di Gesù di altezza uguale a quella di san Giovanni Gualberto da poco realizzata dallo stesso per don Saverio Carducci Agustino e collocata verosimilmente dall’agosto 1789 in un’altra nicchia del vestibolo. Per il san Giovanni Gualberto, di cui resta ancora un disegno conservato dalla famiglia Carducci, Giuseppe Sanmartino ottenne 660 ducati, mentre per il san Giuseppe, “da considerare uno degli autografi più alti dell’ultima produzione del maestro” in cui “si nota una speciale attenzione alle incalzanti istanze neoclassiche, in quel tempo a Napoli particolarmente sentite da una certa committenza 700 ducati, comprensivi anche del modello. Si tratta, in definitiva, di alcune fra le ultime opere di Giuseppe Sanmartino, considerando che egli morirà nel 1793; a quasi due secoli dai primi lavori, avviati quasi certamente da Cosimo Fanzago, finalmente il Cappellone di San Cataldo si riteneva concluso, a eccezione di ancora altre quattro nicchie vacanti, che si pensò di colmare con altrettanti statue, quelle di san Giovanni Battista (fig. 12) e di san Pietro (fig. 13) attribuite da Riccardo Naldi allo scultore rinascimentale Giovanni Nola, mentre quelle di san Sebastiano (fig. 14) e di san Marco furono scolpite dal napoletano Giuseppe Pagano nel 1804 per 453 ducati.
11. Giuseppe Sanmartino, San Giuseppe |
12. Giovanni Nola, San Giovanni Battista. Ph. Credit Chiese sul Pellegrinaggio |
13. Giovanni Nola, San Pietro. Ph. Credit Chiese sul Pellegrinaggio |
14. Giuseppe Pagano, San Sebastiano. Ph. Credit Chiese sul Pellegrinaggio |
In conclusione voglio ribadire alcuni dati importanti relativi la figura di Giuseppe Sanmartino, che, nato nel 1720, muoveva i primi passi nella bottega di Domenico Antonio Vaccaro, il quale aveva ereditato tutta la sensibilità artistica di suo padre Lorenzo, presso il quale, tuttavia, si era formato un altro punto di riferimento per il nostro scultore, il marmoraro Matteo Bottigliero. Certamente se ben note sono le vicende artistiche riguardanti la seconda metà del Settecento, scarse sono quelle relative l’attività giovanile di Sanmartino, considerando che la prima notizia ad oggi conosciuta risale al 1750, anno in cui eseguì un modellino in creta di san VincenzoFerreri su disegno del pittore Giuseppe Bonito, mentre fra quell’anno e il successivo, in società col marmoraro Giovanni Cimafonte, realizzò due statue per la cattedrale di Monopoli (Bari). La Puglia è fra le regioni che detengono il più alto numero di sculture sanmartiniane, da Monopoli a Martina Franca, da Taranto (ricordo gli Angeli sull’altare maggiore della cattedrale, del 1767), a Manduria e Ruvo di Puglia, dove nella cattedrale si conserva il bellissimo san Rocco, forgiato nel 1793 da Biagio Giordano su disegno di Giuseppe Sanmartino.
Bibliografia di riferimento