Nato nel 1982, il Museo Civico del Marmo è il primo museo pubblico sorto a Carrara. Ideato e realizzato dallo scrivente per conto del Comune di Carrara (delibera G.C. n. 582 del 8.4.1982), è stato impostato come una struttura “progressiva”, in gran parte rivolta alla “cultura materiale”, creata allo scopo di raccogliere, studiare e tutelare i materiali relativi alla cultura del marmo. La sua istituzione era stata preceduta da cinque anni di ricerche sul territorio indirizzate alla documentazione ed alla raccolta di studi e di testimonianze materiali storico-archeologiche sulla storia e le caratteristiche significative delle attività marmifere di Carrara, dall’epoca romana ai giorni nostri. Particolare importanza hanno rivestito le ricerche ed i rilevamenti eseguiti in situ sulle cave romane di Carrara e sulle tipologie dei marmi ivi estratti, attività mai svolte in precedenza se non a livello di pubblicazioni ed in modo molto parziale.
Un museo, quindi, nato dalla necessità di tutelare materiali fondamentali per la storia di Carrara e non solo, e concepito come servizio pubblico di raccolta, tutela, studio e valorizzazione dei materiali inerenti la storia del marmo di Carrara. La struttura e le attività museali sono state regolate da apposito statuto. La sede fu individuata nei prestigiosi padiglioni dell’ex Mostra Nazionale del Marmo, importante iniziativa realizzata negli anni Sessanta del Novecento dalla Camera di Commercio di Massa Carrara ma destinata a chiudere dopo pochi anni per motivi mai veramente chiariti. La cosa fu possibile grazie alla collaborazione con la IMM (presidente Giulio Conti), che allora aveva la disponibilità dei locali, e ad un accordo con la suddetta Camera di Commercio.
L’inaugurazione del museo coincise con la realizzazione della “Mostra Marmo Lunense” (1982), una prima esposizione che documentava i risultati delle ricerche svolte, cui seguirono nel tempo importanti acquisizioni (frutto di acquisti e donazioni) relative a materiali di Archeologia Industriale, alle ex Biennali di Scultura, alla marmologia archeologica ed artistica, alla importante Marmoteca, a manufatti artigianali e a materiali documentari. Grazie all’importante ordinanza del sindaco Marchetti (3.2.1989), tuttora vigente, i reperti venuti alla luce nelle cave sono stati sottoposti a controllo da parte dell’Ufficio Marmo e a tutela, come previsto dalle leggi vigenti, con sistemazione presso il Museo del Marmo a cura del settore Cultura.
Il recupero dei semilavorati d’epoca romana (molti dei quali dotati di nota lapicidinarum) è proseguito nel tempo. Per quanto concerne la collezione archeologica, nel 2006 (anno della pubblicazione del catalogo-guida del museo) presso il museo si contavano: 17 capitelli di colonna; 6 basi di colonna; 54 blocchi riquadrati e iscritti; 8 blocchi riquadrati anepigrafi; 5 settori di tagliate. I recuperi sono continuati fino al 2009, anno in cui cessano le consegne al museo. Si ignorano le cause di questa inattività da parte degli uffici comunali preposti (settori Marmo e Cultura).
Successivamente sono state trasferite dalle sale del museo in magazzino tre sezioni espositive dedicate all’artigianato artistico del marmo per dare spazi ad alcune mostre di arte contemporanea organizzate dall’ex assessore alla cultura Federica Forti, che all’epoca collaborava con l’allora assessore alla cultura Giovanna Bernardini. Le tre sezioni giacciono ancora oggi in un magazzino comunale, dimenticate da chi avrebbe il compito istituzionale di occuparsene. Dopo il 2009, i semilavorati di interesse archeologico che continuano a venire alla luce nelle cave attive restano presso le cave stesse con grave pregiudizio per la loro integrità e conservazione in loco. Si tratta di una situazione che contrasta in modo clamoroso con quanto previsto dalle normative comunali e dalle leggi statali in materia di tutela del patrimonio archeologico nazionale.
Attualmente il museo (per il quale non è stato nominato un direttore scientifico) è gestito, per quanto riguarda la sola manutenzione e fruizione, dalla società NAUSICAA. Da parte dell’ex assessore alla cultura Federica Forti è stata più volte annunciata la volontà di trasferire parzialmente i materiali presso il seicentesco Palazzo Pisani a Carrara: significherebbe però smembrare la struttura museale. È stato affidato ad un importante studio di architettura il progetto di ristrutturazione del suddetto palazzo.
La mancanza negli anni di un direttore scientifico stabile ha senz’altro favorito la discontinuità nelle attività museali, soprattutto per quanto riguarda l’incremento dei materiali di competenza e l’adeguamento della struttura. La direzione, in pratica, è stata gestita dal settore cultura solo come ordinaria amministrazione. Tuttavia resta un fatto inspiegabile e gravissimo l’interruzione del recupero e della tutela dei manufatti di interesse archeologico che incredibilmente continuano a venire alla luce ancora oggi a Carrara.
Si tratta di materiali di interesse nazionale che solo Carrara può vantare in Italia e che sono sottoposti alle leggi statali e regionali in materia di beni culturali. La passata amministrazione comunale, come primo atto della sua politica culturale ha programmato un “nuovo museo del marmo”, in un palazzo storico nel centro di Carrara che, per la sua struttura e per le sue caratteristiche storico-architettoniche, non sarà ristrutturabile ed adattabile alle esigenze espositive e fruitive tipiche di un museo. In pratica su Palazzo Pisani, secondo le leggi vigenti in materia, si potranno effettuare solo interventi di restauro conservativo.
Inoltre, sul piano museologico, suddividere il Museo del Marmo in due sedi distanti tre chilometri l’una dall’altra è una cosa che non ha alcun senso sul piano culturale e fruitivo. La cosa è talmente illogica che viene da pensare che le reali intenzioni della passata amministrazione comunale fossero ben altre nonostante le ultime dichiarazioni dell’assessore Forti sul tema, relative al fatto che a Palazzo Pisani dovrebbe essere creato il “Museo della città del marmo” e non un “nuovo” Museo del Marmo come invece era stato annunciato in precedenza. Giochi di parole che non lasciavano prevedere nulla di buono.
Riscoperta, rilevata archeologicamente e studiata nelle sue componenti da chi scrive negli anni 1977-80 per conto del Comune di Carrara, Fossacava, la più importante cava romana originale dell’area apuana ed italiana, è stata pubblicata nel volume Carrara Cave Antiche (1980) dedicato al primo rilevamento archeologico delle cave antiche di Carrara mai realizzato. Questo volume, conosciuto ed apprezzato a livello internazionale per la novità del tema e per il rigore scientifico applicato ad un campo tanto desueto quanto difficile, risulta del tutto ignorato da chi è stato incaricato dal Comune di Carrara di provvedere all’ideazione del progetto ed all’impianto didascalico recentemente realizzato sul sito di Fossacava ma anche da chi se ne era occupato già nel 2015. Nei cartelli illustrativi, come antecedente alle operazioni svolte a partire dal 2015, si cita Luisa Banti (ispettore della Soprintendenza Archeologica della Toscana) che però nel 1931 aveva pubblicato un semplice elenco di siti carraresi interessanti archeologicamente, dedicando a Fossacava solo cinque voci e scrivendo molto genericamente che il sito “ha numerose tagliate romane”.
In Carrara Cave Antiche, sono dedicate a Fossacava le pp. 64-95 in cui compaiono 63 schede dedicate alle singole evidenze archeologiche relative alle tracce di taglio e, alle pp. 104-106, la planimetria del completa del sito e il rilievo grafico completo delle tracce documentate. Proprio partendo dalla ricchezza delle evidenze fornite da Fossacava, è stato possibile allo scrivente comprendere nella loro completezza le tecniche di escavazione impiegate dai Romani nelle cave di marmo.
Nulla di tutto ciò compare nei pannelli recentemente immessi nel sito, dotati di “QR code” e graficamente realizzati in stile “Disneyland”, nei quali si afferma che “Qua nel 2015 per la prima volta nel mondo è stato realizzato lo scavo archeologico di una cava romana”. In realtà lo “scavo”, realizzato velocemente per mezzo di una ruspa, ha messo in luce solo una parte del fianco sud della grande cava (sottostante ai settori di parete non coperti dagli accumuli di scaglie ed oggetto dei rilevamenti degli anni Settanta), portando al recupero di alcuni semilavorati e di frammenti di ceramica ma lasciando inalterata la situazione per oltre i due terzi dell’intera area originale dell’escavazione romana.
Se si fosse proceduto ad uno scavo completo di Fossacava, oggi Carrara potrebbe esibire il sito originale della più grande cava romana di marmo d’Italia e una delle più grandi d’Europa. Inoltre, probabilmente sarebbero venuti alla luce ulteriori importanti reperti e soprattutto si sarebbe potuto documentare l’impianto complessivo dell’officina così come era quando fu abbandonato verso la fine del III secolo.
Nel 2015 l’intervento di scavo e relative didascalie (con molti errori ed oggi sostituite) fu eseguito dalla cooperativa Archeodata di San Giuliano Terme sotto la supervisione della Soprintendenza Archeologica della Toscana (dott.ssa E. Paribeni). Nel pannello 11 si presenta la “grande tagliata romana”. In realtà col termine “tagliata” nella marmologia archeologica si intende solo la parte interna rimasta in parete della “trincea” (che poteva contenere più marmorarii al lavoro) scavata con subbia e mazzuolo, scendendo in profondità fino ad incontrare uno dei piani di frattura naturale del banco. Dopodiché si procedeva all’inserimento di cunei sul fianco verso l’esterno della trincea stessa che, battuti con mazze, permettevano il distacco della parte di parete marmorea verso il piazzale della cava. Pertanto ciò che si vede oggi sul fianco meridionale di Fossacava non è “una tagliata” ma una serie di tagliate, tutte corrispondenti alle facce interne delle varie trincee scavate, più o meno profonde e lunghe, rimaste a testimoniare la tecnica di scavo impiegata.
Presso il Museo Civico del Marmo è visibile un plastico ricostruttivo di Fossacava realizzato in scala nel 1989, nel quale sono messe in evidenza e ricostruite idealmente le trincee realizzate nel corso del tempo e che, una volta staccate, hanno portato alla situazione oggi visibile. Nei pannelli didattici oggi esposti a Fossacava non solo non si fa riferimento a queste tecniche ma non si cita né il Museo del Marmo né il plastico con ricostruzione ideale di Fossacava realizzato nel 1989 su direzione dello scrivente ed eseguito dallo scultore Cherif Taoufik (dono del Rotary Club di Carrara e Massa). Pertanto si dovrebbe ritenere che i responsabili dell’ultima sistemazione di Fossacava non siano neppure a conoscenza dell’esistenza del Museo del Marmo e dei suoi contenuti.
Nel pannello 12 si fa riferimento all’esaurimento del “filone” di marmo (termine corretto “banco marmifero”). In realtà, non avendo portato in profondità lo scavo fino a raggiungere l’ultimo piazzale di cava accertabile, non ne conosciamo il livello originale e quindi non possiamo conoscere con esattezza quando la cava smise la produzione e se questa fosse in relazione con l’esaurimento del banco. Nel pannello 14 si attribuisce la fine dello sfruttamento della cava all’affermarsi di nuove mode sull’impiego dei marmi colorati nel mondo romano. Pertanto si attribuirebbe alla fine del terzo secolo l’introduzione nel mercato romano dei marmi di “qualità colorate”. Ora, a parte il fatto che il tipo “azzurro variegato” di Fossacava, citato da Strabone, è di per sé una “qualità colorata”, tutti coloro che si occupano di marmologia archeologica (specializzazione relativamente recente ma ben affermata nel settore archeologico) sanno che la moda dell’utilizzo di marmi colorati di ogni specie va di pari passo con lo sviluppo del potere imperiale a partire da Augusto e con l’accumulo delle ricchezze delle classi dominanti romane già nel primo secolo. Del resto, basta andare a Luni e constatare che molte tipologie di marmi colorati di pregio, anche di importazione, sono largamente impiegate già in costruzioni di età giulio-claudia. Il terzo secolo costituisce, invece, proprio l’inizio della crisi dell’utilizzo dei marmi colorati causata dalle progressive difficoltà registrabili nell’impero romano in vari settori economici e sociali, soprattutto nella sua parte occidentale. Pertanto il pannello 14 contiene uno strafalcione incredibile per di più pagato con soldi pubblici come tutto quanto è stato recentemente realizzato nel sito.
Per quanto riguarda i manufatti semilavorati venuti alla luce con lo scavo del 2015 c’è da notare che molti di essi sono contraddistinti da nota lapicidinarum, quel marchio inciso a scalpello che spesso dà preziose indicazioni tecniche e cronologiche. Molto interessanti alcune notae incise anche su alcuni labra semilavorati.
Però, lasciando questi materiali in situ non se ne garantisce la corretta conservazione mentre i più significativi (secondo quanto previsto da apposita ordinanza) dovrebbero essere sistemati presso il Museo del Marmo ad integrazione dell’importantissima collezione archeologica esistente. Integrazione che dovrebbe riguardare anche l’attuale zona museale dedicata a Fossacava i cui materiali documentari risalgono praticamente ai primi anni di esistenza del museo.
È veramente imbarazzante commentare la superficialità e gli errori qui evidenziati prendendo atto dei soggetti pubblici e privati che hanno sostenuto, finanziato e diretto quanto fatto a Fossacava negli ultimi anni. Il Comune di Carrara, ed in particolare l’Assessorato Cultura e l’Ufficio Marmo (sia il Museo del Marmo che il sito di Fossacava rientrano direttamente tra le competenze gestionali del comune) dovrebbero assicurarsi del livello di professionalità di coloro ai quali si conferiscono incarichi, spendendo denaro pubblico. Cosa che, evidentemente, non è accaduta.
Inoltre, una delle cose più evidenti che balzano agli occhi a chi oggi va a visitare Fossacava è il tentativo recentemente messo in atto di farne una struttura archeologica autonoma rispetto al suo naturale organo di riferimento che, per istituzione, è il Museo Civico del Marmo. A Fossacava sono stati sistemati antichi attrezzi rinvenuti nel tempo nelle cave antiche di Carrara (e non nel sito) ed è visibile un filmato virtuale che illustra in modo approssimativo il funzionamento delle antiche cave lunensi.
Nell’intero impianto comunicativo realizzato a Fossacava non si fa neppure un minimo accenno al Museo del Marmo per cui il turista che visita il sito non è messo nelle condizioni di conoscere il grande patrimonio di materiali e di conoscenze acquisito a Carrara in tema di archeologia del marmo. Il tutto sembra rientrare nel progetto, più volte e con orgoglio enunciato dalla passata amministrazione comunale, orientato a disperdere il Museo del Marmo ed il suo patrimonio.
C’è anche da rimarcare che, sul piano strettamente archeologico, l’impostazione data alle operazioni effettuate nel sito è opera della soppressa Soprintendenza Archeologica della Toscana che nel 2015 seguì il parziale scavo di Fossacava. Inoltre, per quanto riguarda i reperti marmorei rinvenuti, la scelta di lasciarli in situ è foriera del deperimento progressivo delle notae incise su di essi mentre si è proceduto al recupero dei frammenti ceramici, evidentemente considerati più importanti ai fini delle valutazioni sulla cronologia. Frammenti che oggi non sono presenti a Carrara.
Come si possono accettare scelte tanto miopi? Come tutto ciò non bastasse ad evidenziare l’incredibile situazione qui delineata, si è proceduto anche alla sistemazione nell’area di Fossacava di diversi semilavorati dotati di nota lapicidinarum non pertinenti al sito tra i quali una delle più importanti iscrizioni latine rinvenute a Carrara già in condizioni precarie di conservazione la quale, restando all’aperto in balia delle condizioni atmosferiche, è destinata ad ulteriore deperimento così come accadrà per tutte le altre.
Nel 2018 le cave attive con giacenze di semilavorati d’interesse archeologico già catalogati erano le seguenti: cava n. 173 Gioia Piastrone; 155 Lazzareschi; 167 Venedreta A; 177 Artana; 162 Calagio; 113 Vara; 100 Bocca di Canalgrande; 92 Fantiscritti B; 89 Strinato; 79 Carbonera; 78 Tagliata; 40 Facciata.
A novembre 2021 è stato fatto un ulteriore rilevamento della situazione da parte del sottoscritto e di Giovanni Gatti che ha portato ad aumentare il numero delle cave interessate da emergenze archeologiche e a quantificare in oltre 80 pezzi i materiali giacenti presso cave attive, molti dei quali dotati di nota lapicidinarum. Tenuto conto che si tratta di cave in piena attività e che non si effettuano recuperi di materiali dal 2009, appare evidente che questa situazione non garantisce né un’adeguata tutela dei reperti né la loro permanenza presso i siti di rinvenimento.
Stante l’assoluta ed inspiegabile inattività degli uffici comunali competenti nel settore della tutela (settore cultura e settore marmo) si deve prendere atto che da parte del Comune di Carrara da tempo non c’è intenzione di applicare l’Ordinanza Marchetti (3.2.1989) tuttora vigente in merito al recupero di questi materiali ed alla loro consegna al Museo del Marmo.
Poiché i materiali di interesse archeologico rinvenuti sul territorio sono sottoposti alle leggi dello Stato e della Regione Toscana cui il Comune di Carrara deve sottostare (al di là di quanto previsto anche dall’Ordinanza Marchetti) si prende atto che a Carrara, in materia di emergenze archeologiche, a nostro parere si è creata una situazione irregolare e scandalosa, i cui responsabili dovranno essere chiamati a rendere spiegazioni.
La situazione potrebbe tuttavia essere risolta portando al Museo del Marmo i materiali più significativi anche dal punto di vista epigrafico e creando per gli altri un’area attrezzata specifica di raccolta, di tutela e di fruizione che potrebbe essere individuata anche nella zona delle cave in luogo idoneo ed appositamente attrezzato.
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