Con il termine Spazialismo si vuole indicare una tendenza artistica che nacque ufficialmente in Argentina ma si definì in Italia negli anni Cinquanta. La nascita del movimento è indissolubilmente legata al nome di Lucio Fontana (Rosario, 1899 – Comabbio, 1968): nato da famiglia italiana, studiò a Milano, all’Accademia di Brera, ma tornò spesso in Argentina, dove lavorò come artista e docente. A Buenos Aires, nel 1946, l’artista iniziò a fissare le basi della poetica spazialista. Tornato in Italia l’anno dopo, ebbe modo di continuare a lavorare in questa direzione grazie allo scenario culturale che vi trovò; nonostante si trattasse di uno momento post bellico, non incontrò una situazione povera, ma ebbe modo di vivere una stagione molto intensa e creativa, che portò l’Italia al pari degli altri paesi europei.
Negli anni Cinquanta in Italia gli esiti artistici furono essenzialmente l’Astrazione e l’Informale: spesso gli artisti attraversarono varie fasi, passando inevitabilmente dalla figurazione neocubista e picassiana. In questo senso, Lucio Fontana testimonia una serie di fonti italiane che non ebbero a che fare con il Surrealismo o col Cubismo. Infatti, l’artista fu appena toccato dal “picassismo” di quegli anni, rivolgendosi piuttosto a considerare lo slancio progressista pertinente alla poetica del Futurismo. La definizione dello Spazialismo venne così strutturata da una serie di dibattiti che si svolsero a Milano, alla Galleria del Naviglio. Furono scambi che portarono alla stesura dei manifesti che Fontana firmò a partire dal 1947, col sostegno di altri intellettuali tra cui il critico Giorgio Kaisserlian, il filosofo Benjamino Joppolo e la scrittrice Milena Milani.
Il termine fa riferimento alla nuova “era spaziale”, con gli sviluppi nel campo tecnologico e tutte quelle novità che permisero di disintegrare i limiti creati dalla materia e che condussero verso l’esplorazione della comunicazione via etere. Apparecchi come la radio e la televisione divennero modelli d’ispirazione, in quanto capaci di abbattere la tridimensionalità materiale per aprire una finestra sulla “quarta dimensione”. In questo senso, il movimento spaziale restituì pienamente il volto del proprio tempo, costituendo un resoconto della società di quegli anni che stava scoprendo le possibilità consentite dai nuovi mezzi. Data la nuova disponibilità di risorse, furono inevitabili nuovi atteggiamenti e nuovi modi di intendere e praticare l’arte.
Al movimento spaziale aderirono artisti come Roberto Crippa (Monza, 1921 – Bresso, 1972), Enrico Donati (Milano, 1909 – Manhattan, 2008), Gianni Dova (Roma, 1925 – Pisa, 1991), Tancredi Parmeggiani (Feltre, 1927 – Roma, 1964), Milena Milani (Savona, 1917 – 2013). Ebbero qualche esperienza spazialista anche artisti come Giuseppe Capogrossi (Roma, 1900 - Roma, 1972), Ettore Sottsass (Innsbruck, 1917 - Milano, 2007), Alberto Burri (Città di Castello, 1915 - Nizza, 1995), Enrico Castellani (Castelmassa, 1930 – Celleno, 2017) e Agostino Bonalumi (Vimercate, 1935 – Desio, 2013).
“L’arte si trova in un periodo latente. C’è una forza che l’uomo non può manifestare. Noi la esprimiamo in forma letterale in questo manifesto. Per questo chiediamo a tutti gli uomini di scienza del mondo, i quali sanno che l’arte è una necessità vitale della specie, che orientino una parte delle loro investigazioni verso la scoperta di questa sostanza luminosa e malleabile e di strumenti che producano suoni che permettano lo sviluppo dell’arte tetradimensionale”. Si apre così il Manifiesto Blanco, testo in cui il movimento spazialista trovò le prime fondamenta. Il manifesto, pubblicato sotto forma di volantino, nacque dalla collaborazione di Lucio Fontana (che tornò in Argentina durante gli anni della Seconda Guerra mondiale) con giovani artisti e intellettuali dell’Accademia di Altamíra, dal loro scambio di nuove idee di ricerca. Pubblicato a Buenos Aires nel 1946, venne redatto da Bernardo Arias, Horacio Cazenueve e Marcos Fridman, e fu firmato anche da Pablo Arias, Rodolfo Burgos, Enrique Benito, César Bernal, Luis Coli, Alfredo Hansen e Jorge (Amelio) Rocamonte.
Il testo riecheggia una forza energica già propria dei manifesti futuristi: tra i firmatari non figurò Fontana, che all’epoca fu fondatore e docente dell’Accademia e ricoprì una posizione di riconoscimento ufficiale. Gli artisti esortavano al “superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica, per arrivare a un’arte basata sull’unità del tempo e dello spazio”. Fu una formulazione teorica che denunciava l’urgenza che l’arte aveva di rinnovarsi, l’esigenza di una risposta culturale ai nuovi stimoli che ogni settore della vita andava sperimentando grazie alle conquiste tecnologiche e scientifiche. “Lo sviluppo dell’arte tetradimensionale” fu uno degli obiettivi prioritari nella poetica spazialista, come anche la volontà di uno “sconfinamento” per scoprire le potenzialità dell’espressione artistica oltre la soglia imposta della materia.
La ricerca della quarta dimensione, venne incoraggiata in ogni ambito dell’arte: “Si richiede un cambiamento nell’essenza e nella forma. Si richiede il superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica. È necessaria un’arte maggiore in accordo con le esigenze dello spirito nuovo”. Nell’ottica di perseguire l’idea di un’arte che fosse totalizzante, si imboccò l’antico solco già battuto dalle Avanguardie storiche.
Quando Lucio Fontana rientrò a Milano nel 1947, intraprese una ricerca inedita, completamente rivolta al concetto spaziale. I galleristi Renato e Carlo Cardazzo organizzarono alla Galleria del Naviglio una serie di incontri pubblici per interpretare ed approfondire questa ricerca. Fu da qui che lo Spazialismo trovò la sua prima vera definizione, annunciata nel Primo Manifesto spaziale che portava le firme di Fontana e anche del critico Giorgio Kaisserlian, del filosofo Benjamino Joppolo e della scrittrice Milena Milani.
La ricerca intrapresa da Lucio Fontana partì dalla considerazione e dalle idee dell’artista Umberto Boccioni (Reggio Calabria, 1882 - Verone, 1916). Secondo l’artista, Boccioni fu l’unico che avviò la propria ricerca espressiva verso l’abbattimento della barriera bidimensionale, guidando la sua arte verso l’espansione fisica e il dinamismo figurativo. Fontana apprezzava una simile “conquista dello spazio”, che riteneva propria anche dello sviluppo dell’arte barocca, con la teatralità delle sue forme bizzarre, “Il barocco ci ha diretti in questo senso, […] le figure pare abbandonino il piano e continuino nello spazio i movimenti rappresentati.[…] la fisica di quell’epoca rivela per la prima volta la natura della dinamica, si determina che il movimento è una condizione immanente alla materia come principio della comprensione dell’universo” (dal Manifesto Tecnico dello Spazialismo, vedi oltre).
Indagini di questa sorta aiutarono a uscire dagli schemi tradizionali, conducendo a quella concezione di immaterialità che confluì nello Spazialismo: nel Primo Manifesto spaziale, infatti, lo statuto dell’opera d’arte è largamente messo in discussione. “L’arte è eterna, ma non può essere immortale. […] Rimarrà eterna come gesto, ma morrà come materia”. Si diede importanza al gesto come manifestazione del pensiero: sono queste le dichiarazioni che stanno alla base di sperimentazioni come gli ambienti spaziali o il Concetto spaziale al neon che Fontana realizzò negli anni Cinquanta.
Una seconda stesura del Manifesto avvenne nel marzo 1948: si ripropose l’esigenza di allentare i legami con l’arte del passato, uscendo dalla sua “campana di vetro”, procedendo all’utilizzo dei nuovi mezzi tecnici. Due anni dopo venne diffusa la Proposta di un regolamento (il Terzo Manifesto spaziale), organizzata in nove punti, di cui uno enuncia che “L’Artista Spaziale non impone più allo spettatore un tema figurativo, ma lo pone nella condizione di crearselo da sé, attraverso la sua fantasia e le emozioni che riceve”. Come molti altri movimenti artistici della seconda metà del Novecento, lo Spazialismo abbatte la passività contemplativa del visitatore che è anzi chiamato allo svolgimento di un ruolo attivo, all’interazione con i nuovi concetti spaziali.
Nel 1951, nel Manifesto Tecnico dello Spazialismo si recuperò il tema della necessità che l’arte aveva di evolvere in sintonia con le nuove scoperte tecnologiche e scientifiche. “Si trasformano le condizioni della vita e della società e di ogni individuo. […] Le scoperte della scienza gravitano su ogni organizzazione della vita. […] L’applicazione di queste scoperte in tutte le forme della vita crea una trasformazione sostanziale del pensiero. Il cartone dipinto, la pietra eretta non hanno più senso; le plastiche consistevano in rappresentazioni ideali di forme conosciute ed immagini alle quali idealmente si attribuivano realtà. Il materialismo stabilito in tutte le coscienze esige un’arte lontana dalla rappresentazione che oggi costituirebbe una farsa”.
Seguì la pubblicazione del Quarto Manifesto spaziale nel 1951, che tracciò un bilancio, e nel maggio del 1952 vide la luce il Manifesto del movimento spaziale per la televisione, in concomitanza con gli esperimenti che Fontana condusse per la Rai, servendosi di tele e carte bucate per proiettare immagini luminose in movimento. Il documento riconobbe nella televisione “un mezzo […] integrativo dei nostri concetti”, ovvero un estensore e un moltiplicatore delle forme ed esperienze visive.
Come ebbero a descrivere i vari manifesti, lo spazialismo rappresentò l’esigenza di creare un’arte del futuro, che vivesse nel suo tempo, raccontandone la scienza e che fosse trasmissibile nello spazio. L’attrazione verso il cosmo fu la spinta che Fontana ed altri artisti avvertirono per dirigere la propria ricerca verso una dimensione nuova. Gli esiti di questi studi si raccolsero per la prima volta nel 1952, quando a Milano la Galleria il Naviglio presentò la prima mostra collettiva spaziale: Milena Milani, Gian Carozzi, Roberto Crippa, Beniamino Joppolo, Lucio Fontana, Cesare Peverelli, Henry Mitchell e Vander Spuis. Qui gli spazialisti illustrarono come il concetto, il contenuto dell’opera potesse essere veicolato da qualunque mezzo materiale.
Fin dai primi anni Trenta, Lucio Fontana si impegnò a superare la concezione della scultura come oggetto statico e chiuso entro limiti rispetto allo spazio che lo accoglie. L’artista volle rompere i rapporti con i valori della statuaria classica per ricollegarsi al dinamismo di Boccioni, alla lezione futurista. Signorina seduta del 1934 è un’opera in cui l’elemento plastico fu concepito in relazione allo spazio circostante. La figurazione divenne qui un pretesto per indagare lo spazio intorno, ed ecco perché l’uso dell’oro nei capelli della fanciulla, che aumenta il contrasto e modula la luce. La veste nera cattura anch’essa la luce per l’asperità della propria materia, che è vibrante e carica di dinamismo. In questo bronzo, Fontana attuò con più decisione quella sintesi tra scultura e pittura già timidamente tentata dal movimento Informale.
Nella ricerca di Fontana la concezione dell’opera d’arte cambiò: si andava adesso dall’oggetto all’ambiente. È il 1949 quando Fontana allestì Ambiente spaziale a luce nera: in una sala della Galleria del Naviglio di Milano, Fontana rispose all’esigenza di una “nuova visione dell’arte” ponendo una scultura di cartapesta ricoperta di vernice fluorescente e appesa al soffitto di una sala completamente dipinta di nero. Una luce ad emissione ultravioletta (lampada di Wood, inventata nel 1935) fu l’unica sorgente luminosa. L’impressione fu quella di fluttuare in una dimensione infinita ed avvolgente. Con questo allestimento, Fontana entrò nel vivo della ricerca spazialista, rivolta allo sconfinamento dei limiti fisici. Fu la prima opera ambientale italiana, pensata come uno spazio dove “ogni spettatore reagiva col suo stato d’animo del momento”. L’Ambiente spaziale del Naviglio, infatti, fu una installazione creata per agire energicamente sulle facoltà sensoriali ed emotive del pubblico.
Da questa prima opera veramente “spaziale”, Fontana iniziò a concepire la luce come materia plastica. Successivamente, si inserì in questa direzione il grande Concetto spaziale al neon. L’opera fu realizzata in collaborazione con l’architetto Luciano Baldessari per lo scalone d’onore della Triennale di Milano del 1951, lo stesso anno in cui venne pubblicato il Manifesto Tecnico. Se nell’Ambiente spaziale del 1949 Fontana aveva usato la luce nera per modulare la percezione della materia nello spazio, nel 1951 l’artista usò la luce per disegnare nello spazio, creò un “arabesco” curvando cento metri di tubi al neon.
La ricerca di Fontana si svolse prevalentemente nel vuoto spaziale: parallelamente all’ambiente, egli concepì la forma e la ricerca spaziale anche sulla tela, poiché il concetto può essere applicato ovunque. Nel 1949 iniziò la serie dei Concetti spaziali: “La scoperta del cosmo è una dimensione nuova, è l’infinito: allora io buco questa tela che era alla base di tutte le arti e ho creato una dimensione infinita”. Così Fontana ebbe a dire a Carla Lonzi in una celebre intervista. Il “buco” non è un gesto distruttivo ma un’azione che porta il concetto di spazio nell’opera, è l’apertura oltre il limite. L’operazione mentale che dà origine al gesto di aprire la materia alla concezione spaziale è quello che portò Fontana alla serie cui il suo nome resterà legato in maniera permanente: i Tagli. Apparentemente semplici gesti impulsivi, sono in realtà il risultato di incisioni nette e molto ponderate (leggi qui un approfondimento su come nascevano i Tagli di Fontana). Le superfici delle tele sono sempre monocrome, di colori puri forti come rosso e blu, spesso verniciate con una stesura di idropittura per conferire lucidità e immaterialità. Con l’incisione della tela, Fontana creò un equilibrio cosmico e compositivo, cancellando la fisicità tradizionale cui è legata la materia. Il primo taglio venne eseguito dall’artista nel 1958: veniva così dato il via alla serie per la quale Fontana affermò di essere riuscito “a dare a chi guarda il quadro un’impressione di calma spaziale, di rigore cosmico, di serenità dell’infinito”. Che fossero uno o più tagli accostati, ognuno di essi rimane un gesto placido, unico e irripetibile, un’apertura verso l’infinito, una dimensione sospesa tra mondo materiale e spazio concettuale. L’indeterminatezza venne opportunamente suggerita dal sottotitolo Attese.
Il lavoro di Fontana trovava spazio anche nell’ambito della ceramica: Battaglia, 1947, dimostra come egli realizzasse opere a tema figurativo dando però sempre molta valenza espressiva alla materia, che si contorce, si raggruma e restituisce effetti di grande dinamismo. Ad Albisola, tra il 1959 e il 1960, realizzò Concetto spaziale. Nature, dove sfere irregolari in terracotta o anche in bronzo vennero slabbrate, forate, intagliate; tuttavia, esse mantennero l’energia di una materia primigenia.
Nessuno degli artisti spaziali che orbitarono attorno a Fontana si avvicinò mai alla complessità e all’articolazione delle tele dei Tagli o alle sue installazioni. Lo spazialismo, pertanto, rimase ancorato alla figura dell’artista italo-argentino, nonostante serpeggiasse fra i linguaggi artistici di diverse personalità; sfumature spazialiste si affacciarono anche nell’attività di artisti come Alberto Burri, Giuseppe Capogrossi, Ettore Sottsass. Di fatto, secondo lo Spazialismo, il concetto poteva essere reso con qualsiasi mezzo.
Milena Milani fu una dei primi firmatari del Manifesto del 1947: con lei, scrittrice e giornalista ligure, la parola intesa come segno concettuale trovò ospitalità su maioliche, ceramiche e tele decisamente innovative. Tancredi Parmeggiani, amico di Carlo Cardazzo e Peggy Guggenheim (che ne comprò le opere e le promosse negli Stati Uniti) sottoscrisse il Manifesto del 1952, ed espose più volte alla Galleria del Cavallino di Venezia e alla Galleria il Naviglio di Milano. Tancredi intese lo Spazialismo sì in una declinazione fortemente pittorica, ma lavorando molto sul versante del segno, richiamando quello delle fonti americane dei pittori Mark Tobey e Jackson Pollock. Lo evidenziano alcune opere Senza titolo acquistate dalla stessa Peggy Guggenheim e conservate a Venezia.
Roberto Crippa si avvicinò presto al movimento di Fontana, firmando addirittura la Proposta di un regolamento, il terzo manifesto del 1950. In questi anni la sua attività artistica si concentrava sulle Spirali, una serie di dipinti astratti che riproducevano le involuzioni che egli esercitava a bordo del suo aereo. I movimenti circolari producevano raggi che idealmente si proiettavano al di fuori della tela, vincendone i limiti. Un altro artista che sostenne il movimento da subito, dal 1947, fu Gianni Dova che espose alla Galleria del Cavallino e alla Galleria del Naviglio, ma abbandonò presto la corrente per rivolgere le proprie indagini artistiche a una pittura più “nuclearista”.
Gli sviluppi più importanti delle ricerche spazialiste di Fontana trovarono continuità nell’operato di due artisti che non sottoscrissero i manifesti ma rimasero affascinati dai risultati dell’arte di Fontana: Enrico Castellani e Agostino Bonalumi, che ampliarono e trasformarono in maniera determinante il concetto di spazio nell’arte contemporanea. Entrambi lavorarono sull’idea di superare la bidimensionalità del quadro: questa concettualizzazione dello spazio come parte integrante dell’opera d’arte ha influenzato profondamente Castellani e Bonalumi. Enrico Castellani, con le sue superfici a rilievo, ha esteso la ricerca di Fontana esplorando le possibilità del monocromo e della tridimensionalità. Utilizzando chiodi e altri strumenti per deformare la superficie della tela, Castellani ha creato una serie di opere caratterizzate da una superficie ondulata e dinamica. Questo metodo ha permesso alla luce di interagire in modo variabile con la superficie, creando giochi di ombre e riflessi che danno un senso di movimento e profondità, rompendo la staticità della pittura tradizionale, ed esplorano i concetti di ritmo, tempo, infinito: le sue superfici possono essere considerate quasi dei brani di infinito che l’artista cattura e propone all’osservatore, dal momento che gli schemi seguiti dall’artista sono regolari e potenzialmente replicabili all’infinito.
Bonalumi ha portato avanti un’ulteriore evoluzione del concetto spazialista. Le sue opere, spesso definite “pitture-oggetto”, utilizzano strutture sottostanti per deformare la tela in modo controllato, creando sporgenze e avvallamenti che invadono lo spazio dello spettatore. Bonalumi ha esplorato la percezione sensoriale e lo spazio fisico, giocando con l’illusione ottica e la realtà tangibile, rendendo l’opera d’arte un’entità fisica e interattiva. Entrambi gli artisti hanno quindi ampliato la visione di Fontana, integrando lo spazio fisico e percepito nell’arte, e contribuendo in modo significativo alla nascita di una nuova estetica tridimensionale che ha influenzato profondamente l’arte contemporanea.
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