Una delle più celebri fotografie che ritraggono Lucio Fontana (Rosario, 1899 - Comabbio, 1968) è quella scattata dal grande Ugo Mulas (Pozzolengo, 1928 - Milano, 1973): nell’immagine si vede l’artista, padre dello spazialismo, mentre apparentemente ha appena finito di eseguire un taglio su di una tela con il suo taglierino Stanley. In realtà, avrebbe poi spiegato Mulas, Fontana aveva solo fatto finta d’incidere la tela: per esigenze creative, l’artista aveva chiesto di poter posare di fronte a un’opera già finita, fingendo d’averla appena tagliata. “Se mi riprendi mentre faccio un quadro di buchi”, aveva confessato Fontana a Mulas, “dopo un po’ non avverto più la tua presenza e il mio lavoro procede tranquillo, ma non potrei fare uno di questi grandi tagli mentre qualcuno si muove intorno a me. Sento che se faccio un taglio, così, tanto per far la foto, sicuramente non viene... magari, potrebbe anche riuscire, ma non mi va di fare questa cosa alla presenza di un fotografo, o di chiunque altro. Ho bisogno di molta concentrazione. Cioè non é che entro in studio, mi levo la giacca, e trac! Faccio tre o quattro tagli. No, a volte, la tela, la lascio lì appesa per delle settimane prima di essere sicuro di cosa ne farò, e solo quando mi sento sicuro, parto, ed è raro che sciupi una tela; devo proprio sentirmi in forma per fare queste cose”.
Forse, ipotizzava Mulas, era per via di questa concentrazione e di questa dimensione meditativa che precedeva la realizzazione di ogni taglio, che Fontana aveva dato loro il nome di Attese. Il fotografo chiese dunque all’artista di posare prima davanti a una tela ancora immacolata, e poi di fronte a un’opera finita: l’idea di Mulas, l’obiettivo che si era posto con la famosa serie di fotografie scattate nel 1964 nello studio di Fontana, era di riuscire a capire cosa l’artista facesse. “L’operazione mentale di Fontana (che si risolveva praticamente in un attimo, nel gesto di tagliare la tela)”, avrebbe scritto Mulas, “era assai più complessa e il gesto conclusivo non la rivelava che in parte. Vedendo un quadro di buchi, o un quadro di tagli, è facile immaginare Fontana mentre fa il taglio con una lama o i buchi con un punteruolo, ma questo non lascia comprendere l’operazione che è più precisa e non è solo un’operazione, ma un momento particolare, un momento che capivo di dover fotografare”.
L’Attesa. Lucio Fontana fotografato da Ugo Mulas nel 1964 |
L’Attesa. Lucio Fontana fotografato da Ugo Mulas nel 1964 |
Lucio Fontana alla Biennale di Venezia del 1966 |
Oltre all’operazione concettuale (della quale si è già parlato in questa sede) è tuttavia interessante anche comprendere i termini dell’operazione tecnica, che seguiva un iter preciso e tutt’altro che semplice (ed è necessario rimarcare l’importanza della tecnica per Fontana, benché l’atto creativo venga prima dell’abilità manuale: “la tecnica”, spiegò a Carla Lonzi, che poi pubblicò l’intervista nel suo celeberrimo Autoritratto, “per noi era la terra, il marmo, il bronzo, e veramente bisognava saperle usare perché dovevi modellare e, nel modellato, davi tutta la vita, davi tutta la forma... [...]. Oggi le tecniche sono infinite, è quasi un volere approfittare delle tecniche proprio per allontanare il fatto pittorico [...]. La tecnica è importante per la bravura di un artista, no? Perché l’artista è già un creatore e crea con qualunque materia, poi fa la pratica e la perfeziona”). Uno degli studî più interessanti sulla tecnica di Lucio Fontana è quello pubblicato nel 2012 dalla storica dell’arte Pia Gottschaller, intitolato Lucio Fontana. The artist’s materials, in cui vengono presi in esame tutti i filoni della produzione dell’artista italo-argentino al fine d’indagare le modalità attraverso le quali veniva raggiunto il risultato finale. Nell’arco di dieci anni, dal 1958 al 1968, Fontana realizzò circa 1.500 tagli, che divennero dunque il filone più consistente della produzione dell’artista, la naturale estensione dei precedenti buchi, e il limite che Fontana stesso pensava di non poter superare (“Io con il taglio ho inventato una formula che non credo di poter perfezionare”, avrebbe detto. “Sono riuscito con questa formula a dare a chi guarda il quadro un’impressione di calma spaziale, di rigore cosmico, di serenità nell’infinito”). In questo lasso di tempo, Fontana continuò a sperimentare: sui colori, sui materiali, sul formato delle tele, sul numero di tagli, sulla loro disposizione, sulla loro dimensione in rapporto alla superficie. I primi due anni furono quelli più intensamente dedicati alla ricerca: dal 1960 in poi, le sperimentazioni si ridussero e Fontana si trovò a suo agio con opere che recavano da uno a cinque tagli su tele monocromatiche.
La realizzazione di un taglio sulla tela comportava, intanto, una sfida tecnica: era cioè necessario comprendere come incidere la tela senza diminuirne la tensione, in modo che la porzione tagliata non si aprisse eccessivamente rovinando l’opera in maniera irrimediabile a causa delle deformazioni che avrebbe subito (non è semplice mantenere piatta e perfettamente tesa una tela tagliata, inoltre i bordi dei tagli tendono ad assorbire l’umidità in maniera diversa e disomogenea rispetto al resto della tela). E ancora, i tagli si deformano con il tempo, dato che nei diversi punti la tela è sottoposta a tensioni diverse, e gli stessi squarci reagiscono in maniera diversa a seconda dei materiali e delle modalità con cui è stato preparato il supporto (per esempio, sappiamo che Fontana abbandonò già nel 1959 le sperimentazioni con l’inchiostro, perché una preparazione a inchiostro risultava più delicata e il taglierino, appena appoggiato sulla superficie, lasciava delle piccole incisioni ancor prima che cominciasse l’azione del taglio). Inoltre, un taglio eseguito in maniera non decisa avrebbe potuto creare dei bordi sfilacciati, e ulteriori problemi avrebbero potuto manifestarsi all’inizio o alla fine del taglio, anche a seconda della modalità e della fermezza con la quale la lama avrebbe cominciato o finito di incidere la superficie. Senza contare che tutti i problemi sin qui descritti variano anche in funzione del tipo di tela scelto (è ovvio che un tessuto a grana grossa si squarcia in maniera totalmente diversa rispetto a un tessuto a grana fine).
Ad ogni modo, Fontana non lasciò scritti su come eseguiva i tagli: lo studio di Pia Gottschaller si è basato sulle testimonianze delle uniche due persone che lavorarono nello studio di Fontana, ovvero la designer Nanda Vigo (Milano, 1936), che collaborò con Fontana soprattutto sugli ambienti, ma che assistette anche alla realizzazione di altri suoi progetti, e l’artista Hisachika Takahashi (Tokyo, 1940), che lavorò con Fontana dal 1964 al 1968. Solitamente Fontana ordinava dalle sei alle otto tele per volta: probabilmente il suo fornitore principale era il Colorificio Nord, ma secondo Enrico Castellani (Castelmassa, 1930 - Celleno, 2017) Fontana forse optava anche per i materiali del Colorificio Calcaterra, che riforniva anche lo stesso Castellani. Secondo Vigo, Fontana ordinò delle tele anche alla bottega Crespi in via Brera a Milano, da dove provenivano i materiali più costosi, anche se gli esami sulle opere non hanno rivelato grandi differenze tra i tessuti, o almeno non tali da riuscire a distinguerne la provenienza. L’artista di Rosario per le sue opere sceglieva sempre tela di lino belga, anche se la grana del tessuto poteva variare (dal 1959, Fontana preferì tele a grana media e di tessuto molto più spesso rispetto a quelle che sceglieva nei primi esperimenti: queste caratteristiche gli consentivano di creare più tensione e di ridurre di conseguenza l’apertura degli squarci). In qualche occasione utilizzò anche tela di juta, che però presentava notevoli problemi di tensione. Dal Concetto spaziale del 1959 della figura riportata sotto, si nota facilmente quali potevano essere i problemi (in questo caso, una tela non perfettamente tesa crea dei piccoli sollevamenti in prossimità dei lembi dei tagli).
Prima di essere colorata, la tela veniva preparata con una stesura di colore bianco sia sul recto che sul verso, in modo che la materia pittorica impregnasse tutta la superficie. La preparazione era realizzata con cementite, una vernice ad alta densità inventata nel 1928 da un’azienda genovese, la Tassani, e che conobbe una vasta diffusione negli anni Cinquanta (tanto da divenire un termine adoperato anche per indicare preparazioni simili realizzate da altre ditte) per via della sua resistenza e della sua versatilità, e come legante venivano adoperate resine alchidiche (un materiale a basso costo). La tela così preparata era fissata al telaio per mezzo di chiodi alternati a punti metallici che dovevano tenerla in tensione. Il fronte della tela veniva poi colorato: Fontana sperimentò varie soluzioni, dalla pittura a olio all’anilina, anche se il suo materiale più famoso è l’idropittura, una vernice diluita con acqua solitamente adoperata per pitturare le pareti delle abitazioni, facilmente reperibile, dai costi contenuti, e già pronta per l’uso. La scelta dell’idropittura, che divenne preponderante nelle ultime fasi della carriera dell’artista, era dovuta ad alcune caratteristiche essenziali di questo materiale, in particolare la sua tendenza ad asciugare velocemente e la sua capacità di garantire una superficie liscia, tale da far sì che non si vedessero le linee delle pennellate.
Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attese (1959; aniline, tagli e buchi su tela, 97 x 130 cm; Milano, Fondazione Lucio Fontana), cat. 59 T 1. © Fondazione Lucio Fontana) |
Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attese (1959; idropittura su tela, 100 x 81 cm; Rovereto, MART - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, in deposito da collezione privata), cat. 59 T 38. © Fondazione Lucio Fontana |
Terminata la preparazione, arrivava il momento del taglio. Come risulta dalla testimonianza di Mulas, poteva trascorrere molto tempo prima che Fontana decidesse come apportare l’incisione. Quando procedeva, l’artista adoperava un taglierino Stanley, molto affilato, e faceva scorrere la mano dall’alto verso il basso a velocità moderata: questa operazione necessitava di una mano molto ferma, dal momento che un taglio portato male non poteva in alcun modo essere corretto, e tutto ciò che era stato fatto in precedenza per preparare il supporto avrebbe corso il rischio di essere vanificato. Fontana doveva poi fare un’ulteriore considerazione: doveva cioè scegliere l’esatto momento di asciugatura della tela. Il taglio veniva infatti condotto prima che la tela si asciugasse completamente, perché una superficie troppo secca avrebbe contratto la tela creando problemi al taglio. Una volta eseguito il taglio, Fontana applicava sul retro delle strisce di robusta e spessa garza nera (che lui chiamava “teletta”) in modo che non si vedesse il muro dietro il dipinto. Venivano fatte aderire con colla Vinavil spalmata dietro i due lembi del taglio, e avevano anche una funzione che potremmo dire statica, dal momento che rinforzavano la struttura dell’opera (la garza bloccava infatti la deformazione dei bordi del taglio). Inoltre, il nero della teletta aveva anche una funzione prettamente concettuale (“quando io mi siedo davanti a uno dei miei tagli, a contemplarlo”, avrebbe detto l’artista, “provo all’improvviso una grande distensione dello spirito, mi sento un uomo liberato dalla schiavitù della materia, un uomo che appartiene alla vastità del presente e del futuro”). I bordi dello squarcio venivano poi aggiustati a mano in modo che assumessero la caratteristica forma leggermente concava che distingue pressoché tutti i tagli di Lucio Fontana: si trattava di un’operazione necessariamente manuale, dal momento che i lembi, con la sola incisione del taglierino, non finiscono certo per avere la forma che vediamo nell’opera finita.
Una volta terminato il tutto, Fontana firmava il retro e spesso apponeva anche una frase che rimandava a ricordi, stati d’animo, esperienze del quotidiano: ci sono per esempio dichiarazioni d’amore alla moglie (“Voglio bene a Teresita”, sul retro del taglio identificato dal numero 60 T 9), circostanze della vita di tutti i giorni (“è venuta a trovarmi Martha Jackson”, 68 T 110, “Domani farà freddo”, 65 T 109), riflessioni lapidarie sul presente (“Possibile che gli uomini politici non comprendano”, 67 T 102), memorie (“Nel 1906 quando arrivai a Milano c’erani i tram a cavalli”, 67 T 107), manifestazioni di dolore per la scomparsa del suo amato cane Blek (“Blek, addio per sempre”, 67 T 86, “Sono ancora tanto triste ciao Blek”, 67 T 88), e frasi criptiche, quasi intrise di misticismo (“Aspetto il giardiniere dell’anima”, 67 T 70, “Incomincio a essere stanco di pensare”, 68 T 27). Queste iscrizioni sono state interpretate come uno stratagemma che Fontana aveva escogitato per difendere la sua opera dai falsarî: un’eventuale perizia calligrafica avrebbe sicuramente stabilito l’autenticità della scritta (a difendere l’opera dell’artista c’è oggi l’attiva Fondazione Lucio Fontana che, oltre ad autenticare le opere e garantirne dunque la genuinità, compila il catalogo generale dell’artista e collabora alla realizzazione di numerose mostre che diffondono presso il grande pubblico il suo lavoro). Era invece raro che Fontana datasse le opere: probabilmente questa caratteristica era dovuta al fatto che, per l’artista, i suoi Concetti spaziali dovevano collocarsi al di fuori del tempo. È invece piuttosto frequente trovare il titolo, Concetto spaziale o Attesa.
Quando uno dei tagli era finito, raramente Fontana tornava a lavorarci. Per esempio, poteva ridipingere l’opera per cambiare colore, ma si tratta di un’evenienza rarissima: Gottschaller riporta solo tre casi in cui l’artista mantenne il colore cambiando però la tonalità, e uno solo in cui optò per un colore totalmente diverso rispetto a quello scelto inizialmente. Stando alla testimonianza di Takahashi, Fontana non ritoccava la superficie neppure le rare volte nelle quali, per errore, la sfiorava con l’impugnatura del taglierino creando così un piccolo punto più liscio e lucido rispetto al resto dell’opera. Era più facile che cambiasse l’orientamento dell’opera una volta appesa: ci sono casi di opere con iscrizioni sul retro che corrono in sensi opposti, a indicare come probabilmente Fontana avesse cambiato idea sul verso in cui l’opera andava esposta. Altri casi simili compaiono nei cataloghi delle mostre: a volte si trovano opere girate da un lato, e in cataloghi successivi le si possono ritrovare ruotate. Il dato significativo, sottolinea Gottschaller, è che “per Fontana l’orientamento dell’opera non era scolpito nella pietra. Specialmente all’inizio del ciclo dei tagli, sembra che Fontana abbia sperimentato diversi modi di ottenere un equilibrio semplicemente girando le tele”. È comunque certo che l’artista avesse scartato fin da subito l’idea di tagli che scorressero in orizzontale.
Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attese (1963-1964; idropittura su tela, 47 x 38,5 cm; Collezione privata), cat. 63-64 T 18. © Fondazione Lucio Fontana |
Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attese (1964; cementite su tela, 190,3 x 115,5 cm; Torino, Galleria d’Arte Moderna). © Fondazione Lucio Fontana |
Fontana, per tutti gli ultimi dieci anni della sua carriera, dal primo fino all’ultimo taglio, non smise di continuare a sperimentare e cercare nuove soluzioni per le opere per le quali è più noto, alla ricerca di risultati che fossero concettualmente ed esteticamente perfetti. Nella sua produzione troviamo (e qui se ne sono forniti alcuni esempî) tagli più o meno allargati, più o meno curvi, obliqui o verticali, presenti da soli o in gruppo, in gruppi aventi le stesse dimensioni o di lunghezze diverse. Un gesto all’apparenza banale, scontato, facile, e che si potrebbe ritenere alla portata di tutti, necessitava di una certa perizia tecnica, di un’attitudine alla ricerca, e di una grande concentrazione, al limite del contemplativo. Anche se forse, come ha notato Pia Gottschaller riportando le testimonianze, tra gli altri, di Takahashi e di Getulio Alviani, la verità sta nel mezzo: in particolare, difficilmente Fontana produceva un solo taglio al giorno, più probabile che realizzasse piccoli gruppi di Attese per ogni giornata lavorativa (fino a un massimo di dieci, si ritiene). E data la mole di tagli che ci sono arrivati, possiamo stabilire che Fontana producesse in media un taglio ogni due giorni (dobbiamo poi considerare che non fu questo il solo filone che occupò gli ultimi dieci anni della sua carriera). Ed è Fontana stesso comunque a spiegare che il grande numero di opere era dovuto alle pressanti richieste del mercato: “tutti vogliono i miei tagli”, spiegò l’artista in un’intervista a Giorgio Bocca uscita su Il Giorno il 6 luglio del 1966, a margine della trentatreesima Biennale di Venezia dove l’artista vinse il Gran Premio Internazionale per la Pittura. L’artista confessò a Bocca che per le sue esigenze un taglio al mese sarebbe stato più che sufficiente, ma collezionisti e mercanti lo imploravano chiedendo in continuazione nuovi Concetti spaziali. Ed era anche del tutto consapevole del loro valore, lamentando il fatto che, quando costavano poche migliaia di lire, nessuno li voleva, mentre erano diventati una sorta di oggetto del desiderio quando il loro valore aveva cominciato a toccare i milioni di lire: e Fontana, ovviamente, guardava divertito all’ascesa delle sue quotazioni e all’incremento dell’interesse dei collezionisti nei confronti della sua opera.
Questo però era un aspetto secondario del suo lavoro. È normale che Fontana avesse tratto un buon profitto dai suoi tagli, ma non era questa la ragione per cui continuava a produrli. L’artista non era tanto interessato al fatto che facoltosi collezionisti potessero accaparrarsi le sue opere: gli premeva di più che il suo lavoro venisse conosciuto da quante più persone possibili, e che venisse apprezzato. L’artista Fausta Squatriti (Milano, 1941), evidenzia Pia Gottschaller nel suo studio, ricordava che a Fontana, per un suo “senso di democrazia”, “sarebbe piaciuto anche creare un’infinità di tagli bianchi (che a suo avviso erano i più belli) in modo che ognuno potesse possederne uno”. E, scrive ancora Gottschaller, “a Takahashi disse che si sarebbe semplicemente accontentato se il suo lavoro fosse stato visto da tanti. Alviani spiegò che a Fontana veniva costantemente richiesto di esporre, e che i collezionisti si aspettavano di avere un assortimento tra cui scegliere quando si recavano al suo studio. Ma molti di coloro che lo conobbero asseriscono che Fontana continuò a essere estremamente generoso, regalando molte opere ad amici e conoscenti”.
Bibliografia di riferimento
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo