Negli anni Sessanta molti artisti adottarono la performance come nuova modalità espressiva, scegliendo di presentare il proprio corpo, o quello altrui, come medium operativo prediletto. Questa nuova dimensione artistica fu il risultato di processi storici che condussero alla centralizzazione dell’individuo, che negli anni Sessanta venne posto in primo piano, reso oggetto di riflessioni esistenzialiste anche grazie a quei movimenti d’opinione che agirono per la rivendicazione dei diritti della persona, della donna, del corpo, degli orientamenti sessuali. Fra le prime esperienze artistiche che portarono il corpo protagonista ci furono, nel 1960, le Anthropométrie di Yves Klein (Nizza, 1928 – Parigi, 1962), dove alcune donne lasciavano le proprie tracce blu su una tela. In Italia, Piero Manzoni (Soncino, 1933 – Milano, 1963) firmò il corpo nudo di una modella, realizzando così una Scultura vivente (1961). Il momento in cui il corpo come medium occupò pienamente il centro della scena fu quello in cui si consolidò l’indagine artistica della Body Art, con azioni spesso riportanti condizioni di estrema violenza fisica o psicologica che venivano presentate davanti a un pubblico, chiamato a partecipare emotivamente e talvolta anche fisicamente.
Si trattò di forme di rappresentazione artistica temporanea, una forma di comunicazione diretta vicina al mondo dell’happening, con l’obiettivo di provocare una rottura all’interno del sistema dei valori sociali più convenzionali, obiettivo condiviso con il gruppo Fluxus. Le performance dei body artist non di rado sconcertarono il pubblico, catturato dalle azioni inusuali o brutali. In questo turbamento dei sensi, il corpo è protagonista e luogo dei simboli, trasmettitore di tematiche universali.
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, l’Europa e gli Stati Uniti furono attraversati da vasti movimenti di opinione, rappresentati soprattutto dalle classi operaie e da quella parte della popolazione più giovane e studentesca. Le denunce furono rivolte al sistema borghese, al capitalismo e alle istituzioni; si condannarono il consumismo ed ogni tipo di autoritarismo. Si rivendicarono le libertà fondamentali dell’individuo, i diritti umani: l’emancipazione delle donne, il diritto di poter decidere sul proprio corpo, la libertà di esprimere il proprio orientamento sessuale. In questo senso il 1968 fu l’anno più significativo, poiché si verificò una concentrazione di eventi che comportarono trasformazioni radicali.
Fu inevitabile che anche il mondo dell’arte risentisse di questi mutamenti: i temi più scottanti entrarono da protagonisti delle nuove modalità espressive, lo scenario culturale cominciò a mettere in discussione gli schemi più canonici, proponendo alternative, uscendo dalle consuete strutture del fare artistico. Anticipazioni di questo atteggiamento si individuano nell’attività dall’artista francese Marcel Duchamp, che fu rivoluzionario e pioniere nel suo perseguimento dell’idea di arte concettuale.
Quell’idea confluì poi negli ambiti surrealisti e dada, nel cinema d’avanguardia di primo Novecento. Iniziò ad essere superata la convenzione che vedeva l’opera d’arte come mero manufatto estetico, destinato ad un pubblico limitato in una contemplazione passiva. In questi anni di tumulti sociali, la considerazione dell’opera d’arte intesa come oggetto venne scavalcata a favore della sua idea: l’opera-concetto venne posta in dialogo diretto con il fruitore, che adesso occupava una posizione nuova rispetto all’oggetto, non più contemplativa, ma attiva e tesa a costituire uno scambio. Fu un ricollocazione comprensibile se si guarda agli avvenimenti contemporanei: come l’individuo ottenne una nuova centralità grazie ai fenomeni socio-culturali di quegli anni, così il singolo spettatore arrivava ad essere coinvolto in una posizione paritaria, a tu per tu con l’opera. Viceversa, l’opera d’arte perdeva quell’aura mitica di lontananza, si democratizzava avvicinandosi al pubblico per poter sostenere un confronto, uno scambio grazie al quale trovava la sua ragion d’essere. Questo genere di atteggiamento nell’arte e nella cultura faceva una sua prima comparsa nell’ambito balletto moderno del coreografo Merce Cunningham; nella musica sperimentale di John Cage in America, negli anni Cinquanta. Negli anni Sessanta si diffuse la pratica dell’happening, performance artistica che ricercava l’estetizzazione del gesto quotidiano; il gruppo Fluxus affrontava e informava circa i problemi della contemporaneità.
L’Azionismo viennese portò gli artisti ad incontrarsi nella condivisione dell’idea del proprio corpo come elemento e medium principale di trasmissione di messaggi e valori estetici. Questi fenomeni condussero l’indagine corporea a un pieno compimento che trionfò con la Body Art. In particolare, gli Azionisti viennesi ebbero un ruolo importante nel reclamare la propria libertà di espressione artistica, considerando soprattutto l’ostilità del territorio austriaco. Il lavoro di Hermann Nitsch (Vienna, 1938 – Mistelbach, 2022) presentò esibizioni e ricostruzioni di rituali pagani piuttosto feroci, con l’utilizzo di sangue e l’esposizione di cadaveri animali. La componente violenta indagata da Nitsch è un elemento che si ripropose scivolando nelle pratiche dei body artist.
La Body Art emerse nella sua definizione a partire dagli anni Settanta in America, dove si diffuse l’idea di pensare il corpo umano nel ruolo di materiale artistico. Come nell’happening, la Body Art propose espressioni di impianto teatrale; furono scene temporanee che scelsero di non durare, e per questo accadeva che venissero filmate e fotografate. Il corpo diventò un’arena, un luogo dell’azione, la corporeità fu intesa come possibilità di trasmettere messaggi di portata universale. Un obiettivo, condiviso anche dal gruppo Fluxus, fu quello di provocare un’interruzione nel perpetuarsi degli schemi artistici tradizionali, agendo a fianco dei movimenti politici, sociali e culturali che dilagarono negli anni Sessanta.
La Body Art considerò il corpo come un’alternativa ai materiali tradizionali, un carico di energia di vitale con la sua naturale possibilità di movimento. In alcuni casi, questo genere di ricerca artistica percorse anche una linea di espressione sadomasochistica. Dolore, ferite, tagli e altri espedienti traumatici entrarono parte della dimensione estetica proposta dai body artisti. Secondo questo modus operandi gli artisti agirono in aperto confronto col pubblico: usando il corpo e uno spazio cercarono di trasmettere un valore che fosse importante e attuale. I body artisti intesero provocare nei visitatori uno shock collettivo, stimolando una partecipazione e una reazione incisiva. Da qui, l’obiettivo ultimo fu anche quello di indurre gli spettatori a vivere un’esperienza catartica.
Come anticipato, la Body Art emerse negli Stati Uniti con il diffondersi dell’uso del corpo inteso come un materiale artistico. A New York, Vito Acconci (New York, 1940 – 2017), figlio di immigrati italiani, inseguiva per ore diversi passanti scelti per caso; all’interno dei musei, si avvicinava eccessivamente ai visitatori per suscitare in loro reazioni infastidite. In tutte quelle azioni, le persone erano ignare di quali fossero i suoi obiettivi, ovverosia l’indagine della sfera dei rapporti interpersonali. Violando le distanze fisiche interpersonali, Acconci trascurò le convenzioni sociali mettendo così in discussione gli schemi comportamentali più consolidati.
Successivamente, proseguì intraprendendo una conoscenza cruda del proprio corpo, portandolo in evidenza nella sua ricerca artistica. Con Trademarks (Marchi di fabbrica), nel 1970, iniziò a mordersi con violenza, divenendo al contempo soggetto attivo e oggetto passivo dell’opera. Le impronte lasciate dei denti sulla propria carne vennero immortalate dal medium fotografico, coperte di inchiostro e poi stampate su carta.
L’azione provocatoria fu rivolta a un’analisi della violenza, spesso estesa anche a un contesto storico e sociale. L’iniziativa venne condivisa ed abbracciata anche da Chris Burden (Boston, 1946 – Topanga, 2015), che nel 1971 si fece sparare da un suo amico con un fucile calibro 22. L’azione si chiamò Shoot, prese forma in una galleria in California, di fronte ad un pubblico consenziente, testimone, vulnerabile di fronte al trauma che si sarebbe verificato. Con Shoot, Burden denunciò l’assuefazione che il popolo americano aveva sviluppato di fronte alla violenza. Contestualmente, indagò quella tensione emotiva, la suspense che investe chi sa che sta per essere colpito da un proiettile.
Nel contesto europeo, la francese Gina Pane (Biarritz, 1939 – Parigi, 1990) prese distanze dalle operazioni degli Azionisti, delineando la sua Body Art in un senso più violento. L’artista si inflisse ferite vere, provocando e mettendo in scena sofferenze concrete utilizzando il proprio corpo. Per ogni performance, Gina Pane, corredata puntualmente di un abito bianco, esibì il proprio supplizio, per comunicare al pubblico come i pericoli, i sacrifici, le sofferenze siano onnipresenti, anche nei momenti di apparente felicità e bellezza, troppo fragili per durare. Nel 1973 l’artista strinse un mazzo di rose, da sempre il fiore simbolo dell’amore romantico, per poi conficcarsi le spine negli avambracci: con Azione sentimentale, Gina Pane volle esprimere come anche i sentimenti più poetici e profondi possano arrecare dolore.
Marina Abramović (Belgrado, 1946), attiva fin dagli anni Sessanta, improntò la sua ricerca artistica all’analisi dei rapporti interpersonali, cercando le reazioni turbate degli individui fra il suo pubblico. Conobbe ed allargò i limiti estremi del suo corpo cercando di superare le possibilità imposte dalla mente umana. A Napoli, nel 1974, l’artista serba mise a dura prova la sua mente e il suo corpo. Nella galleria Studio Morra diede vita ad una delle azioni più sconvolgenti nella storia della Body Art (l’azione si chiamò Rhythm 0) invitando i presenti ad usare su di lei gli oggetti più diversi, tra cui anche corde e forbici. Marina Abramović si ritrovò in breve tempo con i vestiti lacerati, sfregiata e con una pistola carica puntata alla testa. Nella grande tensione emotiva di quel momento, la performance trasmise l’importanza del tema della violenza sui più deboli, e, soprattutto, quella esercitata sulle donne.
Insieme all’artista tedesco Ulay (Uwe Laysiepen, Solingen 1943 - Lubiana, 2020), Abramović realizzò opere in coppia. Celebre l’evento di Imponderabilia, realizzato il 2 giugno 1977 a Bologna, nella Galleria d’Arte moderna. I due artisti si appoggiarono alle pareti di un varco stretto creato all’entrata del museo, completamente nudi, rendendo inevitabile un contatto fisico per chiunque volesse entrare nella Galleria. Le reazioni più diverse dei visitatori, imponderabili appunto, davano significato all’azione svolta.
Fra i temi affrontati dall’artista nelle sue performances ci sono l’erotismo, il corpo della donna, le violenze della guerra nei Balcani. Balkan Baroque fu una performance eseguita nel 1997, in occasione della Biennale di Venezia. Marina Abramović venne premiata con il Leone d’Oro: l’azione consistette nel sedersi su di un cumulo di resti di bovini. L’artista raccoglieva le ossa, le ripuliva dalla carne e dalla cartilagine residue. Il rituale esaudiva il suo senso catartico nella condanna degli errori commessi nelle guerre jugoslave.
In Germania, Rebecca Horn (Michel Stadt, 1944) intraprese una linea alternativa nell’ambito della Body Art. La sua espressione artistica prevedeva l’innesto di protesi: durante un periodo di ricovero che la costrinse all’immobilità, progettò apparecchi che le permettessero movimenti. Questa condizione si risolse in una performance, Finger Handschuhe, un dispositivo che allungava le dita dell’artista, con il quale poté afferrare gli oggetti. Questa possibilità imponeva una consapevolezza diversa nel semplice movimento e contatto con l’ambiente esterno.
Lo svizzero Urs Lüthi (Kriens, 1947), indagò invece la dimensione del trucco e del travestimento. In Selfportrait with Ecky, Lüthi nel 1974 manipola la propria identità sessuale, cercando di rendere il proprio profilo più femmineo possibile e di farlo coincidere con quello della propria fidanzata. Questa esplorazione nell’identità sessuale affonda le sue radici nell’attività delle Avanguardie storiche. L’artista Marcel Duchamp intraprese questa ricerca negli anni Venti, facendosi fotografare dall’americano Man Ray vestito come Rrose Sélavy. La sovrapposizione di profili operata da Urs Lüthi venne immortalata in uno scatto, oggi in collezione privata.
La Body Art fu un campo più che fertile per l’impegno artistico nella causa femminista. Oltre alle artiste sopra menzionate, si ricordano le attività della francese ORLAN (Mireille Suzanne Francette Porte; Saint-Étienne, 1947), che nel 1977 allestì la vendita del proprio corpo durante l’azione Se vendre sur les marchés en petits morceaux (“Vendersi sui mercati a piccoli prezzi”) portando a riflettere sull’effettivo potere decisionale e sulla disposizione che le donne hanno (o dovrebbero avere) del proprio corpo.
Valie Export (Waltraud Lehner; Linz, 1940), nel 1968 eseguì Aktionshose: Genitalpanik (Pantaloni d’azione: panico genitale) camminando in un cinema porno di Monaco con i pantaloni tagliati sul cavallo per rivelare i propri peli pubici. Il pubblico rimase inevitabilmente colpito e offrì diverse reazioni: qualcuno si alzò e andò via, qualcuno rimase e disse “è qualcosa di nuovo, potrei anche rifletterci su”.
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