Con l’espressione “Arte relazionale” si fa riferimento a un movimento culturale, una tendenza artistica contemporanea la cui teorizzazione è connessa alla figura del critico e curatore francese Nicolas Bourriaud (Niort, 1965). Questa forma d’arte, conosciuta anche come “Arte socialmente impegnata”, “Community Based Art” e “Arte partecipativa”, si sviluppò intorno alla metà degli anni Novanta. L’opera relazionale esiste in quanto si fonda sulla condizione dell’esistenza di relazioni e legami: per questo è necessaria la presenza di altre persone nella produzione di quest’arte. L’arte relazionale non si limita a creare oggetti estetici, ma si focalizza sulla creazione di esperienze e relazioni umane, trasformando gli spettatori in attori. Pertanto, la partecipazione attiva del pubblico si rende necessaria.
Questa tendenza artistica è contemporanea in quanto nasce anche con l’intenzione di testimoniare il tempo che l’accompagna: è infatti un’espressione dalle spiccate caratteristiche politiche e sociali. Al centro della visione artistica relazionale vi è la concezione dell’uomo nei termini di animale creativo: l’artista relazionale è qualcuno che abbandona la produzione di oggetti tipicamente estetici e si dedica a creare dispositivi in grado di attivare un istinto di creatività nel pubblico. L’opera d’arte mette da parte l’aspetto estetico per divenire un luogo di dialogo e confronto, e, dunque, di relazione. L’opera relazionale non è tale in quanto risultato o manufatto artistico, ma è indicativa poiché rappresentante di un percorso, il manifesto di un processo svolto tra più parti, dov’è avvenuto un incontro e la graduale scoperta dell’altro.
Tra i precursori dell’arte relazionale possono essere considerati Maria Lai (Ulassai, 1919 — Cardedu, 2013) oltre al Gruppo di Piombino composto da Pino Modica (Civitavecchia, 1952), Stefano Fontana (Torino, 1967) e Salvatore Falci (Portoferraio, 1950) e, in un secondo momento, Cesare Pietroiusti (Roma, 1955). Possono essere invece iscritti a pieno titolo nel movimento artisti come Henry Bond (Londra, 1966), Angela Bulloch (Rainy River, 1966), Maurizio Cattelan (Padova, 1960), Félix Gonzáles-Torres (Guàimaro, 1957 — Miami, 1996), Liam Gillick (Aylesbury, 1964), Jens Haaning (Copenaghen, 1965), Carsten Höller (Bruxelles, 1961), Pierre Huyghe (Parigi, 1962), Philippe Parreno (Orano, 1964), Rirkrit Tiravanija (Buenos Aires, 1961), Xavier Veilhan (Parigi, 1963).
La codificazione di questo movimento artistico è indissolubilmente legata al nome del francese Nicolas Bourriaud (Niort, 1965), teorico e curatore di mostre. L’attività dello studioso si contraddistinse per la volontà di conciliare gli aspetti teorici con quelli curatoriali. Bourriaud ebbe il merito di aver formulato teorie a partire dalla frequentazione di artisti più sperimentali. Tra le sue pubblicazioni, hanno avuto notevole risonanza Esthétique relationnelle (1998) Formes de vie. Altri scritti sono L’art moderne et l’invention de soi (1999), Postproduction (2002) e Radicant. Pour une esthétique de la globalisation (2009).
Lo scrittore iniziò la sua attività di critico d’arte nella seconda metà degli anni Ottanta ed organizzò molte mostre significative: in particolare si ricordano Traffic (1996) al CAPC Musée d’art contemporain de Bordeaux, Touch. Relational art from the 1990s to now (2002) al San Francisco Art Institute e un’importante attività curatoriale al Palais de Tokyo (dal 2000 al 2006). Con la sua esperienza, Bourriaud ha contribuito alla definizione dell’arte relazionale e, grazie alla collaborazione diretta e personale che il teorico ebbe con gli artisti, fu in grado di evidenziare quali fossero i caratteri particolari che accomunavano le loro opere, senza tuttavia individuare uno stile univoco. Piuttosto, Bourriaud comprese che l’arte relazionale fu soprattutto un orizzonte teorico comune e sicuramente nuovo rispetto al passato.
Nello scenario del mondo contemporaneo, caratterizzato dalla comunicazione di massa, dalla progressiva globalizzazione e omologazione della tipologia di rapporti interpersonali ed economici, l’opera d’arte relazionale assume la funzione di interstizio, ovverosia uno spazio in cui si creano alternative di vita possibili.
Il teorico francese osservò con occhio critico le pratiche e i processi di numerosi artisti contemporanei, segnalando l’attività di alcuni artisti, definiti da lui operatori di segni o semionauti (in particolare menzionò il lavoro di Félix Gonzáles-Torres, Philippe Parreno, Rirkrit Tiravanija, Liam Gillick e Carsten Höller). In Italia, i primi esempi di arte relazionale si riscontrano negli anni Ottanta. L’artista sarda Maria Lai nel 1981 eseguì una performance straordinaria intitolata Legarsi alla montagna, che richiese la partecipazione degli abitanti di un intero borgo, quello di Ulassai in Sardegna. Nel 1984 si formò poi il collettivo Gruppo di Piombino: sotto l’egida del teorico Domenico Nardone, si riunirono gli artisti Pino Modica, Stefano Fontana, Salvatore Falci, Cesare Pietroiusti. Il gruppo fu attivo fino al 1991 e nacque in controtendenza alle forme d’arte della Transavanguardia italiana e all’Anacronismo, e a tutte quelle forme d’arte imperanti in Italia che tendevano al recupero citazionista di strumenti e materiali tradizionali. Nonostante il nome, il gruppo fu attivo per lo più tra Roma e Milano e con le sue ricerche contribuì alla formazione dell’arte relazionale.
Nel contesto del movimento relazionale, l’arte fu percepita come un’attività da condividere. In Italia, il critico d’arte Roberto Pinto contribuì all’effettiva affermazione e teorizzazione dell’arte relazionale con una mostra organizzata nel 1993, intitolata Forme di relazione. Con questa mostra, il concetto di relazione entrò a far parte di indagini e ricerche che si addensarono intorno al Progetto Oreste: diversi critici, artisti, intellettuali e letterati si riunirono e scelsero di lavorare insieme per la creazione di idee da condividere in spazi, incontri informali e convivi.
L’arte relazionale è prima di tutto condivisione e dunque partecipativa. Seguirono altre realtà, come il collettivo “Stalker”, formato da artisti e architetti, che nacque nel 1995. Stalker ebbe l’obiettivo di svolgere attività territoriali in un determinato spazio, tramite l’esplorazione e la relazione. Ad esempio, l’azione I territori attuali vede impegnato il collettivo in una camminata di 5 giorni consecutivi nella città di Roma, lungo quello che viene definito il suo "lato oscuro”.
Rispetto all’arte tradizionale, quella relazionale venne pensata per essere fruita in un determinato hic et nunc. In un momento preciso, per un pubblico chiamato e invitato appositamente per la fruizione. In queste precise coordinate, l’artista si attiva per orchestrare un processo di scambio intellettuale e partecipazione fisica, attivando la creatività di visitatori e protagonisti.
In Italia, l’artista Maria Lai eseguì la performance Legarsi alla montagna nel 1981: la comunità di Ulassai, in provincia di Nuoro, partecipò ad un evento unico durato tre giorni. L’operazione partì in un giorno significativo, l’8 settembre. Il protagonista fu essenzialmente un nastro azzurro lungo 27 km che fu agganciato fra le porte, le finestre e le terrazze delle case del paesino. Con questo nastro, Maria Lai fece dell’arte uno strumento per ridisegnare le relazioni, rappresentò le coesioni sociali innescando una riflessione culturale volta ad arricchire il tessuto umano e territoriale della comunità cittadina. Si trattò di una festa, alla fine della quale alcuni scalatori esperti legarono il nastro al Monte Gedili, il più alto del paese. Purtroppo, su questa operazione cadde il silenzio per più di vent’anni. Solo recentemente è maturata una consapevolezza per cui è dato riconoscere a Maria Lai il merito di aver realizzato, quel giorno dell’8 settembre, la prima operazione d’arte relazionale, con tratti affini all’ambito della land art.
Nell’ambiente artistico relazionale operò anche il Gruppo di Piombino con azioni d’interazione realizzate in contesti urbani. Nel loro allontanarsi dalle forme d’arte contemporanea dominanti in Italia, il gruppo propose idee e concetti lontani dalle tendenze a realizzare manufatti estetici con l’impiego e il recupero di tecniche tradizionali, qualcosa che succedeva puntualmente nel panorama culturale italiano degli anni Ottanta. L’opera del gruppo cominciò alla fine del 1984, quando Falci, Fontana e Pino Modica esposero Sosta Quindici Minuti, firmando collettivamente. L’opera consiste di cinque sedie sistemate per la prima volta nei Giardini della Biennale di Venezia del 1984.
Nel 1992, a Roma Pino Modica realizzò l’opera Buono di prenotazione d’acquisto, finanziando sei buoni del valore di 250.000 lire l’uno. I buoni furono distribuiti ai cittadini extracomunitari tramite una lotteria svoltasi presso i locali della CGIL. Gli immigrati poterono spenderli presso un qualunque esercizio cittadino da loro scelto; successivamente l’artista presentò nella Galleria Alice sei piattaforme, su ognuna della quale vennero esposte le merci scelte dai sei acquirenti. Fu un’operazione con la quale l’artista mirò ad alterare il modello percettivo che solitamente un commerciante ha dell’immigrato, ora non questuante ma acquirente: così facendo esplorò il processo di determinazione dell’oggetto legandolo fortemente alla questione dell’immigrazione. In questo senso emerge molto l’aspetto di attivismo politico che l’Arte Relazionale reclama. Nel 1995 a Roma si formò il collettivo Stalker: questo procedeva all’indagine ed alla formazione di una conoscenza del territorio tramite alcune attività di gruppo. Gli spazi deputati all’interesse della ricerca erano perlopiù realtà di margine, territori abbandonati. Stalker interveniva in questi spazi in senso sperimentale, fondando le proprie modalità d’espressione su pratiche esplorative, di ascolto, relazionali e di ambiente conviviale. La progettazione è collaborativa e l’ambiente è indagato assieme agli abitanti, con gli immaginari e gli archivi della memoria. Questi strumenti di conoscenza si pongono l’obiettivo di incoraggiare l’evoluzione e lo sviluppo dei processi tramite la tessitura di relazioni sociali e ambientali, proprio laddove sono venute a mancare. Tale assenza di relazioni e interazioni è infatti testimoniato dallo stato di abbandono e degrado degli ambienti interessati. I territori attuali, questo il titolo, è stata una delle prime azioni del collettivo, durante la quale il gruppo ha camminato sessanta chilometri nella città di Roma per cinque giorni consecutivi, percorrendo "il lato scuro della città”.
All’estero, la voce di Nicolas Bourriaud aveva definito i lineamenti dell’Arte Relazionale in Relational Aesthetics (1998). Non si tratta di un’opera d’arte, ma è una pubblicazione che ha definito l’estetica relazionale, influenzando molti artisti nella creazione di opere che promossero l’interazione sociale. Il teorico rilevò qui i nomi di grande interesse coinvolti in questo ambito, quelli dei cosiddetti semionauti.
Rirkrit Tiravanija, ad esempio, nel 1992 realizzò Untitled (Free): in una galleria d’arte, l’artista trasformò l’ambiente in una cucina dove invitò alcuni visitatori. Cucinò e servì cibo thailandese per tutti, gratuitamente, creando un ambiente sereno, di condivisione e dialogo. Sempre nei primi anni Novanta emerse l’artista inglese Angela Bulloch, che si inserisce nel contesto dell’arte relazionale attraverso opere che coinvolgono direttamente il pubblico e che esplorano il concetto di interazione e partecipazione. Le sue installazioni non sono semplici oggetti da osservare passivamente, ma strumenti attraverso i quali lo spettatore è chiamato a interagire, modificare o completare l’opera. Un esempio emblematico sono le Pixel Box, una delle sue opere più celebri. Queste installazioni consistono in moduli luminosi che si illuminano in base a determinate interazioni. Le Pixel Box non sono solo sculture luminose, ma dispositivi che rispondono a stimoli esterni, come la presenza umana o suoni, creando così un dialogo tra l’opera e lo spettatore. In questo modo, Bulloch rende evidente come l’opera d’arte possa essere una piattaforma per la costruzione di relazioni, sia fisiche che concettuali.
Anche l’arte di Félix González-Torres venne definita relazionale. L’artista usò abitualmente file di luci intrecciate, fogli di carta, cartelloni pubblicitari, orologi, mucchi di caramelle colorate, l’artista, senza remore né pudore, invitò il pubblico ad entrare nella sua vita e a prenderne parte, anche se per pochissimo. Per questo motivo la sua arte è relazionale: la presenza dell’amante Ross Laycock e l’amore che González-Torres provò per lui, può essere percepita nella ricorrenza, quasi maniacale, del numero due: in Untitled (perfect lovers), installazione proposta più volta tra il 1987 e 1990, due orologi, con il loro andamento perfettamente sincronizzato, simboleggiano il legame che trascende gli oggetti in sé, anche oltre la morte, in un movimento perpetuo e all’unisono. Particolarmente esemplificativa è Untitled (Para Un Hombre En Uniforme), opera composta una catasta di caramelle incartate, distribuite sul pavimento della galleria. Le caramelle, che possono essere prese dai visitatori, rappresentano il peso corporeo di Ross Laycock, il compagno dell’artista, che si ridusse progressivamente a causa dell’AIDS che lo aveva colpito. Le caramelle sono disposte in modo ordinato e uniforme, richiamando l’idea dell’ordine militare e della disciplina, come suggerisce il titolo, che si riferisce a “un uomo in uniforme”. Un aspetto fondamentale dell’opera di González-Torres è proprio l’interazione con il pubblico. Nel caso di Untitled (Para Un Hombre En Uniforme), i visitatori sono invitati a prendere una caramella, simboleggiando la partecipazione alla memoria e al dolore dell’artista. Questo gesto crea una connessione intima tra l’opera, l’artista e il pubblico, e allo stesso tempo porta alla progressiva dissoluzione dell’opera stessa, riflettendo l’inevitabile perdita e l’impermanenza della vita.
Come già fece Pino Modica nel 1992, anche all’estero venne affrontata la tematica dell’integrazione delle minoranze etniche in contesti sociali dal capitalismo dominante. L’artista relazionale danese Jens Haaning realizzò Turkish Jokes per la prima volta nel 1994: per mezzo di un altoparlante installato in una piazza a Copenaghen, venne diffusa una serie di storielle in lingua turca. La performance venne ripetuta anche in altre città come Oslo, Berlino e Mosca.
Bourriaud osservò che la diffusione delle storielle e la conseguente comprensione da parte del gruppo etnico minoritario determinò l’inclusione sociale. Inoltre, essendo le storielle di natura ludica, quelle suscitavano un riso che consentì la visualizzazione della rete di relazioni che si formava tra le persone, connesse e contagiate dai loro stessi sorrisi. Questa formazione di rete e relazioni sottraevano l’emigrante all’isolamento della sua condizione di straniero. Jens Haaning utilizzò la risata come uno strumento relazionale ed universale di linguaggio.
Altro nome evidenziato da Bourriaud è quello di Carsten Höller. Nel 2006, l’artista belga realizzò Test Site, che consistette in un’installazione negli ambienti della Tate Modern di Londra. L’opera relazionale fu composta da grandi scivoli e i visitatori invitati a interagire giocando con l’opera, uscendo dalla zona di osservazione passiva per partecipare attivamente (operazione replicata poi anche a Firenze, a Palazzo Strozzi, nel 2018 con The Florence Experiment).
Associato al movimento dell’arte relazionale è anche il padovano Maurizio Cattelan, che non si è mai definito esplicitamente come un artista relazionale, ma molte delle sue opere riflettono i principi di questo movimento. Le sue installazioni, performance e sculture creano spesso situazioni che invitano il pubblico a riflettere, reagire e interagire con l’opera in modi inaspettati, e spesso tendono a creare polemiche alle quali il pubblico, anche di non addetti ai lavori, partecipa tramite stampa o social network, innescando quindi processi partecipativi che neppure presuppongono la visione diretta, dal vivo, dell’opera. Ne è un esempio Comedian, del 2019: questa famosa opera, che consiste in una banana attaccata al muro con del nastro adesivo, è un esempio perfetto di come Cattelan utilizzi l’ironia per suscitare discussione. L’opera non è tanto l’oggetto fisico quanto la reazione che provoca nel pubblico e nei media. La banana, un oggetto banale, viene trasformata in un’opera d’arte dal contesto e dalle dinamiche sociali che crea, riflettendo l’idea relazionale dell’arte come mezzo per generare dialogo. L’opera segue concettualmente A Perfect Day (1999): In questa installazione, Cattelan ha letteralmente appeso il suo gallerista Massimo De Carlo a un muro con del nastro adesivo. L’opera gioca sul concetto di potere e controllo nelle relazioni tra artista e gallerista, ma è anche una provocazione che richiede al pubblico di riflettere sulle dinamiche di potere nel mondo dell’arte. L’interazione qui non è solo tra l’opera e il pubblico, ma anche tra l’artista e il suo collaboratore, rendendo l’opera un dialogo a più livelli. Oppure si può prendere a esempio America, del 2017: questa scultura, un gabinetto interamente realizzato in oro massiccio e perfettamente funzionante, è stata esposta al Guggenheim di New York, dove i visitatori potevano effettivamente usarlo. L’opera non solo mette in discussione il concetto di lusso e ricchezza, ma crea anche un’interazione diretta e intima con il pubblico, rendendo l’esperienza dell’arte qualcosa di personale e fisico.
Ancora, il francese Pierre Huyghe è noto per le sue installazioni complesse e immersive, che spesso combinano elementi visivi, sonori, performativi e viventi. Le sue opere esplorano la natura della percezione e della partecipazione, sfidando i confini tra realtà e finzione, naturale e artificiale, umano e non umano. Particolarmente significativa in questo senso è la serie Zoodram, che impiegano creature viventi (acquari con pesci e crostacei oltre che piante) per esplorarne comportamento e interazioni, ovviamente anche davanti a un pubblico: queste opere sono come riproduzioni di fenomeni sociali. In Francia è rilevante anche il lavoro di Xavier Veilhan, le cui opere spesso cercano di coinvolgere il pubblico in maniera diretta, incoraggiando l’interazione e la partecipazione attiva. Questo approccio si manifesta sia nella creazione di spazi pubblici che invitano alla contemplazione collettiva, sia nell’uso di materiali e forme che stimolano un dialogo tra l’opera e l’osservatore. Celebre la sua opera Studio Venezia (2017): realizzata per il padiglione francese alla Biennale di Venezia, questa installazione rappresenta un vero e proprio studio di registrazione musicale, dove artisti di tutto il mondo sono stati invitati a esibirsi durante l’evento. L’opera non solo esplora l’interazione tra arte visiva e musica, ma crea anche un luogo di scambio culturale e collaborazione creativa, incarnando i principi dell’arte relazionale.
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