Parrà strano a dirsi, ma la banana di Maurizio Cattelan ha un illustre precedente, se si parla di cibo elevato a opera d’arte. E certo non si parla di secentesche nature morte colme di frutti d’ogni specie e varietà, né dei gelati e degli hamburger giganti di Claes Oldenburg, tanto meno della Struttura che mangia di Giovanni Anselmo (dove il cespo di lattuga era parte d’un insieme in cui l’ineludibile marcescenza del vegetale aveva un ruolo centrale), men che mai dell’acclamata banana di Andy Warhol che i più hanno (con pertinenza) accostato alla nuova Comedian di Cattelan, la banana attaccata con nastro isolante alla parete dello stand di Perrotin all’edizione di quest’anno di Art Basel Miami Beach. Niente di tutto ciò: qui si parla di vero cibo venduto ai collezionisti come opera d’arte. Era il 1961 quando un ex artista d’Amburgo, diventato poi gallerista, Addi Köpcke, organizzò una mostra di Daniel Spoerri, intitolata Der Krämerladen, nella sua galleria di Copenaghen: il locale era stato letteralmente trasformato in una bottega d’alimentari, con vero cibo che i collezionisti potevano accquistare (certo: al corrente prezzo di mercato dell’oggetto, non a decine di migliaia di dollari come la banana di Cattelan). Sui generi che venivano comperati, Spoerri apponeva un timbro con su stampigliata la scritta Attention, oeuvre d’art. Cattelan, al contrario, a chi acquista la sua banana garantisce un certificato d’autenticità, suggerendo tuttavia di cambiare il frutto nel momento in cui le sue condizioni non lo rendono più utilizzabile.
L’intento primario di Spoerri non era poi così lontano da quello che potrebbe animare la banana di Cattelan: Spoerri si domandava se un pomodoro finisse d’esser semplicemente un pomodoro nel momento in cui lo si elevava a opera d’arte. La risposta sta nel valore che s’attribuisce a quel pomodoro: quando il collezionista lo compra come opera d’arte, è consapevole di partecipare a un grande spettacolo, e come in uno spettacolo la finzione diventa verità. La banana è un nuovo atto di questo spettacolo, il più recente, forse neanche il più irriverente, di sicuro non il più originale. E il titolo che l’artista ha scelto, Comedian, dovrebbe render palese ed evidente che la banana, molto semplicemente, seguita a tener sollevato il sipario.
A questa riflessione si può aggiungere la constatazione che, come suole accadere per ogni spettacolo credibile, la pièce funziona solo se interpretata da attori titolati. Attaccare una banana al muro non è condizione sufficiente e necessaria per definirsi artista: è il percorso compiuto per arrivare a quella banana che la tramuta in un’opera d’arte e che le garantisce uno status inequivocabile (poco importa che la si consideri un lavoro interessante o, viceversa, un’opera fiacca, e poco importa che la si reputi una bravata dell’artista: del resto è innegabile che quest’ultima proposta di Cattelan sia sostenuta da una vena ironica, goliardica, burlesca: semmai, toccherà interrogarsi su chi sia il destinatario della burla), è il lavoro che l’artista ha compiuto in precedenza a dividere Cattelan da qualsiasi velleitario imitatore o dai pittori da sagra paesana che lo attaccano non avendo ancora ben chiaro che l’arte, negli ultimi cent’anni, ha conosciuto alcune modificazioni e alcuni sviluppi e non è più ferma ai ritratti di vecchie o agli scorci di campagne fiorite di lavanda. E in Comedian tutto parla di Maurizio Cattelan, tutto è Maurizio Cattelan. La parete bianca, la banana chiazzata di macchie marroni ch’è giunta al culmine del suo processo di maturazione e di lì a breve comincerà a deperirsi, il nastro isolante che la fissa al muro, il valore commerciale attribuito all’opera, il clamore mediatico, le reazioni del pubblico, le divisioni della critica.
Da Der Krämerladen a Comedian son passati quasi sessant’anni, e nel frattempo l’arte ha conosciuto altri numerosi e fondamentali apporti. Il raffronto più frequente, come s’è detto, tende a far risalire le origini della banana di Cattelan a quella che Andy Warhol, sempre negli anni Sessanta, immaginò per la copertina di The Velvet Underground & Nico, fondamentale album del gruppo di Lou Reed, pubblicato nel 1967. Il rimando non è solo formale. Entrambi i frutti sono accomunati dall’inclinazione al doppio senso (in un’edizione di The Velvet Underground & Nico, la banana si poteva letteralmente sbucciare rimuovendo un adesivo, e al di sotto compariva il frutto colorato di rosa, chiara allusione fallica) e soprattutto è poco probabile pensare che Cattelan non abbia presenti le riflessioni di Warhol sulla riproducibilità dell’arte. In un’intervista, Warhol aveva chiaramente affermato che, se non ci si può permettere un dipinto, si può ricorrere al poster dell’opera che si vorrebbe vedere in casa propria. Cattelan va oltre e permette a chiunque di crearsi in pochi secondi il proprio Cattelan, il proprio ready-made duchampiano addirittura in maniera perfettamente filologica col materiale originale, e per di più con protagonista un oggetto che, nella perfetta tradizione warholiana, abbatte qualsiasi tipo di barriera, dal momento che una banana rimane una banana per chiunque, sia per il collezionista disposto a pagarla più di centomila dollari, sia per chi non può far altro che spendere una manciata di centesimi per procurarsi il frutto con cui ottenere l’opera di Cattelan. Una continuità perfetta anche con una delle più recenti opere di Cattelan, America: pare che per spiegare la sua latrina dorata, Cattelan abbia detto qualcosa come “sia che tu mangi un pasto da duecento dollari, sia che tu mangi un hamburger da due, il risultato è identico toilet-wise”. Ovvero, dal punto di vista del water closet.
Ancora, difficile non pensare (o almeno questa è la sensazione) che la banana non s’ammanti di quei significati politici che, da La nona ora ad America, da Him a Charlie don’t surf, hanno sempre connotato una parte rilevante della produzione di Cattelan. Ancora Warhol riduceva la falce e il martello a icona pop, Franco Angeli la rovesciava e la mescolava ad altri simboli per far arrivare all’osservatore una quotidianità fatta di segni e d’una politica per la quale le masse s’accendevano: Cattelan sembra quasi proseguire rovesciando a sua volta il simbolo, rendendo manifesta la sua deperibilità, caricandolo d’un (altissimo) valore economico. A voler trovar nella banana un significato politico, sarebbe il più efficace ritratto dell’attuale gauche mondiale che sia stato prodotto di recente. Pochi artisti nella storia dell’arte sono riusciti a mettere a punto una satira politica tanto corrosiva con così poco: se poi, in Comedian, questa sua cifra da Hogarth degli anni Duemiladieci è involontaria (anche se è difficile a credersi), tanto meglio.
E poi c’è il Cattelan che s’autocita, dacché è impossibile non pensare a quando, con A perfect day, esattamente vent’anni fa, l’artista appendeva Massimo De Carlo (con lo stesso nastro adesivo della banana di Miami) a una parete della sua stessa galleria. Per spiegare A perfect day, Francesco Manacorda sosteneva che, da un lato, Cattelan appiccica il mercante al muro esattamente come quest’ultimo fa coi beni che vende, inscenando con tale espediente un ennesimo paradosso autoreferenziale, mentre dall’altro l’atto dell’affissione di De Carlo rappresenta l’apice estremo della relazione tra artista e gallerista: ogni implicazione che tira in ballo soldi, potere, mercato, secondo Manacorda subisce una destabilizzazione messa in atto da quel gesto sadico (nel vero senso della parola: alla fine dell’anteprima della performance, De Carlo aveva avuto un malore, aveva perso i sensi ed era finito al pronto soccorso) ch’evoca una crocifissione e che si spinge ben oltre il gesto di Vincent D’Arista, che nella Napoli degli anni Settanta legava Pasquale Trisorio come un insaccato, facendolo giacere sul pavimento della sua galleria con l’intento di distruggere la galleria e il gallerista. Cattelan non s’era limitato a legarlo: lo aveva crocifisso e, sebbene non intenzionalmente (o almeno così s’immagina), mandato all’ospedale. E solo un anno prima, per una sua personale al Castello di Rivoli, Cattelan aveva sistemato alcuni carrelli da spesa sotto le opere (e cosa sono, e cosa sono sempre state primariamente le opere d’arte, se non merce cui è sempre corrisposto un valore di scambio? Toccherà ricordarselo, quando estasiati s’ammira una Madonna di Raffaello). Ancor prima, alla Biennale di Venezia del 1993, invitato da Achille Bonito Oliva che di quell’edizione fu il curatore, invece di presentare un’opera Cattelan mise simbolicamente in affitto lo spazio che gli era stato destinato, concedendolo poi in uso a un’azienda di moda per pubblicizzare un profumo. E ci sono molti altri esempî che chiariscono come l’arte di Cattelan abbia sempre avuto condotto riflessioni disincantate sul ruolo del mercato.
E, a proposito di mercato: la banana di Cattelan è forse una speculazione, come molti si son già affrettati a scrivere? Può darsi, ma nel caso si tratterebbe comunque d’una semplice emergenza d’un sistema che ha radici più profonde e sul quale occorrerebbe sviluppare un ragionamento molto più ampio e che esula dai contenuti di Comedian. Su ARTnews, Andrew Russeth ha provato a darsi una risposta scrivendo che “c’è una questione di fondo che riguarda la disparità di forze nell’industria dell’arte contemporanea, dove uno sparuto gruppo di artisti e di mercanti accumula fortune mentre tutti gli altri devono campare facendo un secondo o un terzo lavoro. Si potrebbe vedere la banana di Cattelan come una pungente caricatura di quest’imbroglio: un artista fuori dai giochi che decide di accumulare qualche guadagno extra nei ritagli di tempo in un modo che solo a lui è consentito. Comedian è uno scherzo inquietante e riguarda tutti noi“. Che Comedian sia un lavoro fondato su di una palmare, travolgente e forse anche violenta carica beffarda, è assunto difficile da negare. Pare però riduttivo derubricare il tutto a gioco, a caricatura, a provocazione (ormai Cattelan, a quasi sessant’anni, cos’avrebbe ancora da provocare, almeno nel senso deteriore del termine, quello inteso da tutti coloro che in queste ore parlano di provocazione?).
Comedian è qualcosa di più: intanto, è un’opera che trasmette dei contenuti, anche se non ci si vuol credere e anche se si vuol far finta che non dica alcunché solo perché, in fin dei conti, stiamo parlando d’una banana appesa a un muro. Sarebbe interessante scoprire chi sia stato il primo ad affermare che l’arte non dovrebbe aver bisogno di spiegazioni: chi può dire di entrare agli Uffizi e di capire opere come il Tondo Doni di Michelangelo, la Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto o la Venere di Urbino di Tiziano senza aver necessità di qualcuno che le illustri? Rievocando D’Annunzio, che cos’è la critica d’arte se non l’arte di godere l’arte? E Cattelan ci ha offerto nient’altro che un’opera di cui tutti possiamo letteralmente godere. Eventualmente anche senza vederla dal vivo.
E ad ogni modo, Comedian è opera che, comunque la si voglia pensare, trova una collocazione estremamente coerente nel percorso di Cattelan: è puro teatro, è uno spettacolo nello spettacolo, è un nuovo dramma di cui Cattelan è il regista (un regista di quelli che forse poco o niente si curano della reazione del pubblico), e del quale noi siamo spettatori cui spetta decidere come trovare la pièce: possiamo essere divertiti, tristi, serî, annoiati, furiosi, saccenti, indifferenti, astiosi, frustrati. Non ha importanza. E ugualmente poco cambia se l’opera sia stata effettivamente venduta o meno, o se il lavoro di Cattelan venga ritenuto, tutto sommato, poco innovativo quale in effetti è, o inevitabilmente ancorato al suo linguaggio postmoderno: del resto, anche quando visitiamo qualsiasi museo di storia dell’arte vediamo schiere di artisti poco o per niente innovativi. L’interesse che Cattelan continua a suscitare sta anche nel fatto che tutti siamo pronti a diventare spettatori più o meno coinvolti d’ogni più minuscola azione che gli baleni nella mente.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).