Visitando il Museo di Palazzo Taglieschi ad Anghiari, dove è conservata una meravigliosa scultura in legno policromo di Jacopo della Quercia, capiterà d’imbattersi in una curiosissima lastra in pietra serena, materiale tipico di questa zona della Toscana (e che molto materiale da costruzione ha fornito anche per Firenze), in cui si trova tracciata una mappa di uno Stato che forse non molti hanno sentito nominare: la Repubblica di Cospaia. Sopra alla lastra, si vede invece un bassorilievo, anch’esso in pietra serena, che reca la “Formula” della Repubblica: “Cospaie Perpetua Et Firma Libertas”, ovvero “Libertà perpetua e sicura di Cospaia”. Non si tratta di due lastre fatte per scherzo, ma di due reperti legati a uno Stato che non solo è realmente esistito, ma che durò addirittura quattrocento anni. Lo spazio che occupava era decisamente ridotto: la Repubblica di Cospaia era una specie di striscia di terra lunga due chilometri e mezzo e larga appena cinquecento metri, che corrispondeva al villaggio di Cospaia, località tuttora esistente, al confine tra Toscana e Umbria in Valtiberina, a metà strada esatta tra Sansepolcro, in provincia di Arezzo, e San Giustino, in provincia di Perugia (oggi è frazione del Comune umbro).
Il territorio della Repubblica corrispondeva niente più che al villaggio e ai campi che lo circondavano. Una Repubblica che rimase indipendente dal 1441 al 1826. Ancora oggi, se si percorre la strada statale che attraversa la Valtiberina, poco dopo Sansepolcro si potrà facilmente notare un cartello che indica la direzione verso la “Ex Repubblica di Cospaia”. Con tanto di estremi cronologici. Qual è la storia di questo staterello di poche anime? Come fu possibile la creazione di un soggetto statuale nel mezzo del centro Italia, tra il territorio della Repubblica di Firenze, dalla quale dipendeva Sansepolcro, e lo Stato Pontificio che invece aveva giurisdizione sull’attuale Umbria? Deriva tutto da un errore negli atti che, nel 1441, stabilivano i nuovi confini di questi territori dopo che papa Eugenio IV cedette Sansepolcro, allora pontificia, a Firenze. “Ai diletti figli, Comune e popolo di Firenze salute”: si apriva così l’atto, scritto in latino (qui in italiano nella traduzione dello storico Angelo Ascani), con cui Eugenio IV donava la città di Piero della Francesca ai fiorentini. “Poiché per le molteplici e dispendiose opere che incombono su Noi e su la Chiesa Romana e che la Camera apostolica non ha fondi per sostenerle a causa delle difficoltà del momento, voi ci avete prestato 25 mila fiorini d’oro di sigillo, da Noi ricevuti in contanti a nome vostro dal nobilissimo figlio Cosimo Giovanni de’ Medici domicello fiorentino; e poiché vogliamo darvene secondo giustizia una sicura garanzia, la terra di Borgo Sansepolcro spettante di pieno diritto a Noi e alla suddetta Chiesa, con tutti i suoi diritti, territori e le pertinenze vi concediamo ed assegniamo per l’autorità apostolica e come pegno dei 25 mila fiorini. E finché voi terrete quella terra in pegno, Noi per la stessa autorità concediamo il mero e misto impero, il potere della spada e qualsivoglia giurisdizione territoriale uguale a quella esercitata finora dalla Chiesa; ed insieme la facoltà d’eleggervi o di deporvi il podestà, i consueti offiziali e i castellani; d’esigere e di percepire i frutti, i redditi, le entrate e i proventi della terra; e infine di disporre a vostro pieno arbitrio tutto ciò che è necessario al buon governo, alla tutela e difesa della terra”.
Gli atti stabilivano che il confine tra Firenze e Stato della Chiesa doveva essere rappresentato dal torrente Rio. Tuttavia dalla zona dell’Alpe della Luna scendono due torrenti che scorrono a poca distanza l’uno dall’altro, e all’epoca entrambi erano chiamati “Rio”: oggi, per evitare fraintendimenti, quello settentrionale si chiama Gorgaccia, e quello meridionale Riascone. A causa dell’equivoco, dunque, nel momento in cui le commissioni incaricate di tracciare i confini, i fiorentini fissarono ufficialmente il confine del loro Stato nel torrente settentrionale, mentre i pontifici in quello meridionale: i circa 330 ettari che rimanevano in mezzo si trovavano, dunque, a essere uno Stato indipendente, dal momento che la collinetta su cui sorge Cospaia si trova proprio in mezzo ai due fiumi. Era diventata terra di nessuno. Né Firenze né la Chiesa rivendicarono il villaggio, all’epoca abitato da circa trecento anime. Gli abitanti, in sostanza, da un giorno all’altro si trovarono a non dipendere più né dai fiorentini, né dal papa. Liberi. Indipendenti.
Come la presero? Questa la domanda che si è posto il summenzionato Angelo Ascani. “Non è facile dirlo”, ha spiegato nel suo libro dedicato alla storia della Repubblica di Cospaia. “Ne approfittarono però, se non altro, per sottrarsi alle imposte e alle tasse di ambedue gli stati, allora come sempre molto esosi e tirannici”. E un campo che non era soggetto a imposte diventava automaticamente molto più redditizio. Poi, quando Firenze e Stato Pontificio si accorsero dell’errore, si decise di non modificare il nuovo assetto territoriale: alla fine, rimaneva comunque un microscopico Stato cuscinetto tra le due potenze, in un’epoca in cui non era difficile che due Stati confinanti venissero allo scontro. Ed era anche territorio utile per scambiare merci senza imporre dazi doganali. Così, nel 1448, la Repubblica di Cospaia venne ufficialmente riconosciuta.
Fu così, dunque, che Cospaia si dotò di una propria bandiera (con due campi, uno bianco e uno nero, divisi in diagonale: ancora oggi è usata durante rievocazioni), e di una forma di governo che oggi diremmo anarchica, nel senso che a Cospaia non esistevano un governo o un Parlamento, né esistevano leggi. Ognuno decideva per sé. Non c’era polizia, ovviamente non c’era un esercito, non c’era neanche un carcere. Solo, per dirimere le controversie venne organizzato un consiglio degli anziani e dei capifamiglia, presieduto dal curato del paese, che dal 1718 al 1826 si riuniva nella chiesa dell’Annunziata, tuttora esistente, e sulla cui architrave del portale d’ingresso si legge il motto “Perpetua et firma libertas” (prima di questo lasso di tempo le riunioni del consiglio erano invece nella casa della famiglia Valenti, la più influente della piccola repubblica). Nel caso in cui il caso giudiziario fosse particolarmente complicato, gli abitanti decidevano di ricorrere ai tribunali più vicini (quelli di Sansepolcro e di Città di Castello, scelti in base alle “simpatie delle parti”, ha scritto Ascani), e lo stesso in caso dovessero essere redatti dei contratti (si faceva dunque riferimento ai notai che risiedevano nelle città circostanti), ma senza che a Cospaia si costituisse un archivio. L’unico Stato civile era, in pratica, il registro della parrocchia, nel quale venivano segnate nascite, matrimoni e morti. Non c’erano imposte: soltanto una tassa volontaria versata dagli abitanti. I pagamenti, invece, erano in natura, perché a Cospaia non c’erano monete.
Per circa un secolo, Cospaia prosperò col lavoro dei campi e con i commerci. Poi, dal 1574, un fatto cambiò la storia del piccolo paese: il vescovo di Sansepolcro, Alfonso Tornabuoni, ricevette da suo nipote, il cardinale Niccolò Tornabuoni (a quel tempo nunzio pontificio e legato mediceo a Parigi) una serie di beni tra cui i semi di una pianta allora poco nota e molto preziosa, il tabacco, scoperto in America poco prima. Fino al 1559 era nota soprattutto in Spagna e Portogallo, dove veniva utilizzata per scopi ornamentali. A introdurre il tabacco in Italia fu un altro cardinale, Prospero Santacroce, nunzio apostolico in Portogallo: era il 1560 quando donò alcuni semi della pianta a papa Pio IV. Nello stesso anno, curiosamente, il diplomatico francese Jean Nicot (dal quale deriva l’odierno termine “nicotina”), ambasciatore in Portogallo, donò a sua volta semi e foglie di tabacco alla regina Caterina de’ Medici. Fu in quest’epoca che la pianta cominciò a essere utilizzata come essenza curativa. All’epoca, il tabacco (il nome deriva dall’isola di Tobago, nei Caraibi) era conosciuto con diversi nomi: Tornabuoni la chiamò “l’erba di Santa Croce” in virtù delle sue proprietà ritenute allora benefiche, mentre a Cospaia era “l’erba tornabuona”, dal nome di colui che l’aveva portata a Sensepolcro. E fu proprio a Cospaia che il tabacco cominciò a essere estesamente coltivato per la prima volta in Italia.
La Repubblica, dunque, diventò uno dei principali centri italiani di produzione del tabacco. Fu anche creato un piccolo lago (tuttora esistente) per consentire l’irrigazione delle coltivazioni di tabacco nei periodi di siccità. Il vantaggio di Cospaia stava nel fatto che il suo tabacco non era soggetto a imposte. La circostanza attirò dunque a Cospaia numerosi contrabbandieri per lungo tempo, oltretutto sicuri del fatto che nel piccolo Stato non avrebbero subito alcuna pena, dal momento che lì non esistevano leggi. Il declino del tabacco di Cospaia coincise con il periodo, verso la metà del Settecento, in cui il vicino Stato Pontificio liberalizzò la coltivazione di questa pianta, rendendo dunque non più così vantaggioso per i consumatori fornirsi di tabacco dalla piccola repubblica. Per il resto della sua storia, l’economia di Cospaia si resse sulla sua condizione di porto franco: gli Stati vicini avevano infatti preso a stoccare merce nel territorio della repubblica, dal momento che non era soggetta a tassazione. Poi, nel 1826, a seguito di un accordo tra Granducato di Toscana e Stato Pontificio che vollero porre fine alla storia del piccolo Stato, la Repubblica di Cospaia, con un atto di sottomissione sottoscritto da quattordici rappresentanti, venne divisa in due: una parte andò al Granducato di Toscana e una parte allo Stato della Chiesa. Come avrebbe dovuto essere quattro secoli prima. Gli abitanti, a titolo di risarcimento, ottennero un papetto, ovvero una moneta d’argento (così detta dagli abitanti in quanto raffigurava il papa dell’epoca, Leone XII) e l’autorizzazione a continuare a esercitare la coltivazione del tabacco, che non era mai cessata e che sarebbe continuata a lungo, Anzi: dopo la fine dell’indipendenza venne estesa con una certa intensità anche al territorio circostante. E ancor oggi, Cospaia è nota per il tabacco di pregio che ancora qui si coltiva. La storia di quell’antica repubblica nata per errore e rimasta romanticamente libera per quattrocento anni continua nel prodotto che più ha caratterizzato la sua storia e che più l’ha resa celebre.
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