Nascosta tra le onde turchesi del mare e scolpita dal forte vento, si erge selvaggia e custode di crude leggende, l’isola della Sardegna. Terra, questa, che possiede una bellezza indomita, dove le onde s’infrangono con forza inaudita contro gli scogli, dove le spiagge bianche si nascondo tra piccole insenature e dove l’anima si libera nell’abbraccio del mare e il respiro si fonde con il ritmo del vento. Nel profondo dell’isola, antiche rovine narrano la storia di popoli che hanno abitato queste terre secoli fa, dove nuraghi misteriosi si ergono come sentinelle del passato. Ogni pietra, ogni muro, custodisce la memoria di una storia millenaria. I racconti dei pastori e dei pescatori diventano leggende tramandate di generazione in generazione e le arti antiche, come la tessitura e la lavorazione del ferro battuto, si trasformano in vere e proprie opere che incantano i sensi. Qui il tempo scorre diversamente, pare più lento e feroce, si aggrappa alla carne obbligando l’avventuriero a vivere intensamente ogni attimo, ma è nel fittissimo intreccio tra cultura e tradizione che l’isola rivela il suo spirito più profondo e misterioso ed è proprio per questo, che per conoscere veramente la Sardegna, ci si dovrebbe staccare dalle spiagge affollate e avventurarsi nelle strade più segrete. Prima di addentrarsi in queste terre occorrerà, però, rendere edotto il viaggiatore del fatto che in sardo è spesso usato un suono, simile alla “J” francese, che non esiste in italiano che nell’isola è scritto come “X” e letto come ji (/ʒi/): lo si troverà spesso nei dieci luoghi insoliti e poco noti della Sardegna che andremo a scoprire.
“La bocca sollevò dal fiero pasto / quel peccator, forbendola a’ capelli / del capo ch’elli avea di retro guasto”. Con queste parole Dante Alighieri diede inizio al canto XXXIII dell’Inferno rendendo immortale la tragica agonia di Ugolino della Gherardesca, accusato di tradimento e lasciato morire di fame insieme ai figli Gaddo e Uguccione e i nipoti Nino e Anselmuccio per ordine dell’Arcivescovo Ruggieri. Nel basso Sulcis egli è chiamato “il conte maledetto” poiché fu proprietario del castello di Acquafredda dal 1257, ed è qui, tra le mura della struttura fortificata di epoca medievale, che svetta la maestosa “torre de s’impicadroxiu”, la torre dell’impiccato dove, con molta probabilità, fu imprigionato Vanni Gubetta, uno dei traditori del conte Ugolino. L’architettura del castello di Acquafredda è un capolavoro di ingegneria difensiva articolato su tre livelli armonici che seguono l’andamento naturale della valle del Cixerri sulla quale si erge. Dopo la morte di Ugolino nel 1288, il castello passò sotto l’egida di Pisa e successivamente agli Aragonesi nel 1324 e nel corso dei secoli, cambiò proprietà più volte fino a quando Vittorio Amedeo III di Savoia ne riscattò il possesso nel 1785.
“Carbonia non deve morire” recitava una frase scritta sui muri di via Fosse Ardeatine. Ed è vero, Carbonia non deve morire, tuttavia il male di cui soffre questa città non è di oggi, ma è nato insieme a essa nel 1938, in un epoca che spaventa e che si vorrebbe dimenticare. Fondata durante il regime fascista per l’estrazione del carbone, la città è emersa come un simbolo di duro lavoro e la sua storia dimostra come la determinazione possa superare ogni ostacolo. Proprio qui, nella miniera di Serbariu ormai inutilizzata, è stato costruito il museo del carbone: un centro culturale in cui si si scoprono i segreti di un lavoro durissimo e spesso mortale che ha accompagnato la città per decenni. Il visitatore, accompagnato da una guida, potrà addentrarsi tra le anguste e caldissime gallerie sotterranee esplorando le profondità di un passato industriale. Un museo, questo, che svolge un ruolo fondamentale nel preservare la memoria di un’epoca che ha lasciato un’impronta indelebile sulla città di Carbonia e sul suo popolo.
Nel corso degli anni Quaranta, l’archeologo Giovanni Lilliu, scoprì e portò alla luce l’area archeologica di Su Nuraxi che prende il nome proprio dagli edifici più conosciuti dell’isola, ovvero i nuraghi. La civiltà nuragica fiorì attraverso un lasso di tempo di circa un millennio, tra il 1500 e il 500 a.C., dando origine a una trama sociale intricata ed estremamente sofisticata e su Nuraxi testimonia proprio il suo costante cambiamento nei millenni, dalle abitazioni alla vita urbana. La costruzione del sito di Barumini risale all’età del bronzo (1900-730 a.C.) e fu costruito su un’altura che domina la pianura circostante. È composto da una serie di edifici in pietra, tra cui il nuraghe centrale, una torre a tholos, quattro torri perimetrali e una cinta muraria. Inizialmente destinato a ospitare una singola famiglia, nel corso del tempo il corpo centrale fu inglobato da altre quattro torri e infine da una cinta muraria, diventando un villaggio fortificato. Un luogo, questo, ancora oggi avvolto nel mistero, ma che, nonostante tutto, ha lasciato la più preziosa eredità di una civiltà della quale abbiamo ancora molto da scoprire.
Vagando tra campi dorati e dolci colline il più curioso tra i viaggiatori, potrebbe imbattersi nella solitaria basilica di Saccargia: un affascinante edificio religioso, situato nei pressi di Codrongianos. Risale al 1112 la menzione della basilica tra i possedimenti dei monaci camaldolesi e la sua storia racconta di Costantino I di Torres e sua moglie Marcusa, i quali, dopo un pellegrinaggio alla basilica di San Gavino a Porto Torres, furono ispirati da una sacra apparizione a costruire questo tempio consacrato nel 1116. L’area, inizialmente conosciuta come Sacraria, porta con sé l’eco di culti ancestrali e devozione. La leggenda, come un sottile filo tessuto nel tempo, narra di una s’acca argia, “vacca pezzata, maculata” che si inginocchiava davanti al monastero, offrendo il suo latte ai frati in segno di preghiera. La chiesa, che presenta un impianto basilicale longitudinale a croce commissa con absidi semicircolari, è oggi un connubio armonioso di stili e influenze, un viaggio attraverso i secoli che si svela agli occhi dei visitatori. La basilica si compone di due distinti stili costruttivi: le mura in cantonetti calcarei bianchi e basaltici scuri, leggermente sbozzati che rappresentano il lavoro delle maestranze pisane tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, mentre l’opera bicroma regolare è attribuita all’ambito pisano-pistoiese nel secondo XII secolo.
Si narra che tra le mura del castello di Burgos, dimori un essere gigantesco e terribile che in vita fu un guerriero invincibile, arrivato in Sardegna durante il periodo della dominazione Spagnola. Per anni trucidò contadini sardi senza un apparente motivo e dopo la sua morte la sua anima continuò a vagare tra le mura del castello, alimentando moltissime macabre leggende popolari. Ed è così che il castello di Burgos, anche grazie alla sua posizione a picco su un masso granitico, rimane ancora oggi avvolto in una strana aura di mistero. La sua maestosa struttura fu costruita nel 1134 per volontà di Gonario I di Torres e da qui in poi fu palcoscenico di ferocissimi omicidi. Era considerato uno dei manieri meglio protetti della Sardegna grazie alla triplice cinta muraria realizzata con blocchi di granito e al cui centro sorge, ancora oggi, una torre di 16 metri che tutto vede.
Oltre le sue spettacolari bellezze naturali caratterizzate da gole profondissime, pareti montuose difficili da scalare e grotte sotterranee, Ulassai è stata la città natale dell’artista Maria Lai che la trasformò in un teatro per la sua arte. Tra paesaggi montani e la maestosità delle gole, sorge la Stazione dell’arte: un luogo che incarna l’ispirazione artistica e la connessione con la natura incontaminata. Inaugurato nel 2006, in seguito a una donazione di oltre centoquaranta opere di Maria Lai, il museo sorge oggi nell’ex stazione ferroviaria a valle del paese, sferzata tutto l’anno da un fortissimo vento. La scelta del luogo ben si presta a comunicare uno degli intenti più cari del lavoro dell’artista, ovvero quello di avvicinare l’arte alle persone.
Galtellì, un affascinante borgo situato nella regione della Baronia, è lo scenario del romanzo “Canne al Vento”, il lavoro più conosciuto di Grazia Deledda. In questo luogo, la scrittrice trascorse del tempo presso la dimora delle Dame Pintor, delle quali fornisce una dettagliata descrizione nel suo libro. Nel contesto del paese, Deledda menziona il suggestivo Monte Tuttavista, le suggestive rovine del Castello di Pontes e la graziosa Chiesa di San Pietro, di stile romanico pisano. All’interno della basilica, si possono ammirare splendidi affreschi realizzati da artisti umbro-laziali e preziose statue lignee provenienti dalle scuole artistiche sarde e napoletane. La scrittrice ne parla così: “La basilica si stava sgretolando; tutto intorno regnava un’atmosfera grigia, umida e impolverata: attraverso le aperture del tetto in legno filtravano raggi di polvere argentata che scendevano sulla testa delle donne inginocchiate a terra, mentre le figure dal tono giallognolo che emergono dalle crepe dei dipinti appesi alle pareti sembravano simili a queste donne vestite di nero e viola…”
Incastonata tra due alti pareti di roccia dolomitica, le sorgenti di Su Gologone, si diramano dalle viscere del Supramonte e trovano la luce, ai piedi del monte Uddè, attraverso una grande fenditura di acqua color smeraldo. Le acque della sorgente provengono principalmente dal Supramonte di Oliena, Orgosolo, Dorgali e Urzulei. Nel corso dei millenni, vari fiumi hanno scavato i propri alvei nelle profondità della Terra, formando un intreccio fittissimo di grotte che portano alla sorgente. Questo tunnel sotterraneo è stato studiato a partire dal 1999, anni in cui gli speleologi della Federazione Speleologica Sarda hanno iniettato un colorante atossico nel fine sotterraneo per capirne il flusso e, dopo un viaggio durato circa un mese attraverso il cuore del Supramonte, riemerse dalla sorgente di Su Gologone. In questo modo si scoprì che il piccolo lago incastonato nella roccia è la fine di un lunghissimo fiume sotterraneo, in cui acqua e luce finalmente si incontrano per la prima volta.
Esempio straordinario di come l’arte sia un mezzo potente per raccontare, preservare la storia e creare un legame profondo tra passato e presente è Orgosolo. Ogni murale è un’opportunità per colorare il mondo di emozioni, riflessioni e un senso di appartenenza, donando al paese un’identità artistica unica. Questa forma di espressione artistica unisce l’arte contemporanea al tessuto storico e culturale della regione, offrendo una prospettiva unica sulla vita quotidiana, sulle speranze e le sfide dei suoi abitanti, creando una finestra sulla storia della Sardegna. Nati per protesta politica nel 1969, i dipinti oggi narrano anche storie di speranza, bellezza, oppure danno corpo e colore a citazioni e canzoni di grandi personalità innamorate di questa strana isola come De Andrè.
Il cantautore Fabrizio De Andrè fu un grandissimo amante delle terre sarde e nonostante il suo rapimento per mano dell’anonima sequestri, in cui visse attimi di terrore presso “l’hotel Supramonte”, non smise mai di abitare questo suo piccolo angolo di paradiso in terra, ma anzi ne consolidò il legame. Era il 1975 quando Fabrizio De André e Dori Ghezzi acquistarono la tenuta dell’Agnata, all’epoca essa non era altro che uno “stazzu” semi abbandonato, ma i due risiedettero qui fin da subito, anche senza porte e luci tanto era l’amore per la terra. Il cantautore scelse l’Agnata per realizzare il suo sogno di bambino, quando la famiglia lo mise in salvo dalla guerra fuggendo vicino ad Asti. A casa della nonna imparò ad amare così fortemente la terra e tutto ciò che da esse deriva de decidere che, prima o poi, una volta diventato grande avrebbe avuto un posto nel mondo tutto suo.
La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER